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  • Venerdì 3 febbraio 2017

Come si racconta Trump secondo Reuters

Il direttore di una delle più grandi agenzie di stampa al mondo ha scritto ai suoi giornalisti, stilando una lista per punti

(Chris Hondros/Getty Images)
(Chris Hondros/Getty Images)

In un messaggio alla redazione del 31 gennaio, il direttore dell’agenzia di stampa internazionale Reuters ha parlato di come raccontare la presidenza Trump “alla Reuters“. Discussioni del genere stanno avvenendo in moltissime redazioni, e non solo degli Stati Uniti: le caratteristiche dell’ascesa politica di Trump e del suo comportamento da candidato e presidente costringono i giornalisti e fare i conti con una serie di elementi nuovi, o di cui è nuovo l’utilizzo da un pulpito così importante, e ripensare all’efficacia del proprio modo di lavorare.

I primi dodici giorni della presidenza Trump (esatto, solo dodici giorni) sono stati memorabili per tutti e particolarmente impegnativi per chi come noi lavora nel settore dell’informazione. Non capita tutti i giorni di sentire un presidente americano definire i giornalisti «tra gli esseri umani più disonesti della Terra» o il suo principale stratega ribattezzare i mezzi d’informazione «il partito d’opposizione». Non sorprende, quindi, che circolino molte domande e teorie su come raccontare la nuova amministrazione statunitense.

Qual è, quindi, la risposta di Reuters? Opporsi all’amministrazione? Calmarla? Boicottare le sue riunioni? Usare la nostra voce per raccogliere sostegno ai mezzi d’informazione? Queste sono tutte idee che al momento stanno circolando, e per alcune società che si occupano d’informazione potrebbero essere giuste. Ma non hanno senso per Reuters. Noi sappiamo già cosa fare perché lo facciamo tutti i giorni e in tutto il mondo.

Ribadiamo l’ovvio: Reuters è un’organizzazione globale che si occupa d’informazione e lavora in modo indipendente ed equo in oltre cento paesi, tra cui molti in cui i mezzi d’informazione non sono benvenuti e sono spesso sotto attacco. Sono sempre orgoglioso del lavoro che facciamo in posti come la Turchia, le Filippine, l’Egitto, l’Iraq, lo Yemen, la Thailandia, la Cina, lo Zimbabwe e la Russia, nazioni nelle quali a volte ci scontriamo con un misto di censura, persecuzioni giuridiche, visti negati e addirittura minacce fisiche ai nostri giornalisti. Rispondiamo a tutto questo cercando di fare del nostro meglio per proteggere i nostri giornalisti, rinnovando il nostro impegno nel dare le notizie in modo equo e onesto, ostinandoci nel raccogliere informazioni difficili da ottenere e rimanendo imparziali. Scriviamo molto raramente di noi stessi e dei nostri problemi, e molto spesso delle questioni che faranno la differenza nel lavoro e nella vita dei nostri lettori e dei nostri spettatori.

Non sappiamo ancora quanto duri gli attacchi dell’amministrazione Trump si faranno con il passare del tempo, o fino a che punto questi attacchi saranno accompagnati da limitazioni legali alla nostra attività di raccolta delle informazioni. Ma sappiamo che dobbiamo seguire le stesse regole che disciplinano il nostro lavoro in qualsiasi posto, nello specifico:

Cosa fare:

– Raccontare le cose che hanno importanza per la vita delle persone e fornire loro i fatti di cui hanno bisogno per prendere decisioni migliori.

– Avere ancora più risorse: se una porta per ottenere informazioni si chiude, aprirne un’altra.

– Ignorare i comunicati stampa e preoccuparsi meno dell’accesso ai canali ufficiali. Non sono mai stati troppo utili. Abbiamo fatto un lavoro formidabile in Iran, dove non abbiamo praticamente avuto accesso a canali ufficiali. Quello che abbiamo sono le fonti.

– Andate fuori, uscite, e imparate più cose sul modo in cui le persone vivono, quello che pensano, cosa li aiuta e cosa li danneggia, e in che modo il governo e le sue iniziative appaiono a loro, non a noi.

– Tenete a portata di mano i Thomson Reuters Trust Principles, ricordando che «l’integrità, l’indipendenza e l’imparzialità di Reuters devono essere sempre pienamente preservate».

Cosa non fare:

– Non farsi mai intimidire, mai.

– Non iniziare battaglie superflue né far sì che la notizia parli di noi. Anche se a noi possono interessare, i dettagli tecnici del nostro lavoro generalmente non interessano al pubblico e anche se così non fosse il pubblico potrebbe comunque non essere dalla nostra parte.

– Non sfogatevi pubblicamente per quelle che potrebbero essere comprensibili frustrazioni quotidiane. In moltissimi altri paesi ci teniamo i nostri pensieri per noi, così da poter riportare le notizie senza essere sospettati di avere un’ostilità personale. Dobbiamo fare lo stesso negli Stati Uniti.

– Non abbiate una visione troppo tetra dell’ambiente in cui dobbiamo lavorare: è un’opportunità per mettere in pratica le competenze che abbiamo imparato in posti molto più difficili in giro per il mondo e dare l’esempio, mettendo a disposizione informazioni e opinioni più recenti, utili e illuminanti di qualsiasi organizzazione giornalistica, dovunque si trovi.

Questa è la nostra missione, negli Stati Uniti come in qualsiasi altro posto. Facciamo la differenza nel mondo perché pratichiamo un giornalismo professionista che è sia intrepido che imparziale. Quando facciamo degli errori – e succede – li correggiamo in modo veloce e completo. Quando c’è qualcosa che non sappiamo, lo diciamo. Quando ci arrivano delle voci, le rintracciamo e le riportiamo solo quando siamo sicuri che rispondano ai fatti. Diamo valore alla velocità ma non alla fretta: quando su una cosa c’è bisogno di fare ulteriori verifiche, ci prendiamo il tempo per farle. Cerchiamo di evitare le “esclusive permanenti”: arrivare per primi ma sbagliare. Lavoriamo con una serena integrità non solo perché lo dicono le nostre regole ma perché – in 165 anni di storia – questo ci ha permesso di fare il miglior lavoro e tutto il bene possibile.