• Sport
  • Mercoledì 26 luglio 2017

Sono stati analizzati i cervelli di 111 ex giocatori della NFL: 110 erano malati

Un nuovo studio sta facendo discutere delle gravi conseguenze che ha il football americano su chi lo pratica ad alto livello

(Tom Pennington/Getty Images)
(Tom Pennington/Getty Images)

Da anni negli Stati Uniti si discute delle commozioni cerebrali riportate durante la propria carriera dai giocatori di football americano, soprattutto della principale lega professionistica, la NFL. Nonostante la tendenza di molti a negare o a minimizzare il problema, a partire dagli organi che governano lo sport, è ormai risaputo che la maggior parte dei giocatori professionisti tende a riportare gravi danni al cervello, dovuti ai moltissimi colpi alla testa che subiscono, e che il casco riesce ad attutire soltanto in parte (secondo altri ancora il casco è parte del problema, perché incentiva i giocatori a fare scontri più duri). Il football americano è uno degli sport più popolari e seguiti negli Stati Uniti, e anche uno dei più violenti: più di metà della squadra titolare (si gioca in 11) ha il compito di bloccare gli avversari e favorire la circolazione della palla. Sono quindi molto frequenti blocchi, scontri, collisioni nei quali si utilizza praticamente ogni parte del corpo (qui una piccola guida alle regole del gioco).

Questi costanti traumi fisici per i giocatori sono parte integrante del gioco, e intervenire per eliminarli vorrebbe dire cambiare la natura della NFL, che – come le altre principali leghe sportive statunitensi: la NBA del basket, la NHL dell’hockey e la MLB del baseball – è una gigantesca industria attorno alla quale ruotano centinaia di milioni di dollari ogni anno. Negli ultimi anni, però, il problema delle commozioni cerebrali è diventato di dominio pubblico, per via delle sempre maggiori prove scientifiche a sostegno della tesi che il football americano sia uno sport traumatico per il cervello di chi lo pratica a livello professionistico. Soltanto nel 2016 la NFL, attraverso il suo responsabile per la salute, ha ammesso il collegamento tra l’encefalopatia traumatica cronica e il football, promuovendo dei cambiamenti in come viene insegnato ai bambini, per provare a renderlo più sicuro e meno violento.

Martedì 25 luglio la neuropatologa Ann McKee, a capo del dipartimento di neuropatologia del VA Boston Healthcare System, ha pubblicato sul Journal of the American Medical Association i risultati di un imponente studio condotto esaminando i cervelli di 202 ex giocatori di football, morti per varie cause a età comprese tra i 23 e gli 89 anni. Di questi 202 giocatori, 111 giocavano nella NFL: 110 avevano l’encefalopatia traumatica cronica (CTE), una sindrome causata dall’accumularsi di ripetute commozioni cerebrali, descritta per la prima volta proprio in relazione al football americano. La CTE, come tutte le sindromi, presenta sintomi diversi da loro, che vanno – a seconda della gravità – da deficit di attenzione e disorientamento a demenza, vertigini, difficoltà nel linguaggio, perdità della memoria, depressione, scatti d’ira e alterazione della personalità. I sintomi della CTE possono presentarsi anche anni dopo il ritiro del giocatore.

I giocatori i cui cervelli sono stati esaminati da McKee giocavano in tutti i ruoli possibili; alcuni sono sconosciuti, altri – come Ken Stabler – sono ora nella Hall of Fame dello sport. Per altri, le famiglie non hanno permesso che ne venisse diffusa l’identità. Quello selezionato da McKee – che è direttrice del CTE Centre dell’Università di Boston – non è un campione rappresentativo dei cervelli dei giocatori della NFL: molti sono stati presi in considerazione proprio perché donati dalle famiglie, che sospettavano che potesse presentare i segni della CTE. Ciononostante, è un campione estremamente vasto: da quando è cominciata la raccolta dei cervelli, sono morti 1.300 ex giocatori della NFL. Questo significa che se anche tutti gli altri 1.200 non soffrissero di CTE (cosa molto difficile da credere), la percentuale di malati sarebbe vicina al 9 per cento, molto più alta di quella tra le persone che non giocano a football a livello professionistico.

Oltre ai giocatori della NFL, i 202 cervelli analizzati provenivano anche da giocatori della lega canadese, di campionati semi-professionistici o giovanili. In totale, l’87 per cento mostrava i segni della CTE: più grave in chi aveva giocato fino all’età adulta, più lieve nei giocatori dei campionati di high school o college.. Ma anche nei casi più lievi, la sindrome aveva causato sintomi nell’umore e nelle capacità cognitive dei soggetti. «Non si può più discutere sul fatto se ci sia o meno un problema nel football. C’è un problema».

Tra i giocatori di NFL esaminati nello studio, la maggior parte giocavano come linemen, cioè nella linea d’attacco o in quella difensiva: durante una partita sono quasi la metà dei giocatori in campo. Sono quelli, per capirsi, che si fronteggiano accovacciati all’inizio delle azioni: secondo alcuni ricercatori, l’accumularsi di colpi alla testa apparentemente meno traumatici ma più continui – come quelli a cui sono esposti i linemen – sono probabilmente causa della CTE, come se non più degli scontri più violenti e avvertiti come “scioccanti” anche dagli spettatori. Alcuni studi hanno rivelato che per un giocatore è possibile riportare decine di questi urti per partita: fino a 62, in un caso preso in considerazione. Ciascuno, secondo lo studio, equivaleva a quello che si riporterebbe guidando un’auto contro un muro a cinquanta chilometri orari. Quello che normalmente si crede è che il cervello si danneggi dopo gli scontri perché si muove nel cranio, urtando contro le sue pareti. Oggi però i medici hanno scoperto che danni ancora più gravi sono quelli che interessano la sostanza bianca del cervello, all’interno e non all’esterno, le cui fibre si stirano e si torcono dopo gli urti.

Il New York Times ha raccontato le storie di alcuni dei giocatori i cui cervelli sono stati esaminati da McKee, come quella di Tyler Sash, morto a 27 anni per un’overdose accidentale di antidolorifici nel 2015. La famiglia di Sash ha voluto che il suo cervello fosse esaminato perché aveva mostrato segni di confusione, perdita della memoria, scatti d’ira. McKee ha scoperto che presentava i sintomi della CTE, in uno stadio avanzato come quello di Seau, un altro ex giocatore morto suicida a 43 anni. Qualcuno ha collegato le tendenze suicide con la CTE, ma secondo McKee non ci sono prove solide a sostegno di questa teoria.