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  • Giovedì 23 ottobre 2014

Le facce di chi è guarito da ebola

Il fotografo premio Pulitzer John Moore è tornato in Liberia per raccontare le storie di chi è sopravvissuto alla malattia

Sontay Massaley, 37 anni, dopo essere uscita da un centro di Medici senza frontiere a Paynesville, Liberia, 12 ottobre 2014. Lavora in un mercato, ha impiegato otto giorni a guarire. 
(John Moore/Getty Images)
Sontay Massaley, 37 anni, dopo essere uscita da un centro di Medici senza frontiere a Paynesville, Liberia, 12 ottobre 2014. Lavora in un mercato, ha impiegato otto giorni a guarire. (John Moore/Getty Images)

John Moore – fotografo di Getty Images, vincitore di un premio Pulitzer – è tornato in Liberia a raccontare la vita di tutti i giorni nel paese con il più alto numero di persone contagiate da ebola. Si tratta del suo secondo viaggio dopo quello di agosto, quando aveva documentato la quarantena imposta dal governo per limitare il contagio, le preghiere in riva all’oceano Atlantico per allontanare la malattia, e come si viveva negli ospedali, nei bar, al mercato e in giro per le strade della capitale Monrovia.

Ad agosto i casi di ebola in Liberia sono stati 972, più di ogni altro paese coinvolto; quando Moore è tornato per la seconda volta, a metà ottobre, i morti per ebola erano più di 2.400 e i casi riportati oltre 4.000, sempre più di qualsiasi paese al mondo. Moore ha raccontato che è cambiata la sua consapevolezza di un possibile contagio: nel primo viaggio si limitava a non toccare le persone mentre «questa volta stavo più attento a non toccare nulla. Solitamente l’unica cosa in contatto con l’esterno di me o dei miei vestiti erano le suole delle scarpe», ha raccontato in un’intervista telefonica al National Geographic. Moore ha spiegato anche che «tenevo in macchina uno spray pieno di acqua clorata, che il mio autista spruzzava sui miei stivali di gomma ogni volta che tornavo in macchina», e ha aggiunto che fare il reporter in quelle condizioni è stato piuttosto difficile: spesso per scattare una buona fotografia spesso bisogna salire su dei gradini, piegare un ginocchio o stendersi a terra, ma così si rischia di venire in contatto con superfici infette.

Nel suo nuovo reportage, Moore mostra le facce e racconta le storie delle persone che sono guarite da ebola, fotografate davanti ai centri di Medici Senza Frontiere dove sono state curate, nella capitale Monrovia e nella sua periferia a Paynesville. C’è Abrahim Quota, che ha cinque anni ed è stato ricoverato in ospedale insieme ai genitori, entrambi morti; c’è un uomo guarito con in braccio la figlia malata; adulti e ragazzini che hanno perso il lavoro – chi guarisce viene spesso isolato dalla comunità, terrorizzata da un possibile contagio – ma che sono stati assunti come infermieri e assistenti per curare e confortare i malati. E c’è anche la storia a buon fine di Bendu e Anthony Naileh: lei, infermiera, era stata contagiata da un nipote, lui si era ammalato mentre si prendeva cura di lei. Alla fine sono guariti entrambi e nella fotografia sorridono più felici di tutti.

John Moore è ritornato negli Stati Uniti la scorsa settimana: al momento si trova nella sua casa in Connecticut dove sta rispettando i 21 giorni di isolamento volontario raccomandati dallo stato per chi ha visitato un paese a rischio. «Sono quasi del tutto certo di stare bene, sono stato prudente».