È giusto mostrare i video dei neri uccisi dalla polizia?
Non sembra che servano a cambiare l'opinione pubblica e contribuiscono alla «disumanizzazione dei corpi dei neri», spiega una giornalista nera del Washington Post
di April Reign – The Washington Post
Abbiamo imparato il nome di Alton Sterling da un giorno all’altro. Grazie a un video molto crudo, abbiamo assistito alla sua uccisione da parte di due agenti di polizia di Baton Rouge, in Louisiana, in un parcheggio di un negozio di alimentari. Il video è stato girato con il cellulare di un passante, e mostra Sterling che viene attaccato con un taser, buttato contro auto e poi per terra, immobilizzato dai due poliziotti che sono sopra di lui, per poi staccare mentre si sente il rumore dei colpi di pistola che uccidono Sterling.
Sterling è uno dei 122 neri americani uccisi da colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia nel 2016, secondo un database del Washington Post che tiene traccia delle sparatorie mortali della polizia americana. Il nome di Alton Sterling si unisce a quelli di Eric Garner, Tamir Rice, John Crawford e di molti altri ancora che poco dopo essere morti sono diventati degli hashtag e degli argomenti popolari sui social network. Come per molti altri prima di lui, adesso i crudi dettagli della morte di Sterling si possono guardare in un video, e li si può condividere in continuazione.
In un certo senso il video è utile. È l’unica testimonianza della morte di Sterling che l’opinione pubblica ha potuto vedere: pare che le telecamere indossate dagli agenti si siano staccate mentre Sterling veniva bloccato e che la polizia abbia sequestrato il filmato delle telecamere di sicurezza del negozio di alimentari.
Il video, però, è anche oggetto di una forma di voyeurismo ripugnante. Le registrazioni – che sono equivalenti agli snuff movies – vengono condivise migliaia di volte, al punto che evitarle è diventato difficile: sono su Twitter, nei programmi televisivi del mattino, sulle tv delle palestre. Per me questi video non sono altro che una forma di violenza debilitante e insensata che viene mostrata di continuo. Guardare i famigliari che piangono i loro cari durante le conferenze stampa mi fa soffrire. Vedere, in continuazione, il modo in cui sono morti e sentire le loro ultime parole mentre chiedono cosa hanno fatto di sbagliato e supplicano per la loro vita mi fa sentire impotente. Penso ai miei famigliari, e mi spaventa il pensiero di come un movimento improvviso o una parola sbagliata possano mettere fine alle loro vite. Vedere dei video in cui persone che mi somigliano vengono uccise fa solo aumentare la mia paura che il prossimo possa essere qualcuno che conosco.
Quando vogliono, i media sono complici di questo voyeurismo morboso. Alcuni programmi televisivi del mattino hanno mostrato dei video terribili che mostravano Sterling che veniva ucciso da una violenza approvata dallo stato. Tuttavia, quando la giornalista Alison Parker e il cameraman Adam Ward dell’emittente televisiva locale americana WDBJ-TV furono uccisi in diretta a colpi di pistola, i media dell’informazione furono concordi sul fatto che il video era troppo esplicito per essere mandato in onda. Che distinzione hanno fatto? Perché il video dell’uccisione di persone bianche è troppo crudo per essere mostrato, mentre i filmati della morte di donne, uomini e bambini neri sono riprodotti in un circolo apparentemente infinito fino allo stordimento? Se non mostriamo i video delle esecuzioni dei condannati a morte, viene da chiedersi perché i media giustifichino la diffusione delle immagini della morte di cittadini liberi a opera del sistema.
Mi verrebbe da dire che non esiste un uso “responsabile” di questi video da parte dei media. Condividerli non ha nessun altro scopo se non quello di alimentare interessi pruriginosi, anche se per vederli bisogna cliccare volontariamente su un link. Decidere di trasmettere questi video in televisione quando potrebbero essere visti da dei bambini è una scelta sconsiderata, nel migliore dei casi. Nonostante capisca che le forme di intrattenimento della nostra cultura siano diventate sempre più violente, immagino che anche i bambini piccoli siano in grado di capire la differenza tra guardare un personaggio immaginario e vedere invece che hanno sparato a una persona che assomiglia a tuo padre, tuo fratello o tua zia.
Per dirla con le eloquenti parole dell’attivista e attore americano Jesse Williams, «anche con prove filmate della distruzione dei neri da parte della polizia, molti americani amanti della libertà non sono ancora convinti che ci sia un problema sistemico». Condividere un video sui social network o sui media non cambierà l’opinione di nessuno: servirà a confermare quello che una persona già credeva vero oppure spingerà a cercare dei modi per contraddire quello che ha appena visto. La disumanizzazione dei corpi dei neri, però, diventa una forma di intrattenimento perverso, quando le immagini del nostro dolore vengono trasmesse in bella vista in tutto il mondo.
Venticinque anni fa fu filmato il video del pestaggio di Rodney King da parte di diversi agenti di polizia. Durante il processo, gli avvocati degli agenti mostrarono ripetutamente un video dell’episodio nel tentativo deliberato di desensibilizzare la giuria (tra l’altro, l’American Bar Association, un’associazione americana di avvocati e studenti di giurisprudenza, sostiene che l’uso eccessivo di deposizioni filmate nei processi possa portare la giuria a perdere la concentrazione). Gli assalitori di King non furono condannati, e da allora abbiamo visto un’infinità di altri video, filmati delle telecamere indossate dagli agenti di polizia, di quelle posizionate sui cruscotti dei loro veicoli o video registrati da passanti. Mentre portiamo l’attenzione sul problema della violenza di stato, non sembra che condividere ripetutamente questi video ci porti più vicino a ottenere giustizia. Nei casi di Crawford, Garner e Rice, il grand jury ha deciso di non incriminare gli agenti coinvolti, nonostante i video delle loro morti fossero stati mostrati diffusamente.
Queste uccisioni sono delle notizie, ed è giusto che le persone ne vengano a conoscenza. I social network sono stati utili per portare l’attenzione sulle uccisioni dei neri da parte delle forze dell’ordine, e la speranza è che questa consapevolezza porti l’opinione pubblica a combattere per la giustizia. Ma non dovrebbero servire video così crudi per spronare le persone ad agire, soprattutto se a farne le spese sono il benessere e la psiche di così tante altre persone. Pensate alla famiglia di Sterling. Suo figlio più grande ha 15 anni. Non dovrebbe imbattersi nel video della morte di suo padre tutte le volte che entra in un social network. I filmati delle uccisioni della polizia sono utili come prova in un tribunale. Ma una volta accertato che il video è nella mani dell’organo che indagherà sull’uccisione, continuare a condividerlo non serve a ottenere niente di positivo.
© 2016 – The Washington Post