L’Italia rischia la fine della Turchia?

Lo spread sta salendo, il governo parla di complotti internazionali e le agenzie di rating minacciano il declassamento: cose da sapere su questo agosto turbolento

(AP Photo/Mark Schiefelbein)
(AP Photo/Mark Schiefelbein)

Negli ultimi giorni gli investitori internazionali – coloro i quali, tra le altre cose, hanno prestato e continuano a prestare i loro soldi all’Italia – sono tornati a preoccuparsi per la stabilità economica dell’Italia. Lo spread con i titoli di stato tedeschi è cresciuto, avvicinandosi a 280 punti punti base, mentre il settore bancario è tornato a mostrare grossi segni difficoltà. Ad aggiungere tensione ci sono l’attesa per la manovra finanziaria che il governo Conte dovrà iniziare a mettere a punto al ritorno dalle ferie estive, e le dichiarazioni di diversi esponenti della maggioranza parlamentare, anche piuttosto importanti, che parlano di possibili speculazioni e complotti internazionali imminenti ai danni del nostro paese. È legittimo quindi chiedersi quanto sia seria la situazione e quanto sia il caso di cominciare a preoccuparsi.

Le ultime turbolenze per l’Italia sono cominciate a causa della crisi in Turchia, aggravate dalla particolare situazione del nostro paese. La Turchia si trova in una crisi inflazionistica, dovuta a una combinazione di manovre espansive del governo e della banca centrale, sfiducia nel governo locale e sanzioni imposte dagli Stati Uniti. L’Europa sta in parte subendo conseguenze della crisi, poiché in Turchia hanno investito diverse aziende europee, tra cui diverse banche. La banca italiana Unicredit, per esempio, è l’azionista principale di Yapi Kredi, quarta banca turca, mentre hanno investito molto in Turchia anche la società di costruzioni Astaldi, la Cementir, che produce cemento, e l’azienda farmaceutica Recordati.

L’aumento dello spread e l’incertezza degli investitori, però, non si spiegano soltanto con i guai delle aziende italiane in Turchia. La Spagna, per esempio, è molto più esposta ai guai turchi, eppure i suoi titoli di stato hanno uno spread che vale la metà: un differenziale inoltre che si sta allargando, non restringendo.

A spiegare questa differenza ci sono le ragioni sempre citate in questi casi: la principale è l’enorme debito pubblico italiano, che costringono l’Italia a pagare interessi molto alti per indebitarsi ancora, a cui si aggiungono le difficoltà del settore bancario, tecnologicamente arretrato, appesantito da lunghi anni di cattiva gestione e particolarmente esposto proprio nei confronti dei titoli di stato italiani (di cui le banche hanno i portafogli pieni). Da maggio a oggi il settore bancario italiano ha perso circa un quarto del suo valore azionario.


L’indice dei titoli bancari alla Borsa di Milano

Oltre ai fondamentali economici italiani (debito pubblico, scarsa crescita e settore bancario in difficoltà) gli investitori sono preoccupati da problemi più contingenti, e in particolare dall’attuale situazione politica. I segni di preoccupazione (di cui lo spread è il principale indicatore) sono iniziati ad aumentare a partire dallo scorso 4 marzo, quando le elezioni politiche non hanno prodotto immediatamente una coalizione in grado di governare.

La nascita del governo Lega-Movimento 5 Stelle, arrivata solo tre mesi dopo, ha fatto poco per tranquillizzare gli investitori, che temono in particolare l’adozione di misure poco ortodosse in grado di destabilizzare il paese. La preoccupazione ultima degli investitori è, ovviamente, che un qualche “incidente” porti alla decisione o alla necessità di non ripagare parte dei debiti contratti con i mercati internazionali, e quindi alla bancarotta del paese e all’uscita dall’euro. È lo scenario più preoccupante, poiché significa con ogni probabilità non rivedere più il denaro prestato al nostro paese (una cosa che qualsiasi investitore vorrebbe evitare).

Come ha scritto qualche giorno fa Danilo Taino sul Corriere della Sera:

Nei portafogli degli investitori internazionali ci sono più di 700 miliardi investiti in titoli pubblici italiani. E più o meno altrettanti in obbligazioni di imprese private. Sono 1.400-1.450 miliardi di euro i cui detentori si muovono e si muoveranno, nonostante il generale agosto, per difendere se stessi da quelle che oggi si presentano come possibili sorprese negative. Si tratta di banche, di fondi d’investimento, di assicurazioni, di hedge fund, di privati che non hanno l’obiettivo di «attaccare» l’Italia: si muovono anzi per proteggersi.

