• Mondo
  • Giovedì 19 luglio 2018

Cosa dice George Soros, nel frattempo

Il New York Times ha parlato col filantropo statunitense di origine ungherese noto per le sue posizioni progressiste, e odiato dagli estremisti di destra di mezzo mondo

George Soros, 26 maggio 2013 (ERIC PIERMONT/AFP/Getty Images)
George Soros, 26 maggio 2013 (ERIC PIERMONT/AFP/Getty Images)

Sul New York Times è stato pubblicato un lungo articolo su George Soros, il miliardario statunitense di origine ungherese noto per le sue posizioni progressiste e odiato in tutto il mondo dai conservatori e dagli estremisti di destra per le sue attività filantropiche, al centro di molte teorie del complotto soprattutto da quando in diversi paesi – europei e non solo – l’estrema destra sta guadagnando spazio e visibilità. Soros, tra le altre cose, ha parlato dell’Ungheria, di Donald Trump e del suo doppio ruolo di uomo d’affari e di filantropo, spesso criticato anche a sinistra.

«Per me, il denaro rappresenta la libertà e non il potere». Il denaro ha dato a Soros la libertà di fare e dire ciò che gli piaceva, e anche la libertà di non preoccuparsi di ciò che gli altri dicevano e pensavano di lui. Ma ora che ha 87 anni, e che su di lui è stato detto di tutto, ha ammesso di aver iniziato a preoccuparsi: «Sono diventato un po’ più preoccupato per la mia immagine, perché è inquietante che ci siano quelle bugie che circolano là fuori. Non sono felice di avere tanti nemici. Vorrei avere più amici».

Il racconto del New York Times inizia a maggio a Parigi, quando George Soros – che un paio di volte alla settimana gioca ancora a tennis – ha pronunciato il discorso di apertura alla riunione annuale del Consiglio Europeo per le Relazioni Internazionali (ECFR). Soros ha parlato della crisi dei rifugiati, dell’assenza di una politica migratoria omogenea e, facendo riferimento alle prospettive economiche dell’Europa, ha detto che «forse siamo diretti verso una nuova crisi finanziaria». Dopo le sue parole l’indice Dow Jones – il più noto indice azionario della borsa di New York – ha perso in un solo giorno quasi 400 punti. «Soros è generalmente considerato il più grande speculatore che Wall Street abbia mai conosciuto, e sebbene abbia smesso anni fa di gestire i soldi di altre persone, la reazione dei mercati è stata una dimostrazione in tempo reale della sua capacità di avere un impatto. L’attenzione data dal mondo a quello specifico commento, invece che agli altri, sottolineava anche, in modo sottile, una frustrazione radicata della vita di Soros: le sue opinioni in materia di finanza tendono ancora ad avere più peso delle sue riflessioni politiche», comincia il New York Times.

Eppure, la politica è l’ambito in cui Soros «ha fatto la sua scommessa più audace», fin dagli anni Ottanta e Novanta, per promuovere nel mondo i diritti umani e la democrazia liberale: «Difendo dei principi, a prescindere dal fatto che io possa vincere o perdere. Sfortunatamente, però, ultimamente sto perdendo in un po’ troppi posti». Soros pensa che la democrazia liberale, nel mondo, stia «perdendo» a vantaggio di una democrazia illiberale, simile a quella costruita da Viktor Orbán in Ungheria, che si sta dimostrando «più efficace», almeno per il momento: un sistema in cui i nuovi autocrati hanno saputo sfruttare la società civile come mezzo per consolidare il potere. «È un modo meno aggressivo di esercitare quel tipo di controllo, rispetto a uccidere persone che non sono d’accordo con te».

Il pensatore che più lo ha influenzato è Karl Popper, che insegnava alla London School of Economics dove Soros si è laureato dopo essersi trasferito nel Regno Unito, nel 1946, quando il comunismo stava prendendo piede in Ungheria. Ma, dice ora Soros, Karl Popper si era sbagliato su una cosa: la politica non era, in definitiva, una ricerca per arrivare alla verità, ma un mezzo per ottenere e mantenere il potere. «Era un filosofo della scienza, e la scienza è ricerca della realtà. Non ha capito la politica. In politica bisogna rigirare la verità, non scoprirla». Popper è morto nel 1994, ma cosa avrebbe pensato della filantropia politica di Soros, gli ha chiesto il giornalista del New York Times? «Era molto solidale, il che significa che non mi prendeva sul serio», ha risposto sorridendo. «Non penso che Popper sarebbe così felice della mia attuale posizione, perché sono critico nei suoi confronti».

Quando lasciò la London School of Economics, Soros aveva due obiettivi, ha spiegato: diventare un filantropo e diventare un uomo di pensiero. Prima, però, doveva fare soldi, almeno 100 mila dollari in cinque anni. Andò a lavorare a Wall Street, con gran successo: «Ho superato l’obiettivo», ha raccontato.

