• Mondo
  • Mercoledì 4 marzo 2015

La morte di Nicola Calipari, 10 anni fa

La storia dell'agente segreto italiano ucciso mentre scortava la giornalista Giuliana Sgrena, appena liberata da un sequestro a Baghdad, tra teorie del complotto e casi diplomatici

©Mauro Scrobogna / Lapresse
05-03-2005 Roma
Interni
Campino arrivo Sgrena - salma Calipari
Nella foto: arrivo in Italia della salma di Nicola Calipari, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi,
©Mauro Scrobogna / Lapresse 05-03-2005 Roma Interni Campino arrivo Sgrena - salma Calipari Nella foto: arrivo in Italia della salma di Nicola Calipari, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi,

Il 4 marzo di dieci anni fa, nel 2005, Nicola Calipari morì mentre stava scortando la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena all’aeroporto di Baghdad, in Iraq. Calipari era un agente del SISMI, cioè dei servizi segreti militari italiani (dal 2007 non esiste più, sostituito dall’AISE: Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna). Sgrena è una giornalista del Manifesto che un mese prima, il 4 febbraio, era stata rapita da un gruppo jihadista iracheno.

Dopo aver superato diversi posti di blocco, a meno di un chilometro dalla pista dell’aeroporto, la macchina con a bordo Sgrena e Calipari fu colpita dai militari di un posto di blocco statunitense. Calipari morì subito. Le ricostruzioni di Stati Uniti e Italia su quanto accaduto arrivarono a conclusioni diverse. Nel giugno del 2008 una sentenza della Corte di Cassazione italiana confermò comunque la “non-giudicabilità” del marine che aveva sparato, Mario Lozano. Una Corte statunitense aveva riconosciuto a Lozano la cosiddetta “immunità funzionale”. Ma è una storia più lunga e articolata di così.

Dal rapimento alla liberazione
Il 20 marzo del 2003 l’Iraq fu invaso da una “coalizione di volenterosi”, come la definì l’allora presidente statunitense George W. Bush, formata soprattutto da Stati Uniti e Regno Unito ma anche dall’Italia. L’obiettivo dichiarato era deporre Saddam Hussein, accusato di nascondere e sostenere militanti di al Qaida e di possedere armi di distruzione di massa. La guerra durò solo pochi mesi: il 13 dicembre 2003 le truppe della coalizione catturarono Hussein in un bunker sotto terra vicino a Tikrit, 140 chilometri a nord-ovest di Baghdad, che era stata presa qualche mese prima. I soldati americani rimasero però a lungo in Iraq (il ritiro definitivo è avvenuto nel dicembre del 2011) non più per sconfiggere un regime nemico, ma per combattere la guerriglia, controllare il territorio e metterlo in sicurezza. Meno di due anni dopo l’inizio dell’invasione, venerdì 4 febbraio 2005, l’inviata del Manifesto a Baghdad Giuliana Sgrena fu rapita. I primi giorni dopo la diffusione della notizia sono stati raccontati sul Manifesto di ieri:

«La noti­zia piomba come un drone nel via vai della reda­zione, allora in via Toma­celli: Giuliana Sgrena, inviata del mani­fe­sto in Iraq è stata rapita a Bagh­dad. Mal­grado lo sconcerto, si rico­strui­scono le ore di Giu­liana pre­ce­denti al seque­stro, si con­tatta la Farnesina, cir­co­lano ipo­tesi e timori. Il gruppo Orga­niz­za­zione per la Jihad isla­mica riven­dica il seque­stro via inter­net e intima all’Italia di riti­rare le truppe dall’Iraq entro 72 ore. La redazione si riem­pie di col­le­ghi e tele­ca­mere. Il giorno dopo, secondo comu­ni­cato di rivendica­zione, sem­pre via inter­net, reca la firma di una Orga­niz­za­zione della Jihad di Rafidain. Minac­cia di uccidere l’ostaggio se il governo ita­liano, «il cui capo è il cri­mi­nale Berlu­sconi», non annun­cerà il ritiro dall’Iraq «entro 48 ore». In serata, un «ultimo» comunicato della Jihad, in attesa che la «com­mis­sione giu­ri­dica» decida in tempi brevi la sorte di Giu­liana Sgrena. Poi 15 giorni di appelli e di attesa. Da Bagh­dad, si fa sen­tire il Con­si­glio degli Ulema sun­niti per chie­dere la libe­ra­zione della gior­na­li­sta e per bol­lare come “irragio­ne­voli” le richie­ste dei suoi rapi­tori. Al Jazeera dif­fonde un comu­ni­cato del gruppo di Abu Musab al-Zarqawi che nega ogni respo­nsa­bi­lità nel rapi­mento. La Jihad isla­mica annun­cia che Giu­liana Sgrena non è con­si­de­rata una spia, quindi sarà liberata».

