Donald Trump può vincere le elezioni?
Sondaggi e precedenti dicono che è difficile, ma non impossibile: può farcela in due modi
di Francesco Costa – @francescocosta
La vittoria delle primarie del Partito Repubblicano statunitense da parte dell’imprenditore Donald Trump è diventata sicura mercoledì 4 maggio, quando i suoi due ultimi sfidanti – Ted Cruz e John Kasich – hanno ritirato le loro candidature, avendo accumulato ormai uno svantaggio incolmabile. La convention estiva del partito a Cleveland nominerà formalmente Trump candidato alla presidenza, aprendo così la campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali dell’8 novembre del 2016. L’imprevedibile e fragorosa ascesa di Trump è stata la più grande notizia delle primarie fin qui, e apre inevitabilmente una domanda successiva: Trump può vincere le presidenziali?
Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto tenere presente come si elegge il presidente degli Stati Uniti. L’8 novembre del 2016, alla chiusura dei seggi, i voti non saranno contati su base nazionale ma su base statale: in Alabama, in Ohio, in Florida, in Pennsylvania, eccetera. Ognuno di questi stati assegna un certo numero di “grandi elettori”: persone che eleggeranno concretamente il presidente dopo le elezioni, riunite in un’istituzione che si chiama “collegio elettorale”. Il numero dei “grandi elettori” assegnati da ogni stato dipende dalla sua popolazione, e quindi può variare da un’elezione all’altra. Tutti i “grandi elettori” di uno stato sono vinti in blocco dal candidato che ottiene un voto in più degli altri: vincere col 51 o col 90 per cento quindi non fa differenza, la distribuzione non è proporzionale. I “grandi elettori” sono in tutto 538, quindi per diventare presidente bisogna vincerne 270. La metà più uno.
Questa premessa è utile per capire perché i sondaggi che misurano la popolarità dei candidati su base nazionale possono essere indicatori dell’aria che tira ma non servono a prevedere chi vincerà le elezioni: la conta dei voti su base nazionale non ha nessun peso nell’elezione del presidente degli Stati Uniti (tanto che è successo più volte che il candidato vincente avesse ricevuto su base nazionale meno voti del candidato perdente). Per lo stesso motivo – oltre che per il fatto che mancano ancora molti mesi alle elezioni – hanno poco valore anche i sondaggi che dicono oggi “Clinton batterebbe Trump” o “Kasich batterebbe Clinton” o “Sanders batterebbe Trump”. Per capire chi vincerà le elezioni bisogna tenere d’occhio la situazione politica stato per stato, fare di conto e capire chi ha le maggiori possibilità di vincere in un numero di stati tale da raggiungere la soglia dei 270 “grandi elettori”.
Per quanto ogni elezione sia una storia a sé, i precedenti storici aiutano a capire un po’ di cose del campo di gioco. Questa, per capirci, è la mappa elettorale delle ultime elezioni presidenziali: quelle in cui Barack Obama ottenne la rielezione battendo nettamente Mitt Romney e vincendo 332 “grandi elettori”.
Un altro metodo utile a capire il contesto è andare a vedere quali sono gli stati che negli ultimi anni hanno votato sempre per il candidato dello stesso partito, e quali sono quelli invece che hanno cambiato orientamento più volte: gli ultimi sono i cosiddetti “stati in bilico”, o “swing states”, o “stati viola”. Sono quelli in cui i candidati concentrano più tempo e risorse, perché alla fine risultano decisivi. Qui cominciano le cattive notizie per Trump.
Come ha notato il Washington Post, se Hillary Clinton dovesse vincere solo nei 19 stati che alle ultime sei elezioni presidenziali hanno sempre votato per il candidato dei Democratici, anche nelle elezioni perse del 2000 e del 2004, arriverebbe a 242 delegati. Le basterebbe a quel punto vincere in Florida per arrivare a 271 e ottenere la presidenza. Questo vuol dire che nemmeno uno scenario straordinariamente favorevole ai Repubblicani – uno che li vedrebbe vincere in Ohio, Iowa, Colorado, Nevada, New Mexico, Virginia, New Hampshire: tutti stati in bilico vinti da Obama nel 2012 – darebbe a Trump la certezza della vittoria.
