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  • Mercoledì 24 maggio 2017

10 grandi momenti delle finali di Conference della NBA

Li ha scelti ESPN, dal 1965 a oggi, e ci sono soprattutto tiri impossibili all'ultimo secondo

(Gregory Shamus/Getty Images)
(Gregory Shamus/Getty Images)

In questi giorni si stanno giocando le finali di Conference della NBA, cioè le due partite in cui si incontrano le ultime quattro squadre rimaste ai playoff, due dell’Est e due dell’Ovest. Sono praticamente le semifinali del torneo di basket più bello e seguito al mondo, ma per come funziona l’NBA si giocano sempre e solo tra squadre della stessa metà degli Stati Uniti: e questo significa che moltissime volte, per la vicinanza geografica, sono partite molto sentite, tra squadre con una rivalità molto accesa. È il caso per esempio dei Chicago Bulls e dei New York Knicks degli anni Novanta, o dei Boston Celtics e dei Detroit Pistons degli anni Ottanta.

Una delle due finali di Conference del 2017 è già finita, un’altra lo sarà probabilmente tra poco: sono state poco emozionanti, perché c’erano due squadre fortissime, una per parte, che hanno vinto (o stanno per vincere) senza praticamente nessuna difficoltà. I Golden State Warriors hanno battuto 4 vittorie a 0 i San Antonio Spurs, mentre i Cleveland Cavaliers sono sul 3 a 1 contro i Celtics, ed è probabile che chiuderanno la serie nella notte tra venerdì e sabato, in gara 5. Ma serie così poco emozionanti non sono la norma: in passato le finali di Conference hanno regalato momenti incredibili e spettacolari. A volte sono state decise da un tiro all’ultimo secondo, prima del quale in finale c’era una squadra, e pochi istanti dopo un’altra. A volte sono state risolte dalle stelle della squadra, a volte da gregari inaspettati. A volte ha vinto chi doveva vincere, a volte ci sono state grandi storie di rimonte considerate impossibili. ESPN ha scelto dieci grandi momenti delle finali di Conference, che abbiamo raccontato dall’inizio, con i video.

Gara 2 delle finali di Conference dei playoff del 1993, tra i Chicago Bulls di Michael Jordan e Scottie Pippen e i New York Knicks di Pat Ewing. Tra le due squadre c’è una storica rivalità, ma i Bulls sono più forti e arrivano da due titoli NBA consecutivi. Sono i favoriti nella serie, ma la prima partita la vincono i Knicks, in casa. Gara 2 si gioca di nuovo al Madison Square Garden, e a un minuto dalla fine i Knicks sono avanti di 3 punti, 91 a 88. John Starks, guardia e giocatore più forte della squadra insieme a Ewing, riceve la rimessa sotto il suo canestro, fa tutto il campo palleggiando lentamente e arriva al bordo dell’area da tre. Ewing – giocatore di stazza enorme – gli porta un blocco sulla sinistra, probabilmente commettendo anche fallo sul suo difensore. Starks ne approfitta e penetra lungo la linea di fondo, saltando a piedi uniti fuori dall’area pitturata per andare a canestro. Horace Grant, centro dei Bulls, salta per stopparlo, e insieme a lui ci prova Jordan. Ma Starks ci arriva talmente veloce che schiaccia a una mano, portando i Bulls a +5. I Knicks vinsero la partita 96 a 91, ma poi si fermarono: la serie finì 4 a 2 per i Bulls, che poi vinsero in finale contro i Phoenix Suns.

Quella tra i Chicago Bulls e gli Indiana Pacers, nel 1998, fu una finale di Conference molto combattuta. Finì 4 a 3 per i Bulls, che vinsero gara 7 di cinque punti. Dopo essersi portati in vantaggio per 2 a 0, approfittando del vantaggio del campo, la serie si spostò a Indianapolis, dove i Pacers di Reggie Miller – uno dei più formidabili tiratori da tre della storia del basket – vinsero gara 3 di due punti. Avevano quindi l’occasione di pareggiare le partite vinte in gara 4: a 2,9 secondi dalla fine, però, i Bulls erano avanti di un punto. I Pacers avevano una rimessa a metà campo, ottenuta chiamando un time out: era scontato che la palla dovesse finire in qualche modo a Miller. Lo schema prevedeva che uscisse da una serie di blocchi per ricevere fuori dall’area da tre: ci riuscì, grazie a una pessima difesa di squadra dei Bulls, e soprattutto perché diede una spinta a Jordan, che lo stava aspettando per marcarlo. Ricevette, si girò senza nemmeno palleggiare, tirò cadendo all’indietro e segnò, lasciando 0,4 secondi sul cronometro. I Pacers vinsero 96 a 94. Ma di nuovo, in finale ci sarebbero andati i Bulls, che avrebbero vinto il sesto e ultimo titolo dell’era Jordan.

