“Dear White People”, per capire meglio il razzismo negli Stati Uniti

Una nuova serie tv su un gruppo di studenti afroamericani sta piacendo per come parla di questioni molto serie

Dal 28 aprile è disponibile su Netflix Dear White People, una nuova serie che parla di un gruppo di studenti afroamericani in una prestigiosa università americana, e di cui si sta parlando molto bene per il modo originale e acuto con cui parla del razzismo negli Stati Uniti d’oggi e di cosa vuole dire essere neri in un contesto prevalentemente bianco come quello di un college rinomato. Dear White People è fatta da dieci episodi ed è ispirata all’omonimo film del 2014 diretto da Justin Simien, un giovane regista che non ha ancora fatto molte cose ma di cui si parla bene, e che soprattutto ha scritto e diretto diversi episodi della serie. Il film era stato presentato al Sundance del 2014 e aveva ricevuto buone recensioni: il soggetto era lo stesso, ma la serie, dicono i critici, riesce ad approfondire meglio il tema del razzismo.

Dear White People – la serie, ma anche il film – non ha un vero protagonista: le puntate sono dedicate (quasi tutte) a un personaggio, attraverso il cui punto di vista vengono raccontate le cose che succedono nella Winchester University, un’università immaginaria della Ivy League, il nome con cui vengono identificati gli otto college più prestigiosi degli Stati Uniti. Spesso le stesse vicende vengono affrontate da due punti di vista diversi, e si scoprono nuovi dettagli o si capiscono nuove interpretazioni da dare ai temi affrontati dalla serie.

Ci sono due personaggi che però sono un po’ più importanti degli altri: una è Samantha White, una studentessa nata da una relazione mista, brillante e con un umorismo molto sottile, che conduce una trasmissione provocatoria su una radio universitaria intitolata Dear White People, in cui denuncia gli episodi di razzismo che succedono al campus. Samantha è agguerrita e radicale, molto diversa da Troy Fairbanks, l’altro personaggio della serie con più visibilità: è uno studente brillante e molto bello, figlio del preside dell’università, che si candida per diventare presidente del corpo studentesco. Inizialmente Troy sembra un opportunista, poco interessato al razzismo: ma una delle cose più apprezzate della serie è stata la capacità di approfondire i personaggi, rivelando pian piano aspetti nascosti e molto delicati delle loro personalità. Come succede per esempio con Lionel Higgins, uno studente che fa il giornalista per un giornale universitario e di cui vengono raccontate soprattutto le difficoltà nel gestire e comprendere la propria sessualità.

La premessa della serie è che un gruppo di studenti bianchi, che scrivono un giornale satirico che ricorda molto alcuni siti dell’alt-right americana, organizza una festa in cui i ragazzi bianchi si pitturano la faccia di nero, scimmiottando nei vestiti e negli atteggiamenti gli afroamericani. Questo provoca grandi tensioni, con le organizzazioni di studenti afroamericani che cercano in vari modi di protestare e vendicarsi. La serie racconta come i diversi protagonisti reagiscono ed elaborano, tutti in modo diverso, questa e altre ingiustizie, offese e discriminazioni quotidiane che devono sopportare. Ma uno dei meriti che sono stati maggiormente riconosciuti alla serie è stato anche quello di parlarne, di quelle ingiustizie, offese e discriminazioni quotidiane che gli afroamericani sopportano nei contesti in cui sono ancora più minoranza del solito, come una costosa università privata americana.

Nella serie si parla di Black Lives Matter, il movimento per i diritti civili degli afroamericani nato negli ultimi anni, di Tamir Rice, di Mike Brown, e degli altri giovani neri uccisi dalla polizia americana. Ma al centro del discorso sul razzismo fatto in Dear White People, più che i grandi avvenimenti che hanno segnato la questione negli ultimi anni, è soprattutto la precarietà con cui vivono i giovani neri, e la paura di diventare uno di quei giovani neri uccisi dalla polizia. Questo tema è introdotto soprattutto nel quinto episodio, il più discusso della serie e che rappresenta un punto di svolta. Senza spoiler, racconta di una brutta esperienza con la polizia che capita a uno dei protagonisti, e serve a far capire agli spettatori – ma anche agli stessi studenti bianchi dell’università – come tutte le denunce e le lamentele presentate nelle prime puntate abbiano basi concrete e non siano solo un discorso astratto e allarmista, come sostenuto da molti opinionisti di destra americani. Il quinto episodio è stato diretto da Barry Jenkins, il regista di Moonlight: Simien ha spiegato che lo scopo era proprio «ricontestualizzare completamente il modo in cui guardare il resto della stagione».

Anche se Dear White People ha dei momenti drammatici, fa ridere in molte occasioni. La sceneggiatura contiene numerosi dialoghi “alla Aaron Sorkin”, cioè sopra le righe e molto brillanti, anche se non sempre credibili, visto che sono pronunciati da studenti poco più che ventenni. Ma sono spesso interessanti perché parlano in modo divertente e originale di questioni serie come l’appropriazione culturale (cioè l’adozione di comportamenti, usanze e abbigliamento di minoranze: quello che fanno i bianchi quando indossano camicie africane o cappelli giamaicani, per esempio), la ricerca di un’identità sessuale, l’autoreferenzialità dell’uso politico dei social network, i pregiudizi tra gli stessi afroamericani per chi ha la pelle più chiara, le relazioni interraziali o l’eredità della schiavitù nera e il suo senso nel 2017. Un’altra cosa che è piaciuta molto ai critici è la colonna sonora, fatta soprattutto di canzoni cantate da afroamericani, dal rap al soul.

Sul New York Times, James Poniewozik ha scritto che non tutte le battute della serie funzionano, che alcuni personaggi secondari sono un po’ delle macchiette, e che la satira è un po’ didascalica. «Ma la forza della serie è la sua voce, sicura e coerente. (…) Uno dei marchi di fabbrica di Simien è far fissare la telecamera agli attori, sia nelle scene di gruppo che nelle conversazioni a due. Il trucco evidenzia uno degli obiettivi della serie: irrompere nel tuo safe space, richiedere il tuo coinvolgimento, assicurarsi che tu capisca che sì – chiunque tu sia – Dear White People sta parlando di te». Anche Maureen Ryan, capo dei critici televisivi di Variety, ha scritto che all’inizio di Dear White People i momenti di satira non si fondono bene con quelli più seri e riflessivi, e che a volte la serie «non riesce a decidere se vuole essere una sitcom che fa delle variazioni intorno ai grandi stereotipi di personaggi comici, oppure se vuole essere quel tipo di comedy semi-seria che si basa su emozioni concrete e temi importanti e complicati». Il ritmo con cui vengono portate avanti le varie linee narrative non è sempre sostenuto, secondo Ryan, che concorda sulla sciatteria di alcuni personaggi secondari. Però «la serie riesce nel suo obiettivo principale: è saggia e acuta emotivamente quando si tratta di descrivere i modi concreti in cui gli afroamericani hanno meno possibilità degli altri, anche quelli con delle medie scolastiche altissime».