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  • Lunedì 13 agosto 2018

La spia che si è infiltrata nell’ISIS

La storia del capitano Harith al Sudani, agente di un'unità di élite dell'intelligence irachena, raccontata dal New York Times

Un soldato iracheno a Baghdad (John Moore/Getty Images)
Un soldato iracheno a Baghdad (John Moore/Getty Images)

Per 16 mesi il capitano Harith al Sudani, agente della semi-sconosciuta squadra dei Falcons, unità d’élite dell’antiterrorismo iracheno, ha lavorato sotto copertura nello Stato Islamico (o ISIS), sventando quasi cinquanta attentati e attacchi suicidi nell’area di Baghdad. Sudani, 38 anni ed ex informatico, è considerato una delle più grandi spie che l’Iraq abbia mai avuto ed è stato uno dei pochi a riuscire a infiltrarsi nell’ISIS per un lungo periodo. La sua incredibile storia, che sembra uscita da un film di spionaggio, è stata raccontata dal New York Times, che ha parlato con i suoi familiari e con altri agenti della squadra dei Falcons, e che ha visto diverso materiale raccolto da Sudani durante il suo periodo sotto copertura.

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Sudani diventò un agente quasi per caso: «Non erano molti quelli che pensavano avesse l’audacia e l’ambizione per diventare una spia», ha scritto il New York Times. Non lo pensava suo padre, Abid al Sudani, un uomo molto severo proprietario di una piccola copisteria a Baghdad; e non lo pensavano nemmeno i docenti dell’Università di Baghdad, che lo avevano bocciato al test d’ingresso. Per molti anni Sudani aveva mostrato più interesse a inseguire le donne e a condurre una vita frivola, invece che a studiare, almeno finché suo padre non gli diede un ultimatum: o avrebbe cambiato vita, o sarebbe stato cacciato da casa. Sudani decise così di sposarsi – un matrimonio combinato – e di tornare a scuola, studiando tra le altre cose inglese e russo. Iniziò a lavorare come esperto informatico dei sistemi di sorveglianza per una società petrolifera irachena.

Nel 2006, durante l’insurrezione sunnita che provocò l’uccisione di migliaia di persone in tutto l’Iraq, Abu Ali al Basri, allora direttore dell’intelligence dell’ufficio del primo ministro, fu incaricato di creare una unità speciale con una missione precisa: trovare e colpire i leader dei gruppi terroristici che operavano in Iraq. L’unità era formata da 16 uomini provenienti da altri gruppi dell’esercito e della polizia: fu chiamata Al Suquor, o i Falcons.

Sudani fu convinto a proporsi ai Falcons da uno dei suoi fratelli minori, Munaf, che era entrato nell’unità poco prima di lui: «Mentre Harith era annoiato dal suo lavoro e passava quasi tutte le sere a giocare ai videogiochi e a bighellonare nelle sale da tè, Munaf tornava a casa dal lavoro pieno di entusiasmo», ha scritto il New York Times. Sudani fu preso e inizialmente fu incaricato di monitorare il traffico internet e le chiamate telefoniche dei sospetti terroristi. Il nuovo lavoro lo trasformò: «Era felice per la prima volta da molto tempo», ha raccontato un altro dei suoi fratelli, Munther.

Poi, nell’estate 2014, arrivò l’ISIS. Con la rapida avanzata dello Stato Islamico in diverse aree dell’Iraq e la conquista di città come Mosul e Fallujah, i Falcons cambiarono obiettivo: la nuova priorità era infiltrare il gruppo terroristico che si era preso un gran pezzo di Iraq.

Sudani si offrì di andare sotto copertura, ma prima dovette affrontare un periodo di addestramento, non solo militare: da sciita, dovette imparare i rituali e le preghiere sunnite e memorizzare i versi del Corano preferiti dai jihadisti. Gli fu data anche una nuova identità: sarebbe diventato Abu Suhaib, un disoccupato proveniente da un quartiere prevalentemente sunnita di Baghdad. Per i Falcons avrebbe dovuto infiltrarsi nella cellula dell’ISIS presente a Tarmiya, una città che si trova dove si incrociano due autostrade che vanno verso Baghdad e che in quel periodo era un centro di passaggio e reclutamento per gli attentatori suicidi che si preparavano per farsi esplodere nella capitale.

La fase di reclutamento nell’ISIS fu rapida. Nel suo primo giorno sotto copertura, il capitano Sudani andò nella moschea di Tarmiya, che la cellula locale dello Stato Islamico usava come centro per gli incontri. Rimase nella moschea tutto il giorno, tra le preoccupazioni dei suoi superiori che immaginarono che qualcosa fosse andato storto, ma invece ne uscì che era diventato un jihadista dell’ISIS.