Hillary Clinton, George Soros e il dottor Guy Theodore, durante l’inaugurazione di un ospedale ad Haiti, 22 novembre 1998 (AP Photo/Roberto Borea)

Diventato ricco, Soros nel 1979 creò la Open Societies Foundations, la seconda più grande organizzazione filantropica del mondo dopo la Bill and Melinda Gates Foundation. Progettò di chiuderla nel 2010, ma cambiò idea quando si rese conto di avere «più denaro» di quello che poteva «spendere in modo realistico o utile» nella sua vita. Si rese anche conto che il lavoro della Fondazione stava diventando sempre più importante: «Ho trovato una missione, una nicchia, che sentivo poteva essere portata avanti», ha spiegato.

La OSF iniziò a sponsorizzare borse di studio per studenti neri sudafricani e poi vari progetti nell’Europa orientale: soprattutto Polonia, Cecoslovacchia, ex Unione Sovietica e Ungheria. Voleva trasformare l’Ungheria, disse Soros nel 1994, «in un posto dal quale non avrebbe voluto emigrare». Le cose non andarono come aveva sperato e dal 2009 uno degli studenti che aveva beneficiato delle borse di studio messe a disposizione da Soros, Viktor Orbán, iniziò a rafforzare il proprio potere controllando i tribunali e i media, allontanandosi progressivamente dall’Occidente per avvicinarsi a Putin e gestendo con una recinzione la crisi dei rifugiati al confine. I gruppi che avevano ricevuto fondi da OSF per fornire assistenza ai migranti ammassati lungo il confine ungherese divennero il pretesto per la guerra di Orbán a Soros.

Lo scorso aprile il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha vinto per la terza volta le elezioni con il 49,5 per cento dei voti, dopo aver condotto una campagna in cui ha trasformato Soros nel suo principale avversario. Lo ha accusato di complottare contro l’Ungheria per promuovere l’immigrazione di persone musulmane in Europa e distruggerne dunque l’identità cristiana, anche esponendo in tutto il paese cartelloni pubblicitari anti-Soros.

Un manifesto di propaganda contro George Soros in Ungheria, 6 giugno 2017 (ATTILA KISBENEDEK/AFP/Getty Images)

Dopo la vittoria di Orbán la Open Societies Foundations aveva annunciato la possibile chiusura della sua sede di Budapest, visto che il governo aveva proposto di introdurre una legge che l’avrebbe danneggiata. La legge – soprannominata proprio “Stop Soros” – è stata approvata lo scorso giugno: tra le altre cose prevede la criminalizzazione dell’immigrazione clandestina e il carcere per le persone o le organizzazioni che in qualche modo la favoriscono. Di recente la legge è stata criticata anche dalla Commissione europea, perché viola le norme dell’Unione in materia di asilo (la Commissione, scrive il Financial Times, sarebbe anche pronta a portare il caso davanti alla Corte di giustizia europea). A causa della sua approvazione, la Open Society Foundations ha chiuso il suo ufficio di Budapest.

La sera prima del suo discorso a Parigi, il giornalista Michael Steinberger del New York Times ha cenato con Soros. Parigi era la prima tappa di un viaggio per l’Europa che sarebbe durato un mese: in un altro momento Soros avrebbe visitato anche Budapest, ma non stavolta. Visitare l’Ungheria in queste circostanze, ha detto Soros, «sarebbe tossico». Soros ha parlato della campagna di Orbán come di «una grande delusione», ma ha aggiunto: «A quanto pare sto facendo la cosa giusta, a guardare chi sono i miei nemici». Dei cittadini ungheresi Soros ha detto: «Non biasimo affatto il popolo ungherese. In realtà, lo ammiro per la sua volontà di resistere all’oppressione e di lottare per la libertà. Dobbiamo distinguere tra il popolo e il governo».

Negli Stati Uniti Soros è stato ed è ancora oggi un importante sostenitore politico dei Democratici e dei progressisti. Nel 2004 ha speso più di 20 milioni di dollari per la candidatura di John Kerry, per evitare – senza riuscirci – l’elezione a un secondo mandato di George W. Bush; negli anni successivi era stato uno dei primi sostenitori della campagna presidenziale del 2008 di Barack Obama. Soros ha detto al giornalista del New York Times che Obama però è «in realtà» la sua «più grande delusione». Sollecitato da un assistente si è subito corretto, dicendo che non era rimasto deluso dalla presidenza di Obama ma dal fatto di non essere stato coinvolto da Obama sulle questioni finanziarie ed economiche. Dopo che Obama era stato eletto, «mi ha chiuso la porta», ha detto Soros. «Mi fece una telefonata ringraziandomi per il mio supporto, telefonata che doveva durare cinque minuti, ma cercai di andare oltre le frasi di circostanza e dovette passare altri tre minuti al telefono con me, quindi riuscii a tenerlo al telefono per otto minuti in tutto».