Il Mani­festo cominciò in quei giorni a lavorare per docu­men­tare il lavoro di Sgrena, che era pacifista e che fin dall’inizio aveva preso posizione contro la guerra in Iraq. L’allora diret­tore del Manifesto, Gabriele Polo, registrò un appello per la libe­razione. Il 10 feb­braio i rapi­tori dif­fusero un comu­ni­cato dando un nuovo ultimatum al governo ita­liano: 48 ore di tempo per annun­ciare il ritiro dall’Iraq. Il 15 febbraio anche Franco Sgrena, il padre di Giu­liana, diffuse un appello per chie­dere noti­zie della figlia. Il giorno dopo la televisione al Arabiya tra­smise un video che mostrava Giuliana Sgrena rivolgersi in italiano e in francese al suo com­pa­gno e agli ita­liani: «Aiu­ta­temi, aiu­ta­temi, la mia vita dipende da voi, fate pres­sione sul governo italiano per­ché ritiri le truppe».

Il 23 feb­braio l’allora Pre­si­dente della Repub­blica Carlo Aze­glio Ciampi chiese la liberazione di Giuliana Sgrena. Il 4 marzo al Jazeera annun­ciò la sua libe­ra­zione.

Ancora il Manifesto:

«Men­tre la stampa rac­co­glie i com­menti di fami­gliari, sin­da­cati e uomini poli­tici, men­tre in reda­zione si sta già proce­dendo a un brin­disi e si aspetta il ritorno di Giu­liana, arriva però un’ultima doc­cia fredda: una tele­fo­nata al diret­tore Polo annun­cia la morte di Nicola Cali­pari, il fun­zio­na­rio del Sismi che ha fatto scudo col suo corpo per pro­teg­gere la gior­na­li­sta liberata. Anche Giu­liana è rima­sta ferita sull’auto presa di mira a un posto di blocco da sol­dati Usa, insieme a un altro media­tore (illeso un terzo)».

Il 4 marzo del 2005
Nicola Calipari era nato a Reggio Calabria il 23 giugno del 1953. Dopo essersi laureato in Giurisprudenza, nel 1979, si arruolò in polizia e lavorò come funzionario per oltre vent’anni, fino all’entrata nel 2002 nel SISMI. Nel SISMI si occupò direttamente di diverse trattative di ostaggi italiani in Iraq, compresa quella di Giuliana Sgrena. Il 4 marzo del 2005 Sgrena venne a sapere dai suoi rapitori che sarebbe stata liberata in giornata. Due giorni dopo la liberazione scrisse un articolo per il Manifesto ricostruendo quelle ultime ore in Iraq:

«Mi sono cambiata d’abito. Loro sono tornati: “Ti accompagniamo noi, e non dare segnali della tua presenza insieme a noi sennò gli americani possono intervenire”. Era la conferma che non avrei voluto sentire. Era il momento più felice e insieme il più pericoloso. Se incontravano qualcuno, vale a dire i soldati americani, ci sarebbe stato uno scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e avrebbero risposto. Dovevo avere gli occhi coperti.

«La macchina camminava sicura in una zona di pantani. (…) Un elicottero sorvolava a bassa quota proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. (…) Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilità e cecità. (…) Ho appena accennato mentalmente a una conta che mi è arrivata subito una voce amica alle orecchie: “Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo, stai tranquilla, sei libera”. Mi ha fatto togliere la benda di cotone e gli occhiali neri. Ho provato sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per le parole di questo ‘Nicola’. Parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute».

Giuliana Sgrena e Nicola Calipari salirono sulla macchina che li avrebbe dovuti portare verso l’aeroporto, controllato dalle truppe americane. A circa 700 metri dall’arrivo, lungo una strada dove si trovava un posto di blocco statunitense, una raffica di mitragliatrice colpì l’auto. Nicola Calipari, secondo il racconto di Sgrena, si buttò su di lei per proteggerla. Fu colpito alla testa e morì sul colpo. A sparare, si scoprì più tardi, era stato Mario Lozano, addetto alla mitragliatrice al posto di blocco.

