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  • Martedì 4 ottobre 2016

«Qui dentro il Lupo non potrà prendermi!»

Un capitolo del nuovo libro di Luca Molinari, che parla di case e storia delle case, cominciando da quelle dei Tre Porcellini

Un dettaglio della copertina di "Le case che siamo" di Luca Molinari; è una fotografia di "Casetta n. 126 – Muro eroico" di Michele De Lucchi (© Michele De Lucchi, 2008)
Un dettaglio della copertina di "Le case che siamo" di Luca Molinari; è una fotografia di "Casetta n. 126 – Muro eroico" di Michele De Lucchi (© Michele De Lucchi, 2008)

Lo storico e critico d’architettura Luca Molinari, che è anche un blogger del Post, ha scritto un libro intitolato Le case che siamo in cui spiega l’evoluzione delle case nel tempo. Il libro racconta molte case famose, da quelle della fiaba dei Tre Porcellini, al Cabanon di Le Corbusier, la capanna che il grande architetto si era costruito per sé, dalla casa del Grande Fratello a Casa Farnsworth di Mies van der Rohe. Molinari ha scritto questo libro per dare importanza alle case come a un aspetto dell’architettura che secondo lui tende a essere poco considerato rispetto alle questioni che riguardano gli spazi pubblici. Nell’introduzione di Le case che siamo Molinari parte da alcune immagini pubblicate sui giornali – i cellulari dei migranti, ultimo legame con la loro casa, le pubblicità di Ikea, le forme di sharing economy nei condomini europei – per capire come la vita delle persone si riflette nelle case in cui abitano.

Le case che siamo è pubblicato dalla casa editrice Nottetempo e sarà presentato a Milano, alla Libreria Verso al 40 di Corso di Porta Ticinese, il 4 ottobre alle ore 19. Insieme a Luca Molinari ci sarà lo scrittore Giacomo Papi, a sua volta blogger del Post e collaboratore della pagina Libri.

Nel primo capitolo del libro, intitolato La casa solida, Molinari parte dalle case della fiaba dei Tre Porcellini per raccontare come si è evoluta l’idea di casa nel tempo e come l’idea della solidità sia sempre stata fondamentale.

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***

C’erano una volta tre porcellini che vivevano con i genitori. Un giorno la madre li chiamò e disse: “Siete troppo grandi per rimanere ancora qui. Andate a costruirvi la vostra casa”. Prima di andarsene, li avvisò di non fare entrare il Lupo: “Vi prenderebbe per mangiarvi!” E così i tre porcellini se ne andarono. Presto la strada si divise in tre e ognuno prese una direzione diversa. Sul suo percorso il Porcellino Piccolo incontrò un uomo che portava della paglia. “Per piacere, dammi un po’ di paglia!” disse. “Voglio costruirmi una casa”. In poco tempo costruí la sua abitazione e pensò di essere in salvo dal Lupo. La casa non era molto bella e nemmeno fatta bene, ma a lui piaceva. Gli altri due porcellini intanto proseguivano ognuno per la propria strada e presto il Porcellino Medio incontrò un contadino che portava della legna. “Costruirò la mia casa con il legno perché è più resistente della paglia,” disse il Porcellino Medio che lavorò duramente tutto il giorno per realizzarla.

“Adesso il Lupo non mi prenderà e non mi mangerà,” concluse.
Il Porcellino Grande invece incontrò un uomo che trasportava mattoni. “Per piacere, dammi un po’ di mattoni,” gli chiese. “Voglio costruirmi una casa”.
Il Porcellino Grande ringraziò il signore e si mise subito all’opera. Lavorò sodo e una volta finita la sua casa esclamò: “Che bella, e com’è solida! Qui dentro il Lupo non potrà prendermi!”

