Un’altra Las Vegas, è possibile?

La storia di un imprenditore visionario che ha comprato un pezzo di città per farne un'enorme startup, e di quello che è andato storto

di Francesco Costa – @francescocosta

A dieci minuti di auto da quella che tutti riconosciamo come Las Vegas – cioè la Strip: casinò, negozi, luci, spogliarelliste e architettura tamarra oltre ogni immaginazione – è in corso dal 2011 uno dei più interessanti e discussi esperimenti urbanistici, economici e tecnologici negli Stati Uniti. Downtown Las Vegas è il posto che chiameremmo “centro storico”, se Las Vegas non fosse stata fondata in mezzo a un deserto appena agli inizi del Novecento: ma è comunque il posto dove si sono insediati i primi abitanti della città, dove sono stati costruiti i primi edifici e dove sono stati aperti i primi casinò. Da decenni, questo “centro storico” è un posto triste e dimenticato: stradoni semi vuoti, una casa più brutta dell’altra, edifici abbandonati, scuole fatiscenti, poca gente e qualche casinò di terza categoria. La crisi immobiliare degli ultimi anni ha ulteriormente aggravato la situazione. Poi è arrivato Tony Hsieh, con un mucchio di soldi.

Hsieh – si legge shay – è un imprenditore californiano di gran successo. A un certo punto della sua vita ha deciso di mettere in piedi un progetto visionario per trasformare Downtown Las Vegas nel quartiere ideale in cui una persona ambiziosa, appassionata e creativa potesse aprire un’impresa – tecnologica ma non solo. Dopo un paio d’anni di investimenti importanti e risultati promettenti, il suo “Downtown Project” sta attraversando un momento di difficoltà: diverse nuove società hanno chiuso, la stampa ha avanzato dubbi sul modo in cui sono stati spesi i soldi, trenta persone sono state licenziate e sempre più spesso l’intero progetto viene definito come una specie di setta. E ci sono stati tre suicidi.

È una gran storia, che occupa da molto tempo la stampa locale e negli ultimi giorni è arrivata su quella nazionale e internazionale: alla fine di settembre Hsieh ha fatto capire di volersi fare da parte e tornare a dedicare la maggior parte del suo tempo a Zappos, la società di cui è CEO e che finisce regolarmente nella classifica dei posti migliori al mondo in cui lavorare. Capire come funziona Zappos è il modo migliore per cominciare a capire che cos’è il Downtown Project.

Zappos
Quelli di Zappos vendono scarpe online; da qualche anno anche vestiti e accessori, ma il business principale rimangono le scarpe. Tony Hsieh, che ha 40 anni e lineamenti orientali, ha investito in Zappos nel 1999 – aveva appena fatto un sacco di soldi vendendo a Microsoft un sito di scambio link e banner che aveva aperto dopo aver finito il college – ed è diventato CEO della società due mesi dopo. Le vendite sono cresciute a un ritmo impressionante – 8,6 milioni di dollari nel 2001, 70 milioni nel 2003, 840 milioni nel 2007, un miliardo nel 2008 – finché nel 2009 Amazon non ha comprato la società per 1,2 miliardi di dollari. Quelli di Amazon hanno deciso di lasciare totale autonomia a Zappos, confermando Hsieh come CEO, in virtù dei risultati ottenuti senza spendere grandi cifre in pubblicità.

Com’è stato possibile: invece che investire nel settore marketing, Zappos ha speso una montagna di soldi nel servizio clienti. Ottenere rimborsi o cambi della merce acquistata su Zappos è semplicissimo. Gli operatori del suo call center non sono esternalizzati a qualche agenzia in Bangladesh o in India ma si trovano nella sede della società; sono tantissimi e hanno istruzioni opposte rispetto a quelle degli operatori di qualsiasi altro call center. Non considerano importante evadere il maggior numero di telefonate nel minor tempo possibile: una telefonata con un cliente può durare anche ore, a parlare del più e del meno (e succede). Non hanno script da seguire e formule da ripetere sempre uguali: parlano come persone normali. Se sentono bambini in sottofondo, attaccano bottone parlando dei figli; se il cliente ha un accento riconoscibile, chiedono com’è il tempo da quelle parti. Non vendono niente al telefono: non propongono affari, offerte, sconti, promozioni. Se vogliono, quando vogliono, possono regalare ai clienti biscotti, fiori o altri piccoli gadget. Tutti gli impiegati sembrano essere molto motivati: l’azienda offre 2.000 dollari a ogni neo-assunto che decide di andare via nei primi mesi di lavoro. Se sei un cliente e chiami il call center di Zappos, non ci sono musichette di attesa: un operatore risponde in meno di 20 secondi.