Nei Portland Trail Blazers del 2000 giocavano, tra gli altri, Rasheed Wallace e Scottie Pippen. Nei Los Angeles Lakers, invece, c’erano Kobe Bryant e Shaquille O’Neal, una delle coppie più efficaci e spettacolari della storia del basket. I Blazers non avevano due giocatori così forti, ma erano una squadra molto organizzata e con una panchina di giocatori di alto livello, che aveva disputato una gran stagione ed era in ottima forma. Riuscirono ad arrivare al quarto quarto con 15 punti di vantaggio, ma poi implosero: i Lakers fecero un parziale di 31-13 nel quarto, grazie anche alle triple di Brian Shaw. A meno di un minuto dalla fine, erano avanti di quattro punti. Bryant aveva palla in posizione centrale, qualche metro fuori dall’area da tre. Superò il suo difensore con un cambio di direzione, attirando su di sé gli aiuti dei due lunghi dei Blazers al centro dell’area, che persero di vista O’Neal. Lui cominciò a saltare probabilmente ancora prima che Bryant avesse deciso di passargliela, forse per fare un tap in in caso avesse sbagliato il tiro. Ma Bryant non tirò: fece un alley, cioè un passaggio a palombella fatto per essere solitamente schiacciato a canestro al volo da un compagno. E O’Neal fece esattamente quello, a una mano. Poi si girò, fece una faccia spiritata diventata molto famosa, e tornò nella sua metà campo alzando le braccia al cielo. I Lakers vinsero 89 a 84, andarono in finale contro i Pacers e vinsero il loro primo titolo dal 1988, il primo dell’era Kobe-Shaq.

Robert Horry è un giocatore circondato da un’aura di leggenda, tra gli appassionati di basket degli anni Novanta e Duemila. È stato un’ala grande molto forte, ma non è mai stato propriamente una stella della NBA: non è mai stato convocato in una squadra dell’All Star Game, per capirci. Ciononostante ha vinto sette titoli NBA, più di qualunque altro giocatore nella storia che non abbia giocato nei Boston Celtics degli anni Sessanta, quelli di Bill Russell. E in molti di questi titoli vinti, è stato determinante: la sua caratteristica più famosa, infatti, era segnare canestri decisivi in partite importantissime. Soprattutto da tre: per questo era soprannominato Big Shot. Uno di questi canestri all’ultimo secondo lo fece nelle finali di Conference del 2002, quando giocava nei Los Angeles Lakers. Si giocava contro i Sacramento Kings, allo Staples Center di Los Angeles e la serie era sul 2 a 1 per i Kings. A pochi secondi dalla fine, i Kings erano avanti di due: se avessero vinto, si sarebbero portati sul 3 a 1, a una partita dalle loro prime finali NBA dal 1951 (si chiamavano Rochester Royals): e quella partita l’avrebbero giocata in casa. A 11,8 secondi dalla fine, i Lakers avevano una rimessa nella metà campo avversaria: volevano ovviamente fare arrivare la palla a Kobe, ma ci misero un po’ e lui si ritrovò con la palla a 9 secondi dalla fine. Il suo difensore non gli lasciò spazio per tirare da tre, e allora decise di penetrare in area, cercando di fare canestro almeno per pareggiare e mandare la partita all’overtime. I Kings riuscirono a tenere in difesa e a farlo sbagliare, ma O’Neal prese un rimbalzo sotto canestro: era quasi impossibile per un giocatore come lui sbagliare l’appoggio a canestro, ma per qualche motivo non segnò. Al secondo rimbalzo la palla schizzò fuori dall’area, con due secondi sul cronometro. Se la ritrovò in mano Horry – Big Shot Robert Horry – che tirò in una frazione di secondo, completamente libero, segnando. I Lakers pareggiarono la serie, che vinsero poi per 4 a 3. Vinsero poi anche il titolo, battendo in finale i New Jersey Nets per 4 a 0.