Le ragioni di questo squilibrio – simile a uno speculare squilibrio pro-Repubblicani che si verificò negli anni Ottanta – sono quasi esclusivamente demografiche. Basta un dato, innanzitutto, per capire di cosa parliamo: alle elezioni presidenziali del 1980 Ronald Reagan ottenne una delle vittorie più larghe della storia, e lo fece ottenendo tra le altre cose il 56 per cento dei voti tra gli elettori bianchi; nel 2012 Mitt Romney ottenne il 59 per cento dei voti tra gli elettori bianchi, e questo non gli permise di evitare una netta sconfitta. Ecco il punto: negli Stati Uniti i bianchi sono sempre di meno, e i non bianchi votano sempre di più per i Democratici.
La crescita numerica delle persone afroamericane e di origini latinoamericane ha cambiato la mappa elettorale degli Stati Uniti negli ultimi quindici anni. Posti come il New Mexico, il Colorado e il Nevada, per esempio, hanno votato Repubblicano per decenni; sia nel 2008 che nel 2012 però sono stati vinti da Barack Obama, anche in modo abbastanza netto. Lo stesso è avvenuto in Virginia e sta accadendo in luoghi dove il dominio dei Repubblicani non è ancora crollato ma si sta logorando, come la North Carolina o l’Arizona. Tutto questo accade anche perché nello stesso lasso di tempo il Partito Repubblicano ha adottato posizioni politiche estreme che hanno allontanato da sé questi elettori: nel 2004 George W. Bush ottenne il 44 per cento dei voti degli elettori di origini latinoamericane; nel 2012 Obama vinse in quel segmento col 71 per cento. Questo spiega perché, anche al di là di Trump, oggi la mappa elettorale americana è particolarmente dura per i candidati Repubblicani.
Poi c’è Trump.
Le posizioni politiche radicali di Donald Trump – soprattutto su temi come l’immigrazione, le armi da fuoco, le donne e la violenza – hanno amplificato questo problema, a giudicare dai sondaggi: oggi circa l’80 per cento degli elettori afroamericani o di origini latino-americane dice di avere un’opinione negativa di Trump, e lo stesso dicono il 68 per cento delle donne (anche bianche). Per questo motivo, un’elaborazione dei sondaggi attuali stato per stato realizzata dal New York Times dice che se si votasse oggi Donald Trump perderebbe, e male.
Se il sostegno per Trump da qui a novembre dovesse crescere di cinque punti percentuali in ogni stato americano – impegnativo ma possibile – perderebbe comunque, anche vincendo in Ohio e Florida.
Per vincere, scrive il New York Times, Donald Trump dovrebbe recuperare dieci punti percentuali in ogni stato americano.
In conclusione
Questi dati non dicono che Donald Trump è sconfitto in partenza. Mancano ancora sei mesi alle elezioni presidenziali, e i sondaggi di sei mesi fa si sono rivelati in molti casi imprecisi; la campagna elettorale fra Clinton e Trump deve ancora iniziare; sia Clinton che Trump possono prendere decisioni o fare degli errori o incorrere in imprevisti che possono alterare molto le opinioni degli elettori; a un certo punto ci saranno anche tre dibattiti televisivi, con tutta l’attenzione che attraggono. E rispetto allo scenario descritto qui sopra, Trump potrebbe vincere recuperando dieci punti percentuali solo negli stati più importanti – quelli in bilico appunto – e non in tutto il paese. La facilità con cui, nonostante le previsioni avverse, Trump ha sconfitto alle primarie avversari ben più esperti e finanziati di lui dovrebbe suggerire cautela rispetto alla sua capacità di ottenere consensi e smentire i pronostici.
Lo studio delle mappe elettorali e dei dati suggerisce una cosa più generale: che Trump per vincere ha bisogno di recuperare consensi nelle parti dell’elettorato statunitense che oggi hanno un’opinione negativa di lui – soprattutto afroamericani e latinoamericani – oppure di portare a votare una quantità senza precedenti di elettori bianchi, pescando soprattutto tra quelli che di solito non vanno a votare, che sia grande abbastanza da sopperire al suo probabile svantaggio nei segmenti demografici più in crescita e gli permetta di vincere in stati come la Pennsylvania, l’Ohio, l’Iowa, il New Hampshire o il Wisconsin. Entrambe le cose sono difficili ma non impossibili. Nel 1980, a questo punto della campagna elettorale, il presidente uscente Jimmy Carter era dato in vantaggio su Ronald Reagan da gran parte dei sondaggi; alla fine perse di dieci punti percentuali su base nazionale.
Bonus per nerd: tutte le mappe elettorali americane, elezione per elezione