Zappos aveva sede a Henderson – estrema periferia di Las Vegas, a sud-est della Strip – ma oggi è a Downtown, nel grande edificio di cemento che fino a qualche anno fa ospitava il municipio della città. Quando ci sono andato, la prima cosa che ho visto è stata un ragazzo con i capelli rosa vestito da tartaruga ninja. Sembra una festa o un’accoglienza speciale, ma non lo è: è il modo in cui funzionano le cose a Zappos.

Zappos

Non c’è niente nella sede di Zappos che somigli alla normale sede di un’azienda. I ragazzi in costume e i giochi da villaggio turistico ci sono tutti i giorni, per intrattenere i dipendenti. Tutti i visitatori, anche i giornalisti, vengono accolti dai “responsabili della cultura aziendale” che si fanno chiamare per nomignoli. Quando uno di questi si presenta, gli altri accompagnano il gesto con un jingle – dan-dan-dan-daan! – o con urletti e slogan. Chi indossa una cravatta viene invitato con gentile fermezza a toglierla. Tra gli impiegati esistono responsabili e supervisori di questo e quello, ma non ci sono titoli. Non ci sono uffici, non ci sono porte, solo open space: la scrivania di Tony Hsieh è identica a quella di tutti gli altri. In generale sembra che sia appena finita una grande festa.

Dentro Zappos si usano parole che fuori non significano niente. Il ping pong si chiama zing zong. I zollars sono una specie di valuta interna con cui qualsiasi impiegato può premiare un suo collega che sia stato particolarmente bravo e generoso: e c’è un negozio dentro la sede che accetta solo zollars. Un foglio appeso su un muro consiglia quali parole utilizzare e quali evitare: non dire problema ma sfida, non dire impossibile bensì impegnativo, non dire in anticipo bensì puntuale.

Non dire fanatico, bensì entusiasta.

Quelli di Zappos possono sembrare fanatici. Sono allegri di un’allegria perennemente sopra le righe, priva di autoironia, che ti fa sorridere e contemporaneamente ti mette a disagio. Quando sono arrivato al piano delle risorse umane, qualcuno tra gli impiegati ha fatto partire una canzone e tutti hanno fatto per pochi secondi una specie di balletto. Ogni settore dell’azienda ha uno di questi “numeri” pronto per quando ci sono visitatori. La sede ha un solo ingresso, quello principale: Hsieh ha fatto chiudere gli altri da subito perché vuole che tutti i dipendenti – Zappos ne ha 1.200 – possano incrociarsi casualmente entrando e uscendo dall’ufficio e generare collisioni. Le collisioni sono la cosa che più sta a cuore a Tony Hsieh e sono il motivo per cui è nato il Downtown Project.

Downtown Project
«È come TED con dentro il SXSW con dentro Burning Man – però inteso come stile di vita, non come evento». Tony Hsieh ha descritto così la nuova Downtown Las Vegas a Nellie Bowles, che ha scritto su Re/code una serie di lunghi articoli sul progetto.

L’idea di reinventare un pezzo della città è nata quando i dipendenti di Zappos hanno cominciato a essere troppi per la sede di Henderson. Hsieh non voleva allontanarsi troppo da Las Vegas – sostiene che la forza lavoro della città sia perfetta per un’azienda basata sul servizio clienti di qualità – e aveva scoperto che il comune intendeva abbandonare il grande edificio di Downtown che aveva usato fin lì come municipio. Così Zappos ha preso in affitto l’edificio per 15 anni e si è trasferita. C’era un problema, però: Downtown è un posto morto.

Come ha scritto in un libro che ha venduto moltissimo, intitolato immodestamente Delivering Happiness, Hsieh crede che la gran parte di quello che di buono succede alla vita di una persona o di un’impresa dipende da incontri casuali che lui chiama collisioni. Incontrare persone per caso, fare due chiacchiere, bere qualcosa, raccontarsi su cosa si sta lavorando, aggiornarsi sulle proprie vite – tutte le cose che noi catalogheremmo come parte del tempo libero – secondo Hsieh non sono solo utili e produttive: sono la cosa più utile e più produttiva che ci sia. La cosa che genera davvero progresso e innovazione (Hsieh cita anche degli studi su come le idee migliori in ogni settore nascano grazie a contributi di altri settori, e arriva a sconsigliare di prendere appuntamenti con qualcuno aspettando di incontrarlo quando capita). Perché Zappos restasse Zappos anche in un posto come Downtown, allora, bisognava trasformare Downtown in un posto vivo, più ricco dal punto di vista culturale e da quello economico. In ultima istanza, creare da zero un nuovo modello di città. E dato che nel giro di pochi decenni il 75 per cento della popolazione mondiale vivrà in una città, spiega Hsieh, «se aggiusti le città hai aggiustato il mondo».