Le ricostruzioni e le inchieste
Giuliana Sgrena ha sostenuto di aver visto una luce dopo una curva, che l’auto aveva rallentato e che subito erano partiti gli spari. La giornalista ha sempre detto che non si trattava di un posto di blocco e che la pattuglia dei soldati americani non aveva fatto alcun segnale per far fermare l’auto. Sgrena ha inoltre scritto nel suo resoconto che i suoi sequestratori, poco prima della liberazione, le avevano detto che gli americani non volevano che tornasse viva a casa. Secondo la versione del governo statunitense, diffusa qualche mese dopo l’accaduto, l’auto viaggiava invece a una velocità elevata e i militari del checkpoint avevano seguito una regolare procedura invitando chi guidava a fermarsi: peraltro nessuno, scrissero, era a conoscenza dell’operazione condotta dal SISMI né dell’identità delle persone a bordo di quell’auto. Il rapporto americano concludeva dicendo che quello che era successo era stato «un tragico incidente». Il rapporto era stato inizialmente pubblicato online con nomi e informazioni sensibili oscurate. Il blogger Gianluca Neri su Macchianera aveva però scoperto che gli omissis potevano essere tecnicamente aggirabili e aveva pubblicato il rapporto completo.

La vicenda da qui in poi si è fatta molto complicata, tra ipotesi di riscatto, teorie del complotto, retroscena, scontri diplomatici, video, polemiche e documenti riservati pubblicati da Wikileaks. Negli Stati Uniti fu istituita una commissione d’inchiesta a cui vennero ammessi, ma solo come osservatori, anche degli italiani. La magistratura in Italia dovette far fronte a diverse difficoltà nelle indagini: la zona dove si erano svolti i fatti era infatti sottoposta al controllo statunitense e gli Stati Uniti negarono per esempio il permesso di far analizzare ai tecnici della polizia scientifica italiana il veicolo su cui viaggiavano Sgrena e Calipari. L’Italia dovette così basarsi esclusivamente sui rilievi compiuti dalle autorità statunitensi.

Tre storie sulla morte di Calipari
Nel maggio 2007 il Tg5 mandò in onda un video di circa 30 secondi girato dallo stesso Mario Lozano poco dopo l’uccisione di Calipari. Nel video si vede la Toyota Corolla sulla quale viaggiavano Calipari e Sgrena con le luci accese (gli americani avevano detto che la macchina viaggiava a fari spenti) e si sente una conversazioni tra militari americani, tra cui la frase: «Abbiamo un caduto in azione». Inoltre, il video mostra che la distanza dell’auto dal posto di blocco era di circa 50 metri, particolare che sembrava smentire ancora una volta la ricostruzione contenuta nel rapporto statunitense. Se l’auto viaggiava a una velocità di 100 chilometri orari, al momento degli spari – considerati i tempi di frenata – il mezzo avrebbe dovuto trovarsi ben oltre i 150 metri di distanza. I soldati americani hanno invece sempre sostenuto di aver sparato perché l’auto era molto vicina.

Nel 2010 Wikileaks diffuse un cablogramma del 3 maggio 2005 firmato dall’allora ambasciatore statunitense a Roma, Mel Sembler, che raccontava l’incontro tra Sembler e le autorità italiane prima che venisse diffuso ufficialmente il rapporto italiano sulla morte di Calipari. Secondo quanto scrive Sembler, il governo italiano voleva “lasciarsi alle spalle” l’incidente, promettendo agli Stati Uniti che non sarebbe cambiato nulla sia nei loro rapporti diplomatici, sia nell’impegno italiano in Iraq. Nel rapporto preparato dalle autorità italiane sull’accaduto si arrivava a concludere la mancanza di responsabilità individuali e soprattutto si stabiliva che non c’erano prove sufficienti per pensare a un omicidio intenzionale. Quest’ultimo punto, continuava Sembler, era pensato appositamente per “scoraggiare ulteriori indagini dei magistrati, dato che, a quanto pare, sotto la legge italiana possono indagare casi di omicidio intenzionale contro cittadini italiani fuori dall’Italia, ma non casi di omicidio non intenzionale”.

Un’altra storia molto poco chiara e successiva alla morte di Calipari è quella di Gianluca Preite, ingegnere informatico che ha raccontato che la sera del 4 marzo intercettò per conto del SISMI una comunicazione satellitare nella quale si dava l’ordine di sparare contro l’auto su cui c’erano Calipari e Sgrena: la telefonata citata da Preite, comunque, non fu mai ritrovata e Preite fu accusato di accesso abusivo ad un sistema informatico e altri reati connessi.

Come è finita
Nel giugno 2006 la procura di Roma formalizzò la richiesta di rinvio a giudizio per Mario Lozano, con l’accusa di avere commesso un “delitto politico che lede le istituzioni dello stato italiano”. La procura di Roma presentò anche richiesta per una rogatoria internazionale, respinta dagli Stati Uniti. Nell’ottobre del 2007 la Terza Corte d’Assise di Roma decise di assolvere Lozano, a causa di un difetto di giurisdizione (la giurisdizione penale delle forze multinazionali in Iraq era dei paesi d’invio, si disse). Nel giugno 2008 la Corte di Cassazione ha riconosciuto la cosiddetta “immunità funzionale” a Lozano e ha quindi stabilito che il soldato americano non poteva essere processato in Italia.