Il giorno dopo il Lupo arrivò alla casetta di paglia: “Porcellino, porcellino, fammi entrare,” gridò il Lupo.
Ma il Porcellino Piccolo non aveva intenzione di aprire la porta. Allora il Lupo cominciò a soffiare stizzito, buttò giù la casetta e lo divorò.
Il giorno seguente il Lupo andò a casa del Porcellino Medio e bussò anche alla sua porta. “Chi è?” chiese il Porcellino Medio.
“Tuo fratello,” rispose il Lupo.
Ma il Porcellino Medio sapeva che non si trattava di nessuno dei suoi due fratelli e non aprí.
Il Lupo allora prese i ammiferi e diede fuoco alla casa che bruciò tutta.
La casa di legno crollò e il Lupo si mangiò il porcellino.
Il giorno dopo ancora il Lupo andò alla casa di mattoni e gridò: “Porcellino, porcellino, fammi entrare!” Ma il Porcellino Grande rispose: “No, non ti farò entrare!” Poi improvvisamente sentì bussare di nuovo alla porta.
“Apri la porta e vedrai chi sono!” disse il Lupo con una vocetta. Quindi cominciò a soffiare ma la casa non si mosse di un millimetro. Poi provò con il fuoco ma non riuscì ad appiccarlo.
Il Lupo era furibondo! Gridava: “Porcellino, porcellino, scenderò per il camino e ti mangerò!” Dentro c’era una grossa pentola sopra il fuoco acceso. L’acqua stava per bollire. Il Lupo si calò dal camino.
Siccome non c’era il coperchio, il Lupo ruzzolò dentro la pentola e finì nell’acqua bollente.
E questa è la fine del lupo cattivo e della storia dei tre piccoli porcellini.

La favola dei tre porcellini è uno dei racconti di architettura più esemplari che si conoscano ed è insieme metafora delle virtù borghesi del buon costruire.
Solida, razionale, realizzata con avvedutezza, resistente al tempo e ai capricci delle intemperie, la casa del Porcellino Grande è il prototipo elementare della villetta borghese che avrebbe invaso le periferie verdi e ancora accoglienti delle città di mezzo mondo. Inoltre, è la perfetta rappresentazione di un’idea di casa non più urbana ma isolata, autosufficiente, bastione della privacy familiare, luogo caldo in cui ripararsi, difendendosi con ogni mezzo dal male che incalza dall’esterno.
La Bibbia dice: “Non costruirai sulla sabbia la tua casa, ma su un terreno solido” (Matteo 7,21-27). Nel I secolo a.C. l’architetto Marco Vitruvio Pollione, il cui libro De Architectura ebbe tanto successo a partire dall’Umanesimo anche per il fatto di essere uno dei pochi testi sopravvissuti in integrale al disfacimento del mondo romano, indica nella firmitas una delle tre virtù cardinali in ambito architettonico, insieme alla utilitas e alla venustas.
La solidità, la resistenza al tempo, non è necessariamente un valore borghese dal momento che è da sempre alla base del pensiero costruttivo dell’uomo che s da la Storia e la fragilità delle cose. Anzi, questa caratteristica è stata in ogni epoca prerogativa delle élite e di quelle istituzioni che volevano sopravvivere al tempo dimostrando una continuità e una forza resi- stente, una generazione dopo l’altra.
L’eternità assegnata al tempio e al palazzo si trasferisce via via nella casa per tutti in un processo che cambierà definitivamente i nostri paesaggi abitati.

Con l’inizio dell’Ottocento la casa passa dalla capanna in paglia del Porcellino Piccolo – fragile e povera nei materiali – alla casa in legno del Porcellino Medio – ricordo delle case in balloon-frame della prateria americana –, fino alla villetta in pietra del Porcellino Grande, coronamento del sogno piccolo-borghese della “casa per sempre”.
Da questo momento in poi milioni di cottage e casette, realizzati secondo i capricci delle mode, invaderanno i territori intorno alle nostre città realizzando il sogno della fuga dalla metropoli e l’illusione di un ricongiungimento con una Natura finalmente addomesticata.
È interessante notare che pochi decenni prima di questa rivoluzione abitativa la regina Maria Antonietta aveva fatto costruire all’ombra dell’imponente reggia di Versailles una piccola fattoria. Aspirazione bucolica di un mondo lontano dalle colonne e dal classicismo ingombrante del Palazzo. Dimora per i desideri di libertà della giovane sovrana, era realizzata con materiali elementari e un linguaggio che prefigurava la fuga romantica verso gli spazi aperti. Luogo primario in cui rinascere e riconciliarsi con la Natura. Questo casino dei piaceri rurali è una sorta di virus nell’impianto classicista della reggia, in esso tutto sembra in opposizione all’ordine prestabilito quanto a localizzazione, scala, materiali, stile.