Tony Hsieh ha deciso così nel 2012 di fondare il Downtown Project e investire di tasca sua 350 milioni di dollari. Di questi, 200 milioni sono stati spesi per l’acquisto di immobili: case, terreni, appartamenti, palazzi, alberghi, motel, casinò, bar, ristoranti, un teatro. Tutti comprati a prezzi stracciati, per via della crisi e per via del fatto che gli edifici di Downtown Las Vegas non interessano a nessuno. Salvo poche eccezioni, le proprietà immobiliari sono attaccate l’una con l’altra: Hsieh vuole che sia possibile camminare per la nuova Downtown senza imbattersi nella vecchia. Tutte insieme hanno più o meno la forma di un lama, perché Tony Hsieh è fissato con i lama.

dtp-land

Rimangono 150 milioni di dollari. Un terzo è stato speso per organizzare festival, concerti, una maratona annuale e attività culturali di vario genere, per portare persone nuove a Downtown e ravvivare la zona.

Un altro terzo è stato prestato a decine e decine di piccoli imprenditori, a certe condizioni: gli imprenditori stessi devono lavorare in azienda e trasferirsi a Downtown; devono essere gli unici o i primi o i migliori a fare qualcosa; devono avere una bella storia. Ottengono i soldi in prestito e uno stipendio, possono fare quello che vogliono con la loro attività, possono restituire i soldi quando vogliono, le loro imprese per metà sono di Hsieh. Sono nati così tantissimi bar, ristoranti, locali, negozi: alcuni hanno chiuso dopo pochi mesi, altri vanno bene e hanno già ripagato il prestito.

Un ultimo terzo è stato prestato ad aspiranti imprenditori del settore tecnologico interessati ad aprire una startup. L’accordo è simile: Hsieh ti presta dei soldi senza fare troppe domande, tu puoi farci praticamente quello che vuoi, puoi restituirli quando vuoi e ricevi pure uno stipendio mensile. Se e quando la tua startup farà dei profitti, Hsieh si prenderà il 50 per cento. Se non riesci a restituire i soldi, pazienza. È un misto tra imprenditoria pura e franchising.

Se non sai cosa fare ma vuoi far parte del progetto, Hsieh ti fa delle proposte: vuoi aprire un negozio di cupcake? Un barbiere? Un negozio di abbigliamento vintage? Oppure una scuola? Se sei indeciso, Hsieh ti lascia tutto il tempo che vuoi per decidere: e intanto ti invita a Downtown e ti ospita gratis a tempo indeterminato in uno dei motel che ha fatto ristrutturare. Questo è l’Oasis, dove ho dormito, e non è nemmeno il più bello. Quelli del Downtown Project questi posti li chiamano crash pad.

oasis

Quando parla del Downtown Project, Tony Hsieh spiega che tutto gira attorno a tre concetti: Collisions, Connectedness e Co-learning. Sono sfumature diverse di una parola sola – comunità – ma non sono soltanto principi ideali. Dato che secondo Hsieh la socializzazione e la serendipità – le collisioni – rendono le persone più innovative e produttive, nelle decisioni amministrative e strategiche su ogni singola impresa il Downtown Project non tiene conto soltanto del ROI, cioè della redditività economica, ma anche del ROCH, return on collisionable hours. Quante collisioni produrrà aprire un ristorante in quella strada? Quante collisioni produrranno questo imprenditore e il suo staff se verranno a lavorare a Downtown? E saranno collisioni di tipo 1 (salutarsi da lontano), di tipo 2 (salutarsi da vicino) o di tipo 3 (passare del tempo insieme)? Passeranno abbastanza tempo in giro a non fare niente se non bere e chiacchierare, o pensano di stare 14 ore al giorno davanti al loro computer? A Downtown Las Vegas è importante stare in giro, farsi vedere, essere allegri.

