Cosa vuol dire “indigente”

Può essere usato come sinonimo di bisognoso o disagiato, ma non di povero o misero che hanno invece una connotazione più negativa

di Massimo Arcangeli

L’origine di indigente è il participio presente (indigens) del latino indigere; significava “necessitare, esser sprovvisto, aver bisogno”, ed era un composto di egere. Un testo scolastico ottocentesco, dopo aver indicato, di entrambi, il costante riferimento «a qualche cosa di buono, a cose onde si ha bisogno per un fine», così distingueva i due verbi:

Egere, difettare, esprime la indigenza come una condizione; indigere, aver bisogno, esser bisognoso, dice col desiderio di esser sodisfatto, ancor più che il semplice senso opprimente di questa condizione. Entrambi accennano ad una difficoltà di ottenere ciò che manca (Ferdinand Schultz, I sinonimi latini ad uso delle classi liceali e quinta ginnasiale, prima versione italiana sull’ultima edizione tedesca del prof. L. R. Germano Serafini, con note del traduttore, Napoli, Gabriele Sarracino, 1872, p. 115).

Indigere, in latino, esprimeva dunque il senso di una condizione cui non ci si rassegnava. Chi la pativa era spinto dal desiderio di cambiarla, e faceva il possibile per riuscirci. Come il geomètra del XXXIII canto del Paradiso (vv. 133-139); anche lui fatica, per cercare di capire quel che gli sfugge, e Dante usa proprio indigere per esprimerne lo sforzo di comprendere:

Qual è ‘l geomètra, che tutto s’affige
per misurar lo cerchio e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova,
ma non eran da ciò le proprie penne.

(“Come il geometra, che s’ingegna (s’affige) di misurare il cerchio e non riesce a scoprire, [pur] riflettendoci [a fondo], il principio di cui ha bisogno (ond’elli indige), così mi sentivo (era) io [davanti] a quello straordinario scenario (vista nova): volevo (voleva) capire come l’immagine [che scorgevo all’interno] si adattasse (si convenne) al cerchio e come vi trovasse collocazione (s’indova), ma le mie ali (penne) non erano adatte allo scopo (non eran da ciò)”).

È l’ultima visione del poeta, che sta provando a descrivere il mistero dell’incarnazione, cercando di spiegarsi il modo in cui l’immagine di Cristo si adatti a una luce che la contiene e, al tempo stesso, non la contiene. Come un quadrato che si voglia far coincidere con la circonferenza dalla quale è circoscritto e che, allo stesso tempo, circoscrive.

Oggi un indigente è un disagiato o un bisognoso, e potremmo essere tentati di fermarci qui. Perché il letterario malagiato è parola uscita dall’uso; nullatenente e non abbiente esprimono l’impersonale freddezza del linguaggio burocratico che indigente, pur altrettanto formale, non mostra di possedere; spiantato o squattrinato, del registro familiare, sono parole ben specifiche: il loro significato rende preciso conto della scarsità di risorse finanziarie dell’interessato, suggerendo per di più l’idea che su di lui, malgrado le difficoltà del momento, non pesi la condanna di una sfortuna a vita, come per un indigente, un bisognoso o un disagiato: chi oggi è al verde, forse anche perché non ha un lavoro, domani potrebbe veder mutata la sua sorte; chi è in miseria, chi non possiede nulla o quasi nulla, è assai più difficile che riesca a sottrarsi al proprio destino.

Mi si potrebbe chiedere, a questo punto, perché, tra i sinonimi validi di indigente, non abbia ancora menzionato né poveromisero. Non l’ho fatto perché queste due parole, rispetto a disagiato e bisognoso, appaiono a loro volta collocarsi su un piano diverso. Si può anche essere bisognosi d’altro, è vero (d’amore o d’affetto, di un parere o un consiglio), oltreché di un sostegno economico, ma povero e misero vanno ben oltre un semplice arricchimento di significato: possono esprimere anche il valore negativo di un’offesa. Questo avviene quando diamo a qualcuno del poveraccio, o del povero stupido; quando lo definiamo povero di spirito, non per dire che è una persona umile (l’evangelico povero in spirito) ma per rimproverarlo o accusarlo di essere un ingenuo, uno sprovveduto, un sempliciotto; quando, parlandone come di un essere meschino o spregevole, che è ancor peggio, lo descriviamo come un misero individuo.

La lingua ci appare qui spietata perché chi la usa aggiunge, alla sfortunata condizione di chi non dispone dei necessari mezzi di sussistenza, una forte carica di disprezzo. Scrivono due studenti universitari, per contestualizzare indigente: «Si è assentato da lavoro senza giustificazione. È un indigente»; «Sei una persona indigente». I sinonimi che indicano per spiegare la parola? Il primo scrive inadempiente, il secondo irresponsabile. Gli indigenti, involontariamente, li hanno condannati anche loro.

Alla vigilia del Festival “Parole in cammino” che si è tenuto ad aprile a Siena, il suo direttore Massimo Arcangeli – linguista e critico letterario – ha raccontato pubblicamente le difficoltà che hanno i suoi studenti dell’università di Cagliari con molte parole della lingua italiana appena un po’ più rare ed elaborate, riflettendo su come queste difficoltà si estendano oggi a molti, in un impoverimento generale della capacità di uso della lingua. Il Post ha quindi proposto ad Arcangeli di prendere quella lista di parole usata nei suoi corsi, e spiegarne in breve il significato e più estesamente la storia e le implicazioni: una al giorno.