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  • Mercoledì 23 luglio 2014

Il lutto collettivo e noi

Uno scrittore olandese riflette sui meccanismi automatici di lutto collettivo - con riferimento ai morti del volo MH17 e all'Olanda - e i rischi che comporta

A woman mourns at Schiphol Airport, the Netherlands, on July 23, 2014. The Dutch government has declared a day of national mourning due to the crash of flight MH17 in Ukraine. At 04.00 PM, when the first 50 bodies of the 298 victims will arrive on Eindhoven Airport, the country will hold a minutes silence. AFP PHOTO/ANP ROBIN VAN LONKHUIJSEN netherlands out (Photo credit should read ROBIN VAN LONKHUIJSEN/AFP/Getty Images)
A woman mourns at Schiphol Airport, the Netherlands, on July 23, 2014. The Dutch government has declared a day of national mourning due to the crash of flight MH17 in Ukraine. At 04.00 PM, when the first 50 bodies of the 298 victims will arrive on Eindhoven Airport, the country will hold a minutes silence. AFP PHOTO/ANP ROBIN VAN LONKHUIJSEN netherlands out (Photo credit should read ROBIN VAN LONKHUIJSEN/AFP/Getty Images)

Il New York Times ha pubblicato martedì una riflessione del 43enne scrittore olandese Arnon Grunberg sull’elaborazione collettiva del lutto: e in particolare di come questa sia cambiata, nel corso di un decennio, nei Paesi Bassi, di cui erano cittadini 193 passeggeri sui 298 a bordo del volo MH17 abbattuto giovedì 17 luglio nell’est dell’Ucraina. Nonostante il discorso di Grunberg si dedichi anche a vicende proprie dei Paesi Bassi, molte delle sue riflessioni sono generali, e aggiungono qualcosa all’esteso dibattito riguardo a meccanismi e reazioni umane in casi del genere.

Sul dolore come sentimento collettivo e la sua forza “unificante”, Grunberg premette che durante la sua infanzia, negli anni Settanta e Ottanta, il nazionalismo era considerato nei Paesi Bassi «una cosa di cattivo gusto».

Ce ne sono alcune ragioni storiche, come il collaborazionismo di molti ufficiali olandesi coi nazisti nel corso dell’olocausto e le vicende del colonialismo olandese nelle odierne Indonesia, Suriname e Sudafrica. Ok, quando giocava la nazionale di calcio (specialmente contro la Germania), un po’ di nazionalismo da tifo era permesso; stessa cosa quando un ciclista olandese dominava il Tour de France, scattava cioè un certo orgoglio nazionale. A parte queste due cose, però, il nazionalismo veniva considerato come una cosa deprecabile.

Le cose cambiarono una decina di anni fa, secondo Grunberg anche a causa di due particolari eventi: l’uccisione, nel 2002, del politico di estrema destra Pim Fortuyn, e quella del regista Theo Van Gogh due anni dopo, nel 2004, e il rapporto degli olandesi nei confronti dell’immigrazione straniera. Fortuyn, un 54enne ex professore di sociologia, fu ucciso il 6 maggio 2002 pochi giorni prima delle elezioni politiche da un militante di sinistra: durante la campagna elettorale, a cui partecipò come candidato primo ministro supportato da un suo partito fondato pochi mesi prima, espresse posizioni nazionaliste e anti islamiche, insieme a quelle a favore dei diritti delle donne e degli omosessuali (era dichiaratamente gay). Il New York Times scrisse che l’omicidio «sconvolse il paese»: l’allora primo ministro laburista Willem Kok, molto critico in precedenza con Fortuyn, disse di sentirsi «devastato» e definì la morte di Fortuyn una tragedia «per la nostra nazione, per la nostra democrazia» (alle elezioni politiche tenute il 15 maggio 2002 il partito di Fortuyn prese il 17 per cento; alle elezioni anticipate dell’anno successivo, il 5,7. Il partito si sciolse nel 2008 a causa del successo di un nuovo partito di estrema destra: il Partij voor de Vrijheid di Geert Wilders).

