“Mindhunter” è piaciuta molto, a parte la prima puntata

È la nuova serie "crime" di Netflix, in parte diretta da David Fincher: parte male ma poi decolla

(Da "Mindhunter")
(Da "Mindhunter")

Escono ormai moltissime serie tv. Considerando solo quelle di Netflix, si fa fatica a tenere il passo. Meno di dieci giorni fa è arrivata Suburra e prima della fine del mese arriverà la seconda stagione di Stranger Things. Ad avere tempo, sarebbe il caso di concedere una possibilità a Mindhunter: perché l’hanno prodotta Charlize Theron e David Fincher, che ne ha anche diretto quattro dei dieci episodi, e perché parla di una cosa trita e ritrita – agenti FBI e serial killer – ma in un modo originale e apprezzato.

Se avete deciso che Mindhunter merita una possibilità, sappiate che questa possibilità deve però durare almeno un paio d’ore: perché il primo episodio è quello che è piaciuto meno, e perché è una di quelle serie che ha bisogno di un po’ di tempo per carburare. Poco meno della metà delle quattromila persone che l’hanno votata su IMDb le hanno dato 10, ma gli episodi più apprezzati sono gli ultimi. Nel sintetizzare le recensioni più importanti del film, Rotten Tomatoes ha scritto che «si distingue dall’affollato genere di cui fa parte per ambiziose cose visive e per una meticolosa attenzione allo sviluppo dei personaggi».

Fincher ha diretto i primi e gli ultimi episodi (durano in tutto un’ora circa) ed ha fin qui avuto una carriera niente male: è il regista di Seven, Fight Club, Zodiac, The Social Network e Gone Girl. È anche produttore esecutivo della serie: vuol dire che è quello che mette i soldi, ma anche quello che ha voce su molte altre scelte di casting, regia e sceneggiatura. Lo stesso ruolo che ha in House of Cards, la serie con cui Netflix decise di mettersi a giocare in un campionato più grande di quello in cui era quando nel 2013 uscì la prima stagione. L’ideatore della serie è invece Joe Penhall, che come la sceneggiatrice Jennifer Haley arriva dal teatro. La serie, che Fincher propose a HBO già nel 2009 ma che poi diede a Netflix.

Mindhunter è ambientata negli anni Settanta ed è tratta da un libro del 1996, pubblicato anche in Italia, dello scrittore Mark Olshaker e dell’ex agente dell’FBI John Douglas, uno dei primi esperti americani di profilazione criminale dei serial killer. Il protagonista della serie non è Douglas, ma è ispirato a lui. Si chiama Holden Ford ed è un esperto in negoziazione: è uno di quegli agenti che viene mandato a parlare con chi ha degli ostaggi. Nel primo episodio viene scelto per fare da istruttore a nuovi agenti che vogliono fare il suo lavoro. Poco dopo si rende conto di non sapere molto su cosa e come pensano i criminali, e che forse dovrebbe impararlo direttamente da loro.

Nel libro Douglas racconta la sua esperienza e le sue conversazioni con assassini come Charles Manson, John Wayne Gacy (un serial killer che di professione faceva il clown), e James Earl Ray. Il primo episodio, però, è molto diverso dal resto della serie e si concentra sul percorso mentale che porta Ford a parlare coi criminali. Tra gli spunti che contribuiscono ci sono: una lezione universitaria in cui si parla di Cesare Lombroso, le teorie del sociologo Émile Durkheim, di cui gli parla la sua ragazza, e un cinema che proietta Quel pomeriggio di un giorno da cani. 

Il protagonista è invece Jonathan Groff, che potreste aver visto in Glee, Looking o American Sniper. Più avanti nella serie arrivano altri personaggi e molti di loro sono serial killer. Quello del secondo episodio è Edmund Kemper, noto tra le altre cose perché faceva sesso con la testa delle sue vittime.

Come ha scritto Todd VanDerWerff su Vox,  le serie tv su agenti e criminali da catturare sono il sacro Graal di chi deve pensare nuove idee per la tv. Negli ultimi anni c’è stato di tutto e «l’anno prossimo arriverà – davvero – una serie su “un illusionista che aiuta la polizia a risolvere crimini“». Mindhunter si differenzia perché a parte qualche eccezione le cose violente sono sulle fotografie che guardano gli agenti, e basta. VanDerWerff  ha scritto che ci sono scene in cui i serial killer «parlano dei loro deprecabili atti nello stesso tono distaccato con cui noi parleremmo della nostra lista della spesa». Poi ha scritto: «Tutte le premesse sono le solite. Tutto quello che succede dopo non lo è per niente».

Anche VanDerWerff però crede che il primo episodio sia «un pasticcio», «così come lo sono molti primi episodi di Netflix». VanDerWerff ha scritto che ha un «ritmo glaciale» e che «ci sono troppe poche indicazioni su dove la storia voglia andare a parare». Ben Travers di IndieWire ha aggiunto che la prima scena è “ottima”, ma che il resto dell’episodio è «goffo, troppo lungo e continua a insistere sempre sullo stesso punto: Holden vorrebbe cambiare le cose ma non sa come».

Se riuscite a resistere, già dal secondo episodio la serie migliora molto. La maggior parte dei critici ne ha parlato bene o benissimo. In un post pubblico su Facebook, Giorgio Viaro, il direttore di Best Movie, ha scritto:

A me pare che quando autori davvero grandi si cimentano con la TV – e mi vengono in mente David Lynch, Andrea Arnold, Jane Campion – si crei un’anomalia evidente, prodotti fuori dall’ordinario che mettono in scacco il cinema, lo obbligano a trovare altre strade, perché i tempi e i modi della sala non possono competere con queste narrazioni ad ampio respiro – con questi romanzi – sul piano del racconto, dello sviluppo di fatti e personaggi, dentro una messa in scena comunque da grande schermo.

Mindhunter di David Fincher è più di una bella serie, è un’eccellenza e un caso da studiare, perché è un piccolo traguardo di questo tempo e del linguaggio seriale.

In generale, i critici hanno apprezzato le tante attenzioni – visive, di scrittura, nelle citazioni e nei riferimenti alla storia di quegli anni – di Mindhunter. Non è però una serie per tutti; per molti potrebbe essere semplicemente noiosa. Una buona sintesi di cosa aspettarsi da Mindhunter l’ha fatta Sophie Gilbert sull’Atlantic: «È interessante, più che avvincente».

Fincher è sempre Fincher, comunque

È considerato uno dei migliori registi della sua generazione ed è noto per alcune scelte stilistiche che sono abbastanza evidenti anche ai non esperti. Gli piacciono per esempio arredamenti e interni piuttosto freddi, dialoghi abbastanza lunghi e soprattutto, per usare le sue parole, «una cinepresa impersonale».

Nei suoi film, soprattuto nei più recenti, i movimenti di camera non sono molti e praticamente mai con cineprese portate in giro dagli operatori. È anche noto per essere un perfezionista (gira decine di scene prima di passare a quella successiva) e per mettere in quasi ogni suo film l’inquadratura di un frigorifero (da dentro o da fuori). Come spiegato in un video di Tony Zhou – uno dei più apprezzati autori di video-trattati sul cinema –anche se non vi piace è un regista da studiare, perché è oggettivamente uno dei più bravi a fare quello che fa.