Certo che sui mercati ci sono i cosiddetti «speculatori». Ma non si mobilitano — come invece ritiene in questi giorni il presidente turco Recep Tayyip Erdogan — rispondendo a un complotto. Cercano di essere i primi a individuare una debolezza per approfittarne: operazione legittima (per chi su questi mercati ha bisogno di stare per finanziare il proprio debito) e anche meritoria, dal momento che in questo modo gli speculatori segnalano le debolezze di un Paese o di un’impresa e quindi sventolano utili bandierine d’allarme.

La maggioranza parlamentare che sostiene il governo, composta da Lega e Movimento 5 Stelle, ha lanciato agli investitori segnali per certi versi ambigui. Da un lato ha accettato, con qualche fatica, la nomina a ministro dell’Economia di Giovanni Tria, un professore di Economia che finora ha mostrato grande prudenza nelle gestione dei conti e nelle dichiarazioni (che sono spesso quasi altrettanto importanti nel rassicurare o spaventare gli investitori). Anche i capi della coalizione, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, oltre al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, hanno cercato di rassicurare gli investitori, garantendo che non è loro intenzione uscire dalla moneta unica e che intendono rispettare i parametri di spesa europei.

Quasi contemporaneamente, però, la maggioranza, e in particolare Salvini e i suoi consiglieri più fidati, lanciano segnali opposti. Durante la formazione del governo, per esempio, Salvini arrivò a un passo dal bloccare le trattative pur di avere come ministro dell’Economia Paolo Savona, un professore di Economia apertamente favorevole all’uscita dall’euro; e ha approfittato persino del crollo del ponte Morandi a Genova per criticare i parametri di spesa europei e alludere alla possibilità che l’Italia li violi unilateralmente. Salvini ha anche nominato presidenti delle commissioni Bilancio di Camera e Senato il professore di Economia Alberto Bagnai e il suo consigliere economico Claudio Borghi, due tra i più noti e aperti sostenitori dell’uscita dell’Italia dall’euro («La mia speranza è che l’euro salti per aria e si volti finalmente pagina», ha ripetuto Borghi qualche giorno fa al Foglio).

Borghi, in particolare, fa spesso riferimento alla possibilità di uscire dall’euro anche in questi giorni, e in molti hanno iniziato a chiedersi quanto le sue parole rappresentino la linea ufficiale della Lega visto il suo incarico di responsabilità e la sua vicinanza a Salvini. Anche se Salvini ha ripetuto in varie occasioni che l’uscita dall’euro non è nel programma di governo, non è mai arrivato a smentire apertamente il suo consigliere.

Secondo alcuni, Borghi e Salvini utilizzerebbero questo linguaggio allusivo per spaventare la Commissione e le altre istituzioni europee in modo da spingerli ad accettare le loro richieste. Il governo non solo vorrebbe essere libero di chiedere più soldi in prestito di quanto le regole europee lo autorizzino a fare, ma nel caso non si trovassero privati disposti ad acquistare questo debito, nel timore che il paese non sia realmente in grado di restituirlo, vorrebbe anche qualche tipo di garanzia che rassicuri gli investitori.

Se questo scenario dovesse essere percorso è possibile arrivare a quello che molti definiscono appunto “l’incidente”, cioè un momento in cui la trattativa si spinga a un punto in cui non sia più possibile tornare indietro e l’Italia, più che “uscire dall’euro”, ne venga involontariamente espulsa da una crisi di fiducia (uno scenario ipotizzato dallo stesso ministro Savona) dei mercati internazionali. Il governo, però, ha sempre ufficialmente negato di avere queste intenzioni e ha garantito che intende rispettare le regole europee.

Chi avrà la meglio tra le due anime dell’attuale maggioranza, quella prudente o quella che sembra voler trattare e rischiare la rottura, lo si vedrà probabilmente il prossimo settembre, quando inizieranno a diventare più chiari i contenuti della prima manovra finanziaria di questo governo; una bozza della manovra dovrà essere spedita entro la fine di ottobre alla Commissione europea, mentre il testo definitivo andrà approvato entro la fine dell’anno.

Una manovra con deficit molto alto, che prevede cioè di chiedere in prestito molti più soldi rispetto agli anni passati, spaventerà gli investitori, che cominceranno a chiedersi se davvero il governo italiano riuscirà a trovare i soldi per realizzare i suoi obiettivi e cosa sarà disposto a fare in caso non ci riesca. Una manovra prudente, invece, come quella più volte annunciata dal ministro dell’Economia Tria, probabilmente avrà un effetto calmante. Secondo Bank of America Merrill Lynch, quando questa situazione diventerà più chiara lo spread si assesterà intorno ai 170 punti base nel caso di una manovra prudente, o salirà oltre i 400 nel caso di una manovra spericolata.