Due anni dopo, il 2 novembre 2004, il regista Theo Van Gogh fu ucciso ad Amsterdam mentre andava in ufficio da Mohammed Bouyeri, un 26enne fondamentalista islamico dalla doppia nazionalità olandese e marocchina. Van Gogh aveva appena girato un film, 06/05, basato sull’omicidio di Pim Fortuyn (il titolo richiama la data della morte di Fortuyn, il 6 maggio): lo stesso film, come racconta il Guardian, conteneva molte critiche verso l’Islam (Bouyeri è stato condannato all’ergastolo nel 2005).

Secondo Grunberg, dopo questi due omicidi crebbe l’accusa verso gli immigrati – specialmente quelli musulmani – di mancanza di patriottismo: di non voler essere davvero olandesi, o persino – secondo Wilders – di voler istituire nei Paesi Bassi una specie di califfato. E il lutto nazionale esposto divenne anche un modo di sancire questa esigenza. Da allora, scrive Grunberg, «incoraggiate dai social network e dai media giornalistici, le emozioni vengono esibite in pubblico con sempre maggior frequenza. Le persone che non mostrano nulla, che rifiutano cioè di prendere parte a questo esibizionismo emotivo, vengono sospettate di avere qualche problema psicologico». Grunberg collega quindi questa tendenza alla reazione di molti nei confronti delle persone morte durante il volo MH17, toccando un tema che viene spesso segnalato rispetto al rapporto tra dolore, condivisione e vicinanza per la morte di sconosciuti.

Mi chiedo se sia davvero razionale, per gli olandesi, soffrire di più per la morte di 193 connazionali piuttosto che per quella dei quattro belgi e dei quattro tedeschi che si trovavano su quel volo. Per un olandese, cioè, la morte di 200 sconosciuti causa uno sconcerto maggiore di quella di 200 iracheni o afghani uccisi durante un bombardamento? Eppure, gli olandesi non sono stati uccisi in quanto olandesi: per quel che ne sappiamo, i filo-russi hanno commesso un gigantesco errore.

Proprio come il tifo calcistico per la Nazionale, quindi, il dolore collettivo sembra «uno strumento per promuovere l’identità collettiva, per fare finta che un regno olandese esista tuttora, per provare qualcosa tutti insieme, come una comunità». Il paradosso però, spiega Grunberg, è che il lutto

«coinvolge dei sentimenti estremamente personali, cosa che lo rende non condivisibile. Le persone hanno il diritto di non mostrare i propri sentimenti e di non condividerli, anche quando si tratta di una partita dei Mondiali o di una strage. Da questo, ne consegue che ciascuno ha il diritto di ammettere che a volte non proviamo nessun sentimento. Il mondo intero cerca invece di appropriarsi delle nostre emozioni, dalla ragazza della porta accanto al parente stretto, passando per il mendicante di strada. A seguito delle notizie da Gaza e dall’Ucraina, dal Congo e dalla Siria, i nostri sentimenti vengono costantemente strattonati».

Il fatto che alcune persone dimostrino una quota di indifferenza, secondo Grunberg, è un segnale di umanità, piuttosto che di disumanità. «Se permettessimo a tutta la sofferenza del mondo in possederci, diventeremmo presto dei casi psichiatrici, cullati da farmaci psicotropi verso uno stato di apatico distacco» (è un concetto simile a quello espresso da molti, e di recente in maniera molto elaborata dallo scrittore Francesco Piccolo nel libro “Il desiderio di essere come tutti”).

«Il lutto collettivo contiene quindi una via d’uscita dalla solitudine: ma un “noi” esige spesso un “loro”, che può velocemente trasformarsi in un nemico da annientare. Il lutto collettivo, quindi, non è immune dallo sfociare nel nazionalismo. Ma quelli che invocano l’obbligo di un cordoglio pubblico rifiutano di comprendere che a volte la gente non è in grado di farlo. Io, personalmente, riconosco la tragedia, riconosco il tuo lutto, ma non riesco ad unirmi a te, non oggi; non è giornata. E reciprocamente, quando sarà il mio turno di compiangere qualcuno, non ti obbligherò a farlo accanto a me».

Il governo olandese ha istituito per mercoledì 23 luglio una giornata di lutto nazionale per ricordare le persone morte durante il volo MH17.

foto: una donna all’aeroporto di Schiphol, vicino Amsterdam, durante la giornata di lutto nazionale istituita dal governo, 23 luglio 2014 (ROBIN VAN LONKHUIJSEN/AFP/Getty Images)