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  • Lunedì 19 settembre 2016

«Ah, boh, figurati, sì, è normale»

Un giorno di scuola raccontato da Mario Fillioley, insegnante e scrittore, nel suo nuovo libro "Lotta di classe"

Un dettaglio della copertina di "Lotta di classe" di Mario Fillioley, pubblicato da minimum fax
Un dettaglio della copertina di "Lotta di classe" di Mario Fillioley, pubblicato da minimum fax

Il primo settembre è uscito nelle librerie Lotta di classe, un diario tenuto da Mario Fillioley nel suo primo anno da docente di ruolo di lettere in una scuola media, la Alessandro Volta di San Gemini, in provincia di Terni. Fillioley, oltre ad avere un blog sul Post, è traduttore e scrittore. In Lotta di classe, che inizia il 14 settembre 2015 e finisce il 12 giugno 2016, racconta il suo rapporto con gli studenti, i tentativi di migliorare i suoi metodi educativi, i dubbi e le difficoltà dovute a lavorare in un posto lontano ottocento chilometri dalla città in cui ha sempre vissuto. Il libro però non è del tutto aderente alla realtà: gli studenti di Lotta di classe sono ispirati a ragazzi reali, ma Fillioley li ha creati mettendo insieme caratteristiche di persone diverse; lo stesso ha fatto con colleghi, tutor e preside. C’è un solo personaggio totalmente inventato, come lo stesso Fillioley spiega alla fine del libro.

Il libro è strutturato come un diario in cui ogni capitolo corrisponde a un giorno: nel racconto del 15 ottobre 2015 uno studente si sente male, gli altri vogliono aprire la finestra e l’insegnante ricorda di quando faceva il barelliere sulle ambulanze.

Fillioley Lotta Di Classe

Donato, che continua a essere il mio prediletto, qualche giorno fa si è sentito male. Non nella mia ora, ma mentre era in palestra, anzi, finita l’ora di educazione fisica, dopo la ricreazione. Sono entrato in classe e non l’ho visto. Ho chiesto dove fosse, e mi hanno spiegato che era seduto vicino alla segreteria, in attesa che lo venissero a prendere. Ho fatto i due corridoi che mi separavano dalla segreteria e l’ho trovato seduto là, gli ho chiesto cosa si sentiva e lui mi ha detto che qualcosa gli stringeva la gola, oppure la pancia, oppure i polmoni, non lo sapeva dire, comunque questo qualcosa non lo faceva respirare.

Non ho fatto il militare, ho fatto l’obiettore di coscienza. Sarebbe stato meglio fare il militare, sono finito sulle ambulanze della Misericordia. Ho fatto anche una certa carriera da soccorritore: prima rispondevo alle telefonate del 118, solamente quelle per i servizi ordinari (che so: trasferimenti casa-ospedale, trasporti da un ospedale all’altro), poi sono diventato autista, poi barelliere, alla fine barelliere nelle emergenze, incidenti stradali, urgenze (se uno al posto del militare ha fatto l’obiettore nelle ambulanze, conosce la differenza tra emergenza e urgenza).
Il fatto è che mi promuovevano (che poi non lo so se era una promozione) perché sopportavo la vista del sangue e delle altre porcherie relative alla natura umana (ma a patto che il medico non tirasse fuori le forbici, il bisturi e le altre cose taglienti, la cui vista mi faceva trasalire), e devo dire che anche le urla di dolore tutto sommato non mi sconvolgevano più di tanto: avevo capito che se ti dai una martellata sul dito mentre appendi un quadro strilli come un pazzo, dici le cose più terribili, se invece ti sei amputato una gamba dentro una pressa non fiati, chi ti guarda da fuori pensa che sei calmissimo, che sei un santo, invece no, non è questo, dev’essere che il corpo ti impone di risparmiare le energie e usarle per sopravvivere anziché per disperarti.
Insomma tolleravo abbastanza bene la vista delle disgrazie, tranne andare a prendere di corsa quelli in crisi da enfisema. Sembrava stessero per morire soffocati. Poi non era vero, alla fine non succedeva mai niente, la loro doveva essere più che altro una sensazione, però io li vedevo dibattersi come se avessero avuto sopra un assassino che li stava strangolando. E invece non c’era nessuno, si sentivano mancare l’aria, il respiro, e si muovevano come ossessi, si agitavano per non morire di asfissia, lottavano per trovare l’aria. Questa sensazione me la trasmettevano, mi rimaneva l’inquietudine per settimane. Mi ritorna anche adesso, ogni volta che sono al mare e provo ad andare sott’acqua, infatti è una vita che non riesco più a pigliare un riccio.

