• Mondo
  • Domenica 28 ottobre 2018

Vivere in un campo profughi è ancora più duro per le donne

Negli hotspot delle isole greche subiscono molestie e violenze: anche andare in bagno, per esempio, può rappresentare un pericolo

Alcune donne fuori dal campo profughi di Moria, sull'isola di Lesbo, in Grecia, il 25 settembre 2018 (ARIS MESSINIS/AFP/Getty Images)
Alcune donne fuori dal campo profughi di Moria, sull'isola di Lesbo, in Grecia, il 25 settembre 2018 (ARIS MESSINIS/AFP/Getty Images)

Sulle isole della Grecia i cosiddetti hotspot per migranti, i centri di identificazione e smistamento istituiti dall’Unione Europea, sono diversi da quelli italiani. Non sono strutture dove i migranti restano temporaneamente, ma di fatto sono diventati grandi campi profughi in cui i migranti devono restare molto a lungo – in alcuni casi fino a due anni – in condizioni pessime. La situazione è ancora più dura per le donne, spiega un recente rapporto dell’ong Amnesty International messo insieme intervistando per mesi più di cento donne e ragazze.

Nei cinque hotspot delle isole greche del mar Egeo orientale – Lesbo, Chio, Samo, Lero e Kos – alla fine di settembre vivevano più di 16mila persone, nonostante la capienza massima totale sia di 6.438. Dei 16mila migranti negli hotspot, il 34 per cento sono donne; il 12 per cento sono ragazze con meno di 18 anni.

L’hotspot più grande e affollato è quello di Moria, a Lesbo, dove vivono più di ottomila persone sebbene in teoria dovrebbero starcene al massimo 3.100. Attorno al campo principale, circondato da muri sovrastati da filo spinato, c’è una tendopoli dove i pasti ci mettono ore ad essere distribuiti e in cui c’è un bagno ogni settanta persone. A volte capita che non ci sia acqua potabile per tutti, e ci siano infestazioni di ratti.

Non è un bel posto in cui vivere. Per le donne è ancora più dura che per gli uomini per varie ragioni: ad esempio perché sono più esposte a molestie e violenze sessuali, non ricevono cure mediche adeguate quando sono incinte, fanno fatica a ottenere assorbenti igienici, che non sempre sono forniti gratuitamente, e spesso non ci sono interpreti donne con cui si troverebbero meglio a parlare dei propri problemi. Manca anche personale qualificato ad aiutarle ad affrontare le violenze e i traumi subiti durante il viaggio per raggiungere la Grecia: alcune sono state stuprate, altre costrette a prostituirsi con trafficanti di esseri umani per ottenere un passaggio a bordo di una barca, e così via.

Gli individui considerati “vulnerabili”, tra cui le donne incinte, le madri con bambini molto piccoli e le donne sopravvissute a una violenza sessuale, dovrebbero avere la precedenza per essere trasferite dalle isole alla Grecia continentale, dove il processo di valutazione delle loro richieste d’asilo dovrebbe essere accelerato e dove dovrebbero esserci strutture e personale più adatti alla loro accoglienza. Tuttavia non sempre le persone vulnerabili vengono riconosciute come tali, e anche quando succede devono comunque aspettare dei mesi per poter essere trasferite. Molte donne incinte hanno detto ad Amnesty International di aver dovuto dormire per terra e di non aver ricevuto cure mediche specifiche durante la gravidanza.

Yvette, una donna proveniente dal Camerun che ha raccontato la sua esperienza a Moria ad Amnesty International lo scorso marzo, ha detto che a un certo punto ha rinunciato al proprio letto perché potesse essere usato da una donna incinta: «Sono madre, quindi so quanto è difficile per loro».

Ad agosto Amal, una migrante palestinese che in passato ha vissuto a Moria, ha detto ad Amnesty che la sezione del campo riservata alle donne sole è piena e per questo le nuove arrivate devono stare in grandi tende all’ingresso del campo, anche per due o tre mesi. Maysa, una 25enne siriana che a febbraio viveva nel campo di Vathy, a Samo, ha detto ad Amnesty di non sentirsi sicura nella tenda in cui dormiva insieme a tante sconosciute: per questo passava la maggior parte del tempo in un centro gestito da un gruppo di volontari o sulla spiaggia.

Per le donne sole, e ancora di più per quelle omosessuali o transgender, la vita nei campi è particolarmente complicata. Simone, una ventenne lesbica nel campo di Vathy, ha raccontato di aver lasciato il proprio paese, dove l’omosessualità è illegale, dopo essere stata cacciata dalla propria famiglia ed essere stata stuprata. A Samo non si sentiva sicura perché costretta a vivere in un container insieme ad altre otto persone, tra cui quattro uomini: «Non voglio che nessuno sappia di me. Sto fuori dal campo tutto il giorno e rientro solo per la notte ma non dormo bene». A Sarina, una donna transgender di 29 anni, le cose vanno ancora peggio: dopo essere stata più volte picchiata e minacciata di morte dal proprio fratello, è fuggita in Turchia e poi su un’isola greca dove però è stata più volte aggredita verbalmente e fisicamente, oltre che molestata dalla polizia.

La giornalista della tv tedesca Deutsche Welle Marianna Karakoulaki ha parlato con alcune delle donne che vivono a Moria e si è fatta spiegare meglio alcune cose che capitano solo alle donne. Amal, una giovane donna proveniente dallo Yemen, le ha detto che anche solo andare in bagno può essere pericoloso: agli uomini non è permesso di avvicinarsi ai bagni delle donne, ma lo fanno lo stesso e capita che succedano violenze e molestie. Spesso bagni e docce non si possono chiudere a chiave, e quindi usarli può diventare una fonte di preoccupazione. Anche camminare da sole nelle ore notturne non è consigliabile, soprattutto perché molte zone dei campi sono poco illuminate.

Amal ha anche raccontato di aver visto un uomo picchiare una donna fino a quando non ha iniziato a sanguinare di fronte ad alcuni poliziotti greci, che però non sono intervenuti. Successivamente hanno incolpato la donna per aver «frequentato uomini del genere».