Oggi ci sono circa 140 progetti in corso a Downtown Las Vegas, tra startup tecnologiche e imprese tradizionali, con circa 900 persone impiegate. C’è un mercato con cibo, frutta e verdure fresche, aperto da pochissimo. C’è OrderWithMe, una società che permette alle imprese di fare ordini collettivi ai fornitori così da abbassare i prezzi. C’è una clinica moderna, la Turntable Healthcare, alla quale ci si “abbona” pagando una tariffa flat che permette di usufruire di molti servizi. C’è Stitch Factory, studio di co-working per stilisti. C’è Shift, una società di car-sharing. C’è il Gold Spike, un ex casinò trasformato in bar aperto 24 ore su 24, con un bellissimo giardino e porte protette da combinazioni numeriche (così, per il gusto della sorpresa: le combinazioni circolano tra gli abitanti del quartiere e quelli del bar ogni tanto le resettano, per far ricominciare il divertimento). C’è un asilo nido costruito dentro una vecchia chiesa che organizza attività per sviluppare le qualità “imprenditoriali” dei bambini: curiosità, intraprendenza, creatività, coraggio. Lo gestisce Connie Yeh, che è cugina di Hsieh e prima faceva l’agente di borsa a Citibank. C’è Tealet, una piattaforma che mette in contatto produttori di tè e potenziali acquirenti. C’era Romotive, una società di robotica i cui affari sono decollati e che si è trasferita a San Francisco.

Poi c’è Container Park, che è il simbolo del Downtown Project: un affascinante parco pubblico – sebbene con poco verde: siamo nel deserto – che nei weekend si riempie di famiglie e bambini, circondato da container rossi e gialli sovrapposti, ognuno con dentro un negozio. All’ingresso c’è una gigantesca mantide di ferro che la sera spara fuoco dalle antenne: Hsieh l’ha portata via alla fine di un Burning Man. Tutto quello che c’è al Downtown Project è stato fatto senza soldi pubblici: «Se riusciamo a farlo a Las Vegas senza metterci d’accordo con i politici», dice Hsieh, «vuol dire che si può fare ovunque». I residenti sono tutto sommato contenti, anche se i prezzi degli affitti sono saliti. Il sindaco non si mette in mezzo e sta facendo risistemare i marciapiedi e predisporre un po’ di piste ciclabili, anche se dice di non capire tutta questa enfasi sulla felicità.

I tre suicidi, e quelli che parlano di “setta”
A gennaio del 2013 a Downtown Las Vegas si è ucciso Jody Sherman, 48 anni, fondatore della startup Ecomom. Un anno dopo si è ucciso Ovik Banerjee, 24 anni, uno dello staff del Downtown Project. Lo scorso maggio si è ucciso Matt Berman, 50 anni, fondatore di Bolt Barber, il negozio più famoso di Container Park. Nessuno al Downtown Project ha voglia di parlare dei suicidi e in passato c’è stato molto fastidio verso chi ha cercato una correlazione col progetto di Tony Hsieh. L’inchiesta di Re/code, che è stata molto letta e commentata da queste parti, a un certo punto sostiene che «molte persone, compreso uno psicologo che ha aiutato i genitori di uno degli imprenditori suicidi, hanno indicato la filosofia di Hsieh – la sua ossessione con la felicità e il suo imporre la felicità alla comunità – come uno dei problemi». Va detto però che il tasso di suicidi a Las Vegas è storicamente il 50 per cento più alto rispetto a quello delle altre grandi città americane, e gli imprenditori sono una delle categorie considerate più a rischio: portano su di sé responsabilità enormi, riguardo se stessi e riguardo gli altri, e la sola prospettiva di un fallimento per alcuni può essere troppo.

In ogni caso, è certo che i tre suicidi hanno portato l’attenzione dei media locali sul modo in cui si vive nel Downtown Project. Sempre Re/code ha intervistato Kimberly Knoll, una terapista che ha tra i suoi pazienti alcuni imprenditori di Downtown. «Le startup sono molto stressanti, e possono innescare stati d’animo dormienti che sono già presenti in una persona. La differenza qui è questa attenzione alla felicità. Se pensiamo che la soluzione sia eliminare le emozioni negative dalla nostra vita, non saremo mai felici: ci vergogneremo e basta». Domanda di Re/code: da dove viene questa enfasi sulla felicità nel Downtown Project? «Viene dall’alto. Viene da Tony, viene da Zappos. Il suo libro si intitola Delivering Happiness». Il Downtown Project ha contestato con durezza l’articolo di Re/code e da qualche giorno linka in evidenza sulla sua homepage una specie di risposta/debunking, non proprio efficacissima. Gli articoli di Re/code raccontano anche lo scetticismo di altri imprenditori della zona, tra cui uno che definisce apertamente «una setta» il Downtown Project. La Las Vegas Review pochi giorni fa titolava: “Hsieh cult suddenly forced to face reality” (“La setta di Hsieh ha dovuto improvvisamente guardare in faccia la realtà“).