Nel 2009, LeBron James – il più forte giocatore di basket degli ultimi dieci anni – era alla sua sesta stagione ai Cleveland Cavaliers, la squadra del posto in cui è nato (in realtà Akron, qualche decina di chilometri più a sud). Due anni prima aveva raggiunto le finali di NBA, perse contro San Antonio, il punto più alto di una carriera fatta fino ad allora di enormi riconoscimenti individuali e poche soddisfazioni di squadra: i Cavaliers si reggevano praticamente solo su di lui, e sembrava destinato a non vincere mai se non avesse cambiato squadra. Lo fece poi due anni dopo, andando ai Miami Heat e vincendo due titoli consecutivi, e poi di nuovo nel 2016, con i Cavaliers che nel frattempo avevano costruito una squadra alla sua altezza. Nelle finali di Conference del 2009 i Cavs incontrarono gli Orlando Magic di Dwight Howard: in gara 2, la serie era sull’1 a 0 per i Magic, e si giocava a Cleveland. Sul 93 pari, a 30 secondi dalla fine, James aveva la palla del vantaggio, ma fece passi mentre andava a segnare. Dall’altra parte, in quella che sembrava l’ultima azione, Hedo Turkoglu segnò per i Magic, portandoli avanti di due punti e lasciando un solo secondo sul cronometro. I Cavaliers chiamarono time out per avere una rimessa nella metà campo avversaria, ma sembrava persa: James riuscì però a smarcarsi e a ricevere con un minimo di spazio da tre. Tirò cadendo all’indietro, la palla rimase in aria una vita, ed entrò sulla sirena. I Cavaliers vinsero, ma persero poi la serie 4 a 2.

John Stockton non è stato uno dei giocatori più forti degli anni Novanta per i suoi tiri da tre: era soprattutto un formidabile passatore, e intelligentissimo a impostare il gioco. Giocava negli Utah Jazz, che grazie soprattutto a lui e a Karl Malone sono stati tra le squadre più forti degli anni Novanta, che però ebbero la sfortuna di giocare nello stesso periodo dei più forti Chicago Bulls di Jordan. Nelle finali di Conference del 1997 incontrarono gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon, vincitori di due titoli nel 1994 e 1995, a cui si era aggiunto Charles Barkley. Dopo cinque partite, la serie era 3 a 2 per i Jazz: gara 6 si giocava a Houston, e a 2,8 secondi dalla fine il punteggio era di 100 pari. I Jazz avevano la rimessa, e sarebbe bastato un canestro da due, ma Stockton ricevette completamente solo fuori dall’area da tre, per un pasticcio difensivo dei Rockets. Fece un palleggio per avvicinarsi e tirò in sospensione, con Barkley che provò a stopparlo arrivando in ritardo. Non fu nemmeno un tiro molto bello, esteticamente, ma entrò, e i Jazz andarono in finale, che persero poi contro i Bulls.

Ralph Sampson arrivò in NBA come una possibile, futura stella, ma ebbe una carriera sfortunata per molti e gravi infortuni. Nel 1986 arrivò in finale di Conference con gli Houston Rockets, la squadra che lo aveva scelto alla prima scelta dei draft del 1983, contro i Los Angeles Lakers di Magic Johnson e Kareem Abdul-Jabbar, campioni in carica della NBA. In quella serie i Rockets riuscirono sorprendentemente a portarsi sul 3 a 1, con la partita potenzialmente decisiva a Los Angeles. A un secondo dalla fine, però, le due squadre erano 112 a 112. Sembrava scontato che si sarebbe andati agli overtime, cosa che avrebbe potuto favorire i Lakers, più esperti e in casa. Ma i Rockets ci provarono lo stesso, con un numero da circo: dalla rimessa laterale fecero quasi un cross verso l’area, sperando che succedesse qualcosa. Sampson saltò per riceverla con le spalle rivolte a canestro, marcato proprio da Jabbar. Si girò in aria, ricevette la palla con due mani e fece una sponda verso il canestro, quasi come un colpo da pallavolo. La palla entrò e i Rockets andarono in finale, che persero poi contro i Celtics di Larry Bird.

