Grandezze e limiti di Zaha Hadid

La donna più famosa della storia dell'architettura, l'unica a essere chiamata per nome, è morta troppo presto per tutto, spiega il critico del Washington Post

di Philip Kennicott - Washington Post

Zaha Hadid davanti al Museo Riverside di Glasgow, in Scozia (Jeff J Mitchell/Getty Images)
Zaha Hadid davanti al Museo Riverside di Glasgow, in Scozia (Jeff J Mitchell/Getty Images)

Gli architetti spesso vivono a lungo. Frank Lloyd Wright fino a 91 anni e Ieoh Ming Pei è ancora vivo a 98, che è la stessa età in cui morì Philip Johnson. Anche per questo motivo la notizia della morte di Zaha Hadid – avvenuta giovedì 31 marzo all’età di 65 anni a Miami, dove era ricoverata per una bronchite – è stata sconvolgente. Ma lo è stata soprattutto perché Hadid, la prima donna ad aver vinto il Pritzker, il prestigioso premio di architettura, era una delle personalità di maggiore rilievo nell’architettura contemporanea, conosciuta per essere un’innovatrice e un’anticonformista dal carattere autoritario, che sopportava poco gli sciocchi. Ci vorranno anni, se non decenni, per mettere in ordine quel che lascia. Tra i progetti più importanti di Hadid ci sono l’Aquatics Center di Londra, costruito per le Olimpiadi del 2012, la sede dell’Opera di Guangzhou in Cina del 2010, e il Centro culturale Heydar Aliyev a Baku, in Azerbaigian, finito nel 2012.

Molti dei progetti più ambiziosi di Hadid però sono ancora in corso di realizzazione, come uno stadio in Qatar dove si giocheranno i Mondiali di calcio del 2022. Secondo molte persone Hadid incarnava i peggiori impulsi dell’esuberanza architettonica più recente, perché cedeva al virtuosismo scultoreo a scapito della logica e dell’efficienza, e coltivava il suo status di celebrità, che spesso sembrava isolarla da ogni forma di dibattito critico. Hadid da una parte parlava la lingua artificiosa propria della teoria architettonica – con tutte le sue implicazioni astratte – ma dall’altra firmava prodotti di consumo come candele, cravatte e articoli per la tavola. Ha lavorato regolarmente e con entusiasmo in paesi con governi autoritari, progettando per loro centri culturali costosi e spettacolari, e altri progetti volti all’ostentazione.

Nel 2006 il museo Guggenheim di New York presentò una retrospettiva sui primi trent’anni della carriera di Hadid: la maggior parte del lavoro era fatto su carta ed era composto da disegni di progettazione di edifici mai realizzati. Hadid aveva costruito la sua prima opera negli Stati Uniti – il Rosenthal Center for Contemporary Art di Cincinnati, in Ohio, un edificio dallo stile sorprendentemente dimesso e rettangolare – solo nel 2003. Anche se la sua prima opera importante ad essere completata fu la stazione dei pompieri di Vitra a Weil am Rhein, in Germania, nel 1994, per molto tempo durante gli anni Ottanta e Novanta non fu realizzato quasi nessuno dei progetti di Hadid. Per gli americani la mostra al Guggenheim fu una delle rare occasioni per osservare l’ampiezza della sua opera, un’attività coinvolgente e inquietante allo stesso tempo. Molti progetti sembravano appartenere a una fantasia personale e fantascientifica di futurismo, a un mondo fatto di velocità, fluidità e leggerezza. La visione futurista di Hadid però non sempre era sofisticata: spesso si contraddistingueva per un’ingenuità nello stile che ricordava un cartone animato. La mostra dava l’impressione che Hadid facesse parte di quella particolare cerchia di architetti che non progetta edifici per il mondo reale, ma per uno immaginario, ideale, solipsistico che solo loro sono in grado di vedere. Peggio ancora, questi architetti credono che le loro opere instilleranno i semi della loro visione utopistica nel noioso ambiente terrestre in cui sono costruite, trasformando tutto ciò che sta intorno.

Ma ci sono state anche delle eccezioni. Il polo espositivo progettato da Hadid per un festival di giardinaggio, sempre a Weil am Rhein, sembrava rispettarne il contesto originale con sensibilità. La struttura per il salto con gli sci a Innsbruck, in Austria, trasmette un equilibrio diverso e più giocoso tra la stravaganza e la violenza cinetica che rappresentavano le stelle polari dell’estetica di Hadid.

Già da molto prima della sua morte, Hadid era conosciuta semplicemente come Zaha. Per un architetto essere chiamati così frequentemente per nome rappresenta un traguardo importante. Nessuna donna architetto prima di lei aveva raggiunto questo status. Se per valutare l’eredità di Hadid saranno necessari dei decenni, potrebbe volerci lo stesso tempo per separare il suo lavoro e le controversie che ne hanno contraddistinto la carriera dalla sincera ammirazione che molti provano per il suo sensazionale successo in un ambiente dominato da uomini.

Nel 2014 Hadid commentò in un modo che a molti parve poco sensibile la questione degli abusi sistematici e dell’altissimo numero di morti tra gli operai migranti che lavorano a importanti progetti in paesi come il Qatar, dove Hadid stava progettando un gigantesco stadio. «Non ho niente a che fare con gli operai», disse, «Se c’è un problema, penso che se ne debba occupare il governo. Spero che queste cose vengano risolte». Quando qualcuno la criticò per queste parole, Hadid decise di contrattaccare e denunciò per diffamazione uno scrittore della New York Review of Books. La causa divenne complicata, ma lasciò l’impressione che a Hadid non interessasse quel che capitava agli sconosciuti che costruiscono opere come le sue, o che non considerasse suo compito interessarsene. L’episodio condizionerà la sua immagine postuma perché sembra confermare molti degli stereotipi sugli architetti moderni. La New York Review of Books si scusò per le imprecisioni nel suo articolo di critica a Hadid, ma chi pensa che l’architettura dovrebbe dedicarsi alla costruzione di un mondo migliore e più etico non l’ha perdonata.

Ora che Hadid è morta non sapremo mai se sarebbe diventata un architetto migliore, con una visione umanista più completa. Pochi architetti della sua levatura, importanza e influenza hanno abbandonato la scena con così tanto ancora da definire.

©2016 The Washington Post