Su questo modello “involontario”, che attua l’evoluzione del padiglione “dei piaceri” rinascimentale in rifugio preromantico, luogo di felice solitudine in contatto con una Natura addolcita, l’emergente cultura borghese innesterà il tema della privacy, ovvero l’idea che la casa non debba più essere il luogo di una piccola comunità, ma uno scrigno in cui custodire il nucleo familiare con i suoi beni e valori.
Non solo, la casa unifamiliare diventa progressivamente perfetta rappresentazione del modo in cui il gusto individuale si moltiplica senza limite nel mondo. Ogni casetta è a immagine e somiglianza del suo padrone e dei suoi voleri. Ogni giardino, veranda, cancello, decorazione, scelta di colore e linguaggio, viene comandato unicamente dall’interno, dagli occhi, dalle mani e dai desideri dei proprietari.
In questa casa latita il senso della presenza urbana: non è più corpo che contribuisce al disegno complessivo della città, ma diventa oggetto autonomo, isolato, recintato.

Nei primi due decenni del Novecento Adolf Loos – architetto austriaco e pensatore tra i più influenti nella costruzione del pensiero moderno sull’abitare – teorizza il Raumplan, ovvero la capacità dello spazio architettonico di essere generato dal suo interno come espressione del carattere e della personalità dei committenti. La casa diventa voce psicanalitica di chi la desidera e di chi la progetta. E le finestre non sono più mediazione tra la forma della città e la residenza, ma riflesso di un’interiorità soggetta a cambiamenti radicali. Le ville bianche di Loos, tra Austria e Cecoslovacchia, con elegante ermetismo rivelano da una parte il sogno di un lontano e assolato Mediterraneo, e dall’altra l’idea che la casa sia il prodotto di un pensiero completamente privato. Gli eleganti volumi ancorati alla terra sono l’immagine più estrema di una borghesia ormai indifferente alla città, al suo rumore e alla sua folla. Ogni casa è un labirinto della mente, dei ricordi e delle memorie che vi si andranno a sedimentare.

Lungo tutto il secolo scorso, milioni di casette unifamiliari colonizzeranno i nostri paesaggi come un pulviscolo inarrestabile di luoghi chiusi, recintati, esclusi agli occhi della comunità. Luoghi in cui abitano le gioie private e ritualizzate di una fetta di mondo, luoghi in cui avvengono alcuni dei più efferati fatti di cronaca degli ultimi decenni. La cantina-labirinto degli orrori del Silenzio degli innocenti non è altro che la versione piccolo-borghese del Gatto nero di Edgar Allan Poe. Una qualsiasi casa di una qualsiasi periferia residenziale può diventare teatro delle perversioni nascoste in nome della privacy e dei suoi riti. Quanti atroci delitti risolti nelle cantinette, nei garage e nelle cucine senza che nessuno abbia sentito nulla, per poi commentare il giorno dopo, davanti alle telecamere e appena prima del cancelletto d’ingresso, che erano persone perbene, vicini esemplari?

Eppure, alla fine degli anni sessanta un artista sembra avere la capacità e la leggerezza di aprire come una scatoletta di sardine questo monumento alla resistenza borghese rappresentato dal villino. Gordon Matta-Clark si avventura nelle periferie residenziali di New York, compra case abbandonate, le solleva con una serie di cric e le taglia a metà grazie a seghe circolari. I frammenti di questi segreti domestici in scala 1:1 vengono esposti nei musei. Le pareti con le carte da parati, l’ombra dei quadri e delle fotografie appese ai muri: ogni traccia degli abitanti diventa una rappresentazione da mettere in mostra. I lacerti della privacy si trasformano in monumenti minimi alla nostra storia. Il sogno di eternità di queste case viene liberato dalla gravità che le ancorava al terreno e racconta una fragilità che avvolge sempre di più l’idea della casa contemporanea ormai quasi indipendente dalla città per i suoi bisogni.