Durante le elezioni del 2016, Soros ha contribuito con oltre 25 milioni di dollari alla campagna di Hillary Clinton e di altri candidati Democratici. Ha anche detto di aver conosciuto Trump per caso e di avere cenato con lui qualche volta, circa 30 anni fa. «Non avevo idea che avesse qualche ambizione politica», ha ammesso. Trump aveva anche cercato di affittargli uno dei suoi edifici: «Gli ho detto che non potevo permettermelo», ha ricordato Soros ridacchiando. Su Trump, anche in occasione dell’intervista al New York Times, Soros ha usato parole molto dure, dicendo di aver molta paura che Trump preferisca «far saltare in aria il mondo piuttosto che subire una battuta d’arresto per il suo narcisismo». Ma ha detto di essere contento che Trump abbia deciso di andare in Corea del Nord. «Penso che il pericolo di una guerra nucleare sia stato notevolmente ridotto, e questo è un grande sollievo».

Fu l’estremismo del Partito Repubblicano a spingere Soros a diventare un importante sostenitore dei Democratici, ha spiegato: voleva che il Partito Repubblicano si riformasse e diventasse un partito più moderato, ma ha detto di non essere un Democratico a tutti gli effetti. Ha parlato con rispetto di John McCain e ha detto che potrebbe anche dare un sostegno finanziario ai Repubblicani più moderati, come Lisa Murkowski e Susan Collins, aggiungendo però: «Non dovrei dirlo. Questo li danneggerebbe».

Quando il giornalista del New York Times gli ha chiesto di descriversi da un punto di vista ideologico, lui ha riso: «La mia ideologia è non ideologica», ha detto. «Sono nel club dei non club». Quando gli è stato suggerito che forse il “centrosinistra” poteva essere la sua area politica di riferimento, lui ha esitato. Ha detto che non aveva le idee molto chiare, perché la sinistra si era spostata ulteriormente a sinistra: «Sono contrario all’estrema sinistra. Dovrebbe smettere di cercare di tenere il passo con gli estremisti a destra».

Soros è di sinistra su molte questioni, ma alcuni a sinistra lo considerano come un protagonista dell’imperialismo americano che voleva imporre un programma neoliberista nell’Europa orientale, mentre la sua storia a Wall Street lo renderebbe il perfetto esponente del cosiddetto “filantrocapitalismo”. Una volta Soros ha descritto il suo doppio ruolo dicendo che «si sentiva come un gigantesco tratto digestivo, che prendeva denaro da un lato e lo spingeva fuori dall’altro», e ha spiegato che non c’è contraddizione nel suo doppio ruolo di finanziere e filantropo: «Questa è la differenza tra il mio impegno nei mercati finanziari, in cui il mio unico interesse è fare bene e fare soldi, e il mio impegno politico, in cui rappresento ciò in cui credo veramente».

Il giornalista del New York Times, a Parigi, ha incontrato anche Alex Soros, il figlio di Soros, che ha 32 anni. Gli ha detto che per molti anni suo padre non era ansioso di mettere in mostra il suo ebraismo, perché «era qualcosa per cui era stato quasi ucciso». Ma è sempre stato «identificato prima come ebreo» e l’identità ebraica di Soros, unita al suo status di miliardario di Wall Street, ha fornito il principale materiale per il risentimento nei suoi confronti, alimentato da una buona dose di antisemitismo. Soros però è stato preso di mira anche da Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, che lo ha denigrato pubblicamente a causa del suo sostegno finanziario ai gruppi critici nei confronti della politica di Israele contro i palestinesi.

Nell’articolo del New York Times si citano anche Matteo Salvini e le sue recenti dichiarazioni sul censimento dei Rom, perché migliorare le condizioni dei Rom è stata una delle priorità di Soros e della sua Fondazione fin dai primi anni Novanta: «un’altra battaglia che Soros potrebbe perdere», visto come stanno andando le cose.

Lo scorso 5 luglio Soros si trovava negli Hamptons – una popolare località turistica statunitense per ricchi – ed era appena tornato dal suo viaggio in Europa. Nelle cinque settimane in cui era stato assente, l’amministrazione Trump aveva parlato di introdurre nuove sanzioni commerciali contro la Cina e imposto nuovi dazi doganali sulle merci provenienti dal Canada e dall’Unione Europea. Il giornalista gli ha chiesto perché i mercati e l’economia in generale stessero resistendo così bene, di fronte a una possibile guerra commerciale globale. Soros ha risposto che questi sviluppi alla fine trascineranno giù il mercato, ma non era in grado di dire quando: «Ho perso la capacità di anticipare i mercati. Ormai sono un dilettante».