Non so dire con certezza se il Downtown Project è una setta o no: dovessi essere costretto a rispondere, direi di no. Ma ci sono cose e storie quantomeno strambe o eccessive, oltre a quelle che riguardano Zappos. Il giro di Downtown Project per i visitatori inizia dall’appartamento di Tony Hsieh: i turisti entrano proprio dentro casa sua, passano in cucina, in camera da letto, come una specie di pellegrinaggio. Quando Hsieh ha compiuto 40 anni i suoi amici e colleghi – molti dei quali coinvolti a vario titolo del Downtown Project, tra qualche polemica – si sono fatti dei tatuaggi identici. Ho assistito al suo discorso durante la Tech Cocktail Week di Las Vegas e tra il pubblico c’erano persone esaltate al punto da urlare e applaudire da soli in mezzo alla sala. Nella mia stanza all’Oasis il classico cartoncino “Do not disturb” aveva scritto sopra: “I tried Fernet. Whoever said it was good for you lied. Do not come in for your own safety“. Simpatici, ok, ma che c’entra il Fernet Branca? Tony Hsieh va matto per il Fernet Branca, ho scoperto poi. A Downtown il Fernet è ovunque: come i lama. Tutto il Downtown Project – come Zappos – funziona con un metodo brevettato chiamato Holacracy, una complicata tecnica di organizzazione aziendale che abolisce le gerarchie tradizionali e prevede un gergo piuttosto oscuro per chi non lo conosce (anche per chi lo conosce). In giro a Downtown – ironicamente o no – si usa molto il modo dire “to drink the Kool-Aid”, per parlare di Hsieh e dei suoi: un riferimento alla setta di Jim Jones e al più grande suicidio collettivo della storia moderna.

Come vanno le cose adesso
Alla fine di settembre il Downtown Project ha licenziato il 30 per cento dei suoi dipendenti – erano 100, ora sono 70 – e Tony Hsieh ha annunciato una specie di passo indietro: pur non avendo alcun incarico formale da cui dimettersi, ha detto che rimarrà consigliere e investitore ma affiderà a qualcun altro la pianificazione strategica. Il professore universitario David Gould, che aveva conosciuto Hsieh per caso in Iowa e ne era stato affascinato al punto da mollare tutto per lavorare al Downtown Project, ha scritto una dura lettera in cui sostiene che il progetto è minacciato da «decadenza, avidità e mancanza di leadership».

I giornali locali scrivono che i soldi stanno finendo e che non si vedono abbastanza imprese di successo da lasciar pensare che il Downtown Project possa durare a lungo. Ho chiesto un parere a Ryan Lawler, senior editor di TechCrunch, e mi ha risposto con pochi dubbi di considerare l’esperimento fallito: hanno fatto troppo in fretta, non hanno messo radici, una città non è una startup. Altri sulla stampa locale dicono che Hsieh ha assunto troppi parenti e compagni di bevute, e pochi che sapessero esattamente dove mettere le mani. Altri ancora fanno notare che il valore degli immobili comprati da Hsieh in questi anni è cresciuto, e quindi lui comunque non rischia di perdere niente.

Quelli del Downtown Project dicono che tutto procede secondo i piani: non dicono che i guai sono pochi o che sono risolvibili, dicono proprio che non ci sono i guai. Hsieh ha spiegato che dopo due anni di acquisti e investimenti su vasta scala, secondo i piani il 2014 doveva essere l’anno in cui concentrarsi sulle idee migliori e le imprese di maggior successo, per aumentare i loro introiti nel 2015 e raggiungere nel 2016 una sostenibilità economica, se non addirittura un profitto. A questo si devono i licenziamenti, dicono. Se lo augurano tutti, a Las Vegas, e non solo per ragioni progressiste e idealiste, bensì perché tornare indietro sarebbe ancora più doloroso: quando una città fallisce, non fallisce come una startup.