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  • Sabato 21 luglio 2018

Il lato oscuro del processo di pace in Corea

Pur di non intralciare i colloqui, racconta l'Economist, si è smesso di parlare di diritti umani in Corea del Nord e per i nordcoreani è diventato più difficile scappare

Il presidente sudcoreano Moon Jae-in, a destra, e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un (South Korean Presidential Blue House via Getty Images)
Il presidente sudcoreano Moon Jae-in, a destra, e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un (South Korean Presidential Blue House via Getty Images)

Negli ultimi mesi sono stati fatti passi avanti rilevanti verso la normalizzazione dei rapporti tra Corea del Nord e Corea del Sud, due paesi formalmente in guerra da oltre mezzo secolo. Dopo la partecipazione di una delegazione nordcoreana alle Olimpiadi invernali che si sono tenute lo scorso febbraio a Pyeongchang, in Corea del Sud, ci sono state diverse riunioni tra rappresentanti dei due paesi e soprattutto due storici incontri tra i due leader – il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in – con strette di mano e molti sorrisi. Questo processo, che nel caso migliore potrebbe portare alla firma di un trattato di pace, sta avendo però dei costi di cui si parla poco, e che ha messo in fila un recente articolo dell’Economist.

Il primo, probabilmente il più immediato, è che gli incontri diplomatici a cui ha partecipato negli ultimi mesi Kim Jong-un hanno trasformato il dittatore nordcoreano in un leader politico “presentabile” e “legittimato”, e hanno fatto passare in secondo piano gli aspetti più repressivi e crudeli del suo regime, che non sono cambiati. Pur di sottolineare i progressi nei rapporti tra le due Coree, e tra Corea del Nord e gli Stati Uniti, diversi leader politici hanno smesso di criticare Kim Jong-un per le sistematiche ed estese violazioni dei diritti umani che vengono compiute nel suo paese.

Un secondo punto riguarda i nordcoreani che sono scappati dal loro paese per raggiungere la Corea del Sud, e quelli che sono ancora in territorio nordcoreano ma che vorrebbero andarsene. Negli ultimi mesi, dice l’Economist, l’atteggiamento del governo sudcoreano è cominciato a cambiare. A maggio il ministro sudcoreano dell’Unificazione, Cho Myung-gyum, ha chiesto ai gruppi di attivisti sudcoreani che lanciano i volantini oltre il confine – quelli con frasi che invitano alla resistenza – di smettere di farlo, per evitare di indebolire il processo di pace. A giugno il governo sudcoreano ha cancellato il contratto che aveva stipulato con una fondazione che si occupa di diritti umani in Corea del Nord, per lo stesso motivo.

Ancora più rilevante è il fatto che negli ultimi due anni il numero di cittadini nordcoreani che sono scappati dal loro nel paese è diminuito progressivamente, con un calo netto registrato quest’anno. Durante la prima metà del 2018 i nordcoreani che sono riusciti a raggiungere la Corea del Sud sono stati 488, il 18 per cento in meno rispetto a quelli registrati nello stesso periodo dell’anno precedente. Il motivo principale è che sia la Corea del Nord che la Cina, paese dal quale passano i nordcoreani che vogliono scappare, hanno rafforzato i controlli dei loro confini: il regime nordcoreano ha messo nuove recinzioni di filo spinato lungo alcune zone di frontiera, mentre la Cina ha intensificato gli arresti e i rimpatri dei nordcoreani scoperti durante la fuga.

Per il momento, data anche la complessità delle trattative e la scarsissima conoscenza delle dinamiche interne al regime nordcoreano, il presidente sudcoreano Moon e Donald Trump stanno evitando di parlare di diritti umani, un tema che potrebbe infastidire e provocare una reazione negativa da parte di Kim Jong-un. «È un peccato», ha concluso l’Economist, perché un loro cambio di rotta su questo tema potrebbe «essere la migliore speranza per trasformare la [Corea del Nord] in un posto da cui le persone non vogliono più scappare».