Donato ha detto questo fatto che si sentiva stringere la gola e respirava male. Io gli ho detto cose stupide, tipo: Vabbe’ dai, finiscila, che tanto per oggi non ti interroghiamo. Lui ha riso. Poi ha pianto. Poi ha smesso, poi mi ha detto: Mi viene anche da vomitare. Io gli ho chiesto: Ma forte? Con lo spruzzo? E lui di nuovo ha riso. Gli ho detto: No, perché se ti sta salendo la vomitata con lo spruzzo, ci mettiamo alla finestra e facciamo il bagno di vomito a qualcuno, tanto alla fine chi ti può dire niente? Ti sentivi male e hai vomitato: era nei tuoi diritti, giusto? Donato ha riso. Poi si è aggiustato gli occhiali con quella sua specie di tic, mi ha fissato per qualche secondo e ha detto: Va bene, ora viene a prendermi la zia. Però l’ho capito che non stava parlando con me. Poi ha pianto di nuovo, ma poco, sì e no tre secondi. Non mi andava più di tornare in classe. Mi piaceva stare là a vederlo ubbidire alle pulsioni dell’attimo, piangere, ridere, aggiustarsi gli occhiali che gli cadevano. Mi piaceva assistere a questi momenti in cui si faceva forza per calmarsi e consolarsi da solo. Volevo dirgli qualcosa, ma mi venivano solo frasi ottocentesche, tipo: Lo sai che ti stai facendo un ometto? Sono stato zitto fino a quando non è arrivata sua zia.
Quando sono tornato in classe mi hanno chiesto se potevano aprire la finestra. Fuori c’era un freddo porco, io non ho ancora fatto il cambio di stagione, ero col maglioncino di cotone. Ho detto: Va bene, ma com’è che avete tutto questo caldo? Mi hanno risposto: No, non abbiamo caldo, è che a Donato prima gli mancava l’aria. Gli ho detto: Ma guardate che non è una cosa che si contagia. Non mi hanno manco risposto. Fabrizio è salito prima sulla sedia e poi sul termosifone, che è l’unico modo per riuscire ad aprire la finestra. Pericoloso, lo so, però che dovevamo fare? Non è che potevamo morire soffocati.

L’indomani ho fatto piangere Gaspare. Avevano fatto una ricerca di gruppo, a lui toccava leggere alcune citazioni da un foglio che avevano stampato apposta. Si inceppava sulle parole, rideva, dava le «schicchere» agli altri componenti del gruppo, insomma sabotava il suo stesso lavoro. Gli ho detto: Ok Gaspare, visto che non ne hai voglia, i brani li legge qualcun altro. Se n’è andato a posto. Ha abbassato la testa e si è messo a piangere. Ha pianto mezz’ora. Non avevo usato un tono arrabbiato o cattivo, era la prima ora, avevo ancora i serbatoi della pazienza pieni, solo non mi andava di perdere tre ore con la sua sceneggiata, quindi al limite l’avevo detto un po’ di corsa, per sbrigarmi, come dico mille altre cose. Ho pensato: vabbe’, se piangi fatti tuoi, alla fine io che ti ho fatto? Quand’è suonata la campanella stava ancora piangendo. Gli ho chiesto: Ma è per quello che ti ho detto io? Ha strizzato gli occhi e mi ha guardato come se mi stesse vedendo per la prima volta in vita sua e si stesse chiedendo chi fossi. Poi mi ha detto: Ma no, mi sto solo sfogando perché loro mi prendono sempre in giro. Loro chi?, gli ho chiesto. Mi ha parlato di due di un’altra classe. E che c’entra con la ricerca, avrei voluto urlargli. Invece gli ho detto: Ah, allora va bene.

In sala professori c’erano quella di matematica e quello di tecnologie. Gli ho raccontato questo episodio. Mi hanno guardato come per dire: continua. Io ho chiesto: Cosa ne pensate? E loro hanno detto: Di cosa? Del fatto che io credevo piangesse perché l’avevo un po’ rimproverato e invece piangeva per due di un’altra classe. Mi hanno detto: Ah, boh, figurati, sì, è normale.

Quando facevo il barelliere, una volta siamo andati a prendere uno con una crisi da enfisema. Questo tizio abitava in campagna, aveva molta paura di non arrivare in ospedale, era agitato, si sentiva soffocare, quando siamo arrivati era sdraiato a letto, ma poi si è alzato e si è messo a muovere le braccia, sembrava volesse picchiarci. Farlo salire sulla barella era stata un’impresa. Durante il viaggio si alzava a mezzo busto, ci guardava con gli occhi usciti di fuori, diceva aiuto, però senza voce, gli attaccavamo il respiratore e lui se lo strappava, a un certo punto mi aveva afferrato per il bavero della divisa come per aggredirmi. Allora l’infermiere gli aveva rifilato due sberle in faccia, fortissime, e poi gli aveva detto con una voce flemmatica: Per favore, devi stare calmo, sennò è peggio. Dopo che l’avevamo lasciato in reparto, avevo chiesto all’infermiere: È normale? E l’infermiere mi aveva risposto: Che cosa? Che quello faceva così, il modo in cui si agitava, il fatto che pensasse fosse colpa nostra, che sembrava volesse aggredirci, e poi scusami, ma è normale che gli hai stampato due sberle al centro della faccia? L’infermiere mi aveva detto: Ah, boh, figurati, sì, è normale.

(c) Mario Fillioley, 2016 – minimum fax, 2016 – Tutti i diritti riservati.