Dopo i primi giorni di addestramento e indottrinamento, Sudani fu assegnato al settore delle missioni suicide a Baghdad: doveva guidare i furgoni carichi di esplosivi, cercare di superare i checkpoint fuori e dentro la città e arrivare al punto stabilito con il carico intatto. Con i Falcons era d’accordo però diversamente: si sarebbe messo in contatto con i suoi colleghi durante ogni trasporto, avrebbe guidato il furgone in punti concordati dove le bombe sarebbero state disinnescate, e gli attentatori suicidi arrestati o uccisi. Non era possibile però far fallire tutte le missioni, perché l’ISIS si sarebbe insospettito. I Falcons decisero così di usare gli organi di stampa a proprio favore, diffondendo notizie false: a volte succedeva che anche se le bombe erano state disinnescate per tempo, uscisse la notizia dell’uccisione di decine di persone. In questo modo la copertura di Sudani durò a lungo.

Ma era un lavoro molto pericoloso: ogni giorno rischiava di saltare in aria con il suo furgone carico di esplosivo – sarebbe bastato un tamponamento accidentale, oppure una sparatoria a un checkpoint – oppure di essere scoperto. Gli episodi che insospettirono i miliziani dell’ISIS furono due.

Il primo accadde nella metà del 2016, quando Sudani aveva già cominciato a fare altri lavori per l’ISIS, tra cui compiere giri di ricognizione nei quartieri di Baghdad per individuare i luoghi ideali per gli attentati suicidi. Durante una di queste missioni, Sudani cercò di fare una visita rapida alla sua famiglia, che da tempo era diventata sempre più inquieta riguardo alle sue assenze: della sua attività sotto copertura sapevano infatti solo il fratello Munaf (anche lui dei Falcons) e il padre. Mentre cercava di andare a casa, però, Sudani fu chiamato da un comandante dell’ISIS che gli chiese dove si trovasse: mentì e fu scoperto, perché il comandante lo aveva localizzato tramite il GPS del cellulare. A Sudani sembrò che l’episodio non ebbe particolari conseguenze, ma i miliziani dell’ISIS si insospettirono e lui fu messo sotto sorveglianza.

Nel dicembre 2016, pochi mesi dopo, Sudani fu incaricato di occuparsi di quello che doveva essere un grande attentato dell’ISIS nel giorno di Capodanno, da compiersi in diverse città del mondo. Sudani doveva portare dell’esplosivo al punto stabilito, a bordo di un furgone bianco Kia. Come faceva sempre, chiamò i Falcons per accordarsi su cosa fare e dove trovarsi per disinnescare la bomba. A bordo del furgone, però, l’ISIS aveva messo due microspie.

Mentre stava andando nel punto concordato con i Falcons, Sudani fu quindi chiamato da un comandante dell’ISIS che gli chiese dove fosse. Lui mentì, provò a inventarsi una scusa, disse che aveva sbagliato strada e ritornò sul tragitto che gli era stato ordinato dall’ISIS. Disse ai Falcons che avrebbero dovuto trovare un altro punto di incontro più vicino al bersaglio. La bomba fu disinnescata e appena prima di mezzanotte i media arabi diedero la notizia che un furgone era esploso fuori dal cinema Al Bayda di Baghdad e che non c’erano stati feriti.

Nel gennaio 2017 Sudani ricevette istruzioni di andare in una fattoria fuori Tarmiya, un posto molto isolato senza vie di fuga. Manuf, il fratello di Sudani, cercò di convincerlo a rinunciare alla missione, dicendo che era troppo rischiosa, ma lui decise comunque di andare. Il 17 gennaio entrò nella fattoria. Poco dopo, il generale Falih, il capo dei Falcons, fu avvisato che qualcosa era andato storto e che gli agenti avevano perso i contatti con Sudani. Dopo tre giorni, le forze di sicurezza irachene entrarono nella fattoria a Tarmiya ma non trovarono niente. I Falcons cominciarono ad analizzare il furgone Kia e altre prove: trovarono le microspie e scoprirono che Sudani era stato scoperto. In agosto lo Stato Islamico diffuse un video di propaganda che mostrava alcuni miliziani uccidere diversi prigionieri bendati: secondo i Falcons, uno di loro era Sudani.

Il New York Times racconta che il capitano Sudani ha raggiunto un livello di fama inusuale per una spia. I Falcons hanno pubblicato dei versi poema al suo coraggio e nella via del padre di Sudani sono stati appesi due poster giganti che mostrano il ritratto del figlio. Secondo alcuni informatori dei Falcons, il corpo di Sudani fu portato a Qaim, una città che per lungo tempo era stata controllata dall’ISIS. Qaim è stata liberata dall’esercito iracheno lo scorso novembre: il corpo di Sudani non è stato trovato.