I New York Knicks sono stati una delle squadre più forti degli anni Novanta, anche se non vinsero mai il titolo e arrivarono in finale soltanto due volte (soprattutto per via dei Chicago Bulls). La seconda volta fu nel 1999, dopo una stagione per molti versi deludente. La squadra era buona, ma per qualche motivo giocò sotto le aspettative. Insieme a un ormai 37enne Pat Ewing, in squadra c’era Larry Johnson, un’ala grande molto forte e dotata di grandi intelligenza di gioco e altruismo. Alle finali di Conference di quell’anno ci arrivarono contro gli Indiana Pacers allenati da Larry Bird, in una sfida molto equilibrata. La serie dopo due partite era sull’1 a 1, e gara 3 si giocò a New York: a meno di 12 secondi dalla fine, i Pacers erano in vantaggio di 3 punti. I Knicks avevano una rimessa nella metà campo avversaria, e l’unica soluzione era provare a segnare da tre per mandare la partita ai supplementari. I Pacers dovevano cercare di impedirlo, e la cosa più importante per loro era evitare di fare fallo sul tiro da tre: in quel caso avrebbero concesso tre tiri liberi, che a seconda del tiratore sono generalmente più facili da segnare rispetto a un tiro da tre. Successe esattamente la cosa che non doveva succedere, per Indiana: anzi peggio. I Knicks sbagliarono la rimessa per la guardia Allan Houston e Johnson se la ritrovò in mano. Era un buon tiratore, e non c’era tempo per fare un altro passaggio. Il difensore di Johnson gli lasciò un po’ di spazio per il tiro, ma era piuttosto lontano: lui decise allora di provare a batterlo in palleggio, ci riuscì a metà, e saltò per tirare con il difensore a fianco. Lasciò partire la tripla relativamente indisturbato, ma gli arbitri videro un contatto, secondo molti inesistente. Fischiarono, mentre nel frattempo il tiro di Johnson entrò nel canestro, portando la partita in parità. Johnson corse nella sua metà campo esultando, ma poi si ricordò che doveva ancora tirare il libero della vittoria, e fece un gesto come per invitare se stesso alla calma. Segnò anche il tiro libero, facendo vincere la partita ai Knicks, che vinsero poi la serie 4 a 2 e persero la finale contro i San Antonio Spurs.

I Boston Celtics degli anni Sessanta, quelli di Bill Russell, sono la squadra più vincente della storia della NBA: vinsero undici titoli in tredici anni, arrivando una volta secondi. Nel 1965 incontrarono alle finali di Conference i Philadelphia 76ers di Wilt Chamberlain, che riuscirono a portarli fino a gara 7. A cinque secondi dalla fine, i Celtics erano in vantaggio di un punto, ma i 76ers avevano una rimessa sotto il canestro in cui dovevano segnare: bastava fare arrivare la palla a Chamberlain, e c’erano buone possibilità che sarebbe riuscito a segnare. Ma sbagliarono la rimessa: John Havlicek, storica guardia di quei Celtics, intercettò il passaggio. Sam Jones la raccolse e la portò nella metà campo offensiva, facendo scorrere il cronometro. La partita finì, i Celtics andarono in finale e vinsero il loro settimo titolo consecutivo.

I Detroit Pistons sono una squadra che nella sua storia ha alternato periodi in cui era fortissima ad altri, molto più frequenti, in cui non è riuscita praticamente a combinare niente. I due momenti in cui è stata una delle più forti della NBA sono stati la metà degli anni Duemila, quando vinse il titolo grazie alla squadra composta da Chauncey Billups, Rip Hamilton, Tayshaun Prince, Rasheed Wallace e Ben Wallace, e la seconda metà degli anni Ottanta, il periodo dei così detti “Bad Boys”, grazie soprattutto alle due guardie Isaiah Thomas e Vinnie Johnson. In quel periodo raggiunsero per tre anni consecutivi le finali NBA, sempre contro i Lakers, vincendone due, e furono i principali rivali dei Boston Celtics di Larry Bird, che era già a fine carriera ma nonostante gli acciacchi era ancora un giocatore incredibile. I Celtics e i Pistons si incontrarono molto spesso ai playoff, in quegli anni, e nel 1987 successe in finale di Conference. La serie era sul 2 a 2, e si giocava a Boston la gara 5. Detroit era avanti 107 a 106, a 17 secondi dalla fine: se avesse vinto, avrebbe avuto il vantaggio di giocare la gara potenzialmente decisiva in casa. I Celtics giocarono una rimessa nella metà campo avversaria, la palla arrivò ovviamente a Bird, che penetrò sulla sinistra ma si fece stoppare. La palla rimbalzò fuori dal campo, con ultimo tocco dei Celtics: i Pistons avevano una rimessa a cinque secondi dalla fine, con un punto di vantaggio. Sembrava finita, e infatti i giocatori in panchina già esultavano, mentre quelli dei Celtics avevano facce disperate. Bird si mise a difendere un uomo sulla rimessa, ma aveva un’altra cosa in mente: aspettò che Thomas facesse il passaggio per un suo compagno apparentemente libero, e fece un balzo per intercettarla. Riuscì a toccarla, a controllarla, a girarsi verso il centro e a servire il suo compagno Dennis Johnson sotto canestro, che segnò il canestro della vittoria. I Celtics vinsero poi la serie per 4 a 3, e andarono in finale, che persero poi contro i Lakers.