Questa barriera ripulirà il Pacifico dalla plastica?

È iniziata la sperimentazione di un nuovo sistema per intrappolare tonnellate di plastica a mollo nel mezzo dell'oceano, non tutti sono convinti funzionerà

Il trasporto della barriera nella Baia di San Francisco (Ocean Cleanup)
Il trasporto della barriera nella Baia di San Francisco (Ocean Cleanup)

Nel fine settimana una barriera galleggiante lunga 600 metri ha preso il largo dalla Baia di San Francisco, diretta verso la grande chiazza di immondizia del Pacifico, un enorme accumulo di plastica e altra spazzatura che si trova nell’oceano. La barriera fa parte di un progetto molto ambizioso da svariati milioni di dollari per ripulire la chiazza, dimezzandone le dimensioni entro i prossimi 5 anni. Il sistema potrebbe contribuire a ridurre l’inquinamento nel Pacifico, ma ci sono dubbi e incertezze sul suo funzionamento e l’effettiva capacità di trattenere la plastica per poterla poi rimuovere e riciclare sulla terraferma.

Il progetto è portato avanti da Ocean Cleanup, un’organizzazione senza scopo di lucro che dal 2013 lavora alla preparazione della barriera galleggiante. I finanziamenti in questi anni non sono mancati anche grazie all’interessamento di alcuni miliardari della Silicon Valley, come il cofondatore di PayPal, Peter Thiel, tra i più convinti sostenitori dell’iniziativa. Ocean Cleanup ha raccolto fondi per circa 35 milioni di dollari e prevede di spenderne quasi 6 per la produzione di ogni nuova barriera galleggiante, che man mano andrà a costituire una flotta di 60 barriere per trattenere la plastica. Lo sviluppo e i test del primo sistema, da poco partito dalla Baia di San Francisco, hanno un costo stimato intorno ai 20 milioni di dollari.

La grande chiazza di immondizia del Pacifico finisce ciclicamente sotto l’interesse dei media, di solito in seguito a nuove ricerche sulla sua composizione ed estensione. Scoperta nella seconda metà degli anni Ottanta, si trova più o meno a metà tra le Hawaii e la California. Non si ha un’idea precisa delle sue dimensioni, con stime che variano da 700mila chilometri quadrati a 15 milioni di chilometri quadrati, pari alla superficie della Russia. Le differenze sulle dimensioni sono dovute a numerose variabili e alla dimensione dei detriti di plastica, soprattutto da quando si è scoperta la grande portata inquinante delle loro molecole una volta che gli oggetti si disgregano in acqua. La plastica finisce nella catena alimentare e contamina una grande varietà di specie marine, comprese quelle che peschiamo e consumiamo.

Le correnti oceaniche che contribuiscono alla formazione della chiazza di immondizia (Wikimedia)

Per quanto ambizioso, il piano di Ocean Cleanup è piuttosto semplice, per lo meno nei suoi concetti di base. L’idea è utilizzare una grande barriera galleggiante che, trasportata dai venti e dalle correnti, passi attraverso la chiazza e trattenga quanta più plastica possibile. Al di sotto dei galleggianti della barriera c’è una fitta rete che raggiunge una profondità di 3 metri circa, in modo da recuperare quanta più plastica possibile, che galleggiando difficilmente raggiunge profondità maggiori. La barriera viene trasportata da un rimorchiatore fino all’area in cui si trova la chiazza, poi viene lasciata libera di seguire le correnti. Così facendo, dicono i suoi progettisti, assume una forma a “U”, ideale per intrappolare al suo interno i detriti galleggianti. Periodicamente una nave raggiunge la barriera, dotata di sensori satellitari, e provvede a vuotarne il contenuto, riportando verso la terraferma l’immondizia che potrà poi essere riciclata.

La barriera appena varata non raggiungerà subito la zona della grande chiazza: sarà testata per un paio di settimane in un’area di prova. Se le prove daranno esiti positivi, il sistema sarà trasportato al largo per circa 2.200 chilometri. Il viaggio dovrebbe terminare a metà ottobre, rendendo pienamente operativo il progetto.

Intorno all’iniziativa di Ocean Cleanup c’è molto scetticismo. Nonostante il nome, la grande chiazza non è un agglomerato unico di immondizia fermo in un punto del Pacifico e facilmente identificabile: si estende in una grande area e si disgrega e riaggrega di continuo. I progettisti dicono che la barriera seguirà le stesse correnti oceaniche della plastica, intercettando inevitabilmente i rifiuti, ma le condizioni meteo sull’oceano possono essere estreme e potrebbero danneggiare gravemente il sistema. Altri dubbi sono legati alla capacità della barriera di mantenere la sua forma a U, essenziale per trattenere la plastica.

(Ocean Cleanup)

Ci sono poi dubbi sulla tutela degli ecosistemi marini. Ocean Cleanup sostiene che la rete al di sotto della barriera non costituisca un rischio per i pesci, perché al suo passaggio produce una corrente verso il basso, che induce le specie marine ad aggirarla immergendosi più in profondità per qualche istante. Le cose potrebbero però andare diversamente, considerato che il sistema ricorda quelli classici per la pesca, anche se raggiunge profondità inferiori. Nella “U” della barriera potrebbero rimanere intrappolati i pesci più piccoli, che attirerebbero poi quelli più grandi, che a loro volta resterebbero bloccati dal sistema.

I test delle prossime due settimane serviranno a chiarire queste perplessità, rimaste anche dopo le lunghe simulazioni al computer e le prove su scala più ridotta del sistema. È lo stesso CEO di Ocean Cleanup, Boyan Slat, ad ammettere di avere qualche ansia sull’esito della sperimentazione: “Penso che ora la sfida non sia nel lungo, ma nel breve periodo. Potrà rimuovere la plastica un minimo? Per me è su questo punto che si accumulano le ansie in questa fase. Prima di tutto perché è una cosa che non abbiamo ancora potuto testare appropriatamente”.

Il piano di Slat è molto ambizioso anche per quanto riguarda la quantità di plastica da rimuovere. Nel suo primo anno di attività dovrebbe raccogliere circa 70 tonnellate di rifiuti a mollo nel Pacifico. Se le cose andranno secondo i piani, Ocean Cleanup costruirà poi una flotta di decine di barriere, in modo da dimezzare le dimensioni della grande chiazza in cinque anni.

Slat ammette che le sue barriere non potranno essere la soluzione definitiva al problema dell’inquinamento degli oceani, anche perché il problema è a monte e riguarda la grande produzione di nuovi oggetti di plastica. Pratiche di produzione e smaltimento più sostenibili non possono comunque fare molto per i rifiuti che già si trovano nell’oceano e con i quali dobbiamo fare i conti.