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  • Domenica 15 giugno 2014

È l’ultimo Mondiale democratico?

Eventi così costosi sono sempre più rischiosi e contestati: il Washington Post si chiede se non possano permetterseli davvero solo gli stati autoritari (qualche indizio c'è)

di Anne Applebaum - Washington Post

Brazil fans cheer their team during the Group A match between Brazil and Croatia on June 12, 2014 in Porto Seguro, Brazil.
Brazil fans cheer their team during the Group A match between Brazil and Croatia on June 12, 2014 in Porto Seguro, Brazil.

Come un rituale radicato nel tempo, le fasi di avvicinamento a qualsiasi evento sportivo di importanza mondiale sono sempre le stesse. Qualche mese prima, gli stadi non sono pronti e gli alberghi non hanno l’acqua calda. Le autostrade sono circuiti sterrati e gli atleti non hanno dove dormire. I giornali locali prevedono varie calamità. La finale di beach volley sarà annullata perché manca la rete? La partita di qualificazione tra Paraguay e Costa d’Avorio non si giocherà perché gli arbitri non possono atterrare all’aeroporto, ancora in costruzione?

Ma poi non succede mai. In qualche modo, le Olimpiadi, o la Coppa del Mondo, o qualsiasi altro maestoso spettacolo che sia messo in discussione, alla fine vanno avanti sempre. I sudafricani o i russi o gli inglesi lavorano tutto il giorno e tutta la notte, investono soldi sulle infrastrutture e le portano a termine. Il palazzetto del basket è pronto; il trampolino dello sci è un trionfo.

Questa settimana lo stesso rituale si è celebrato ancora una volta. Meno di 48 ore prima della partita inaugurale del Mondiale 2014, la presidente brasiliana Dilma Rousseff ha dichiarato che i “pessimisti” sono stati sconfitti e che il suo paese era pronto ad accogliere il mondo. E che se il Brasile seguirà questo modello, il momento di crisi alla fine passerà. Il sollievo condurrà all’euforia, l’umore del paese salirà, le folle saranno armoniose e in accordo, la nazionale sarà acclamata. E poi tutto questo, a sua volta, sarà rimpiazzato dal rammarico.

L’esempio storico più recente è inequivocabile. Diversi stadi in Sudafrica – come molti di quelli in Corea del Sud e in Giappone, utilizzati per ospitare il Mondiale del 2002, o come quelli costruiti a Pechino in occasione delle Olimpiadi del 2008 – sono utilizzati pochissimo. Il calcestruzzo versato per le strutture delle Olimpiadi invernali a Sochi si sta già fratturando. La rinascita post-olimpica del nordest di Londra, così ampiamente strombazzata, deve ancora materializzarsi. Quasi dappertutto, le notevoli spese necessarie per ospitare queste grandi manifestazioni sportive internazionali superano di gran lunga i benefici.

Il poi in Brasile sarà diverso soltanto perché il rammarico è arrivato in anticipo. Da mesi manifestanti di vario genere protestano davanti agli stadi, travestono la mascotte del Mondiale da mafioso e dipingono murali di protesta per le strade, come quello che mostra un bambino affamato e in lacrime con un pallone sul piatto. Avendo visto, in altri paesi, i debiti crescere e i profitti diminuire dopo i Mondiali, gli elettori brasiliani sanno già benissimo che alcuni dei loro stadi diventeranno cattedrali nel deserto. Non hanno bisogno di attendere che i turisti tornino a casa per capire che i soldi investiti in tutte queste infrastrutture tirate su all’ultimo momento saranno soldi buttati.

In tutto il mondo altri governi hanno notato le reazioni in Brasile. Recentemente Germania, Svizzera, Svezia e Polonia, preoccupate per i costi, hanno ritirato le loro candidature per ospitare le Olimpiadi invernali del 2022. Monaco e Davos-Sankt Moritz hanno ritirato le loro dopo che erano state bocciate dagli elettori. È andata così anche per Cracovia, dove più del 70 per cento ha votato contro in un referendum, a dispetto del successo largamente percepito all’indomani dei campionati di calcio europei del 2012, che si sono svolti appunto in Polonia e in Ucraina.

Le uniche offerte per le Olimpiadi del 2022 rimarranno probabilmente Pechino (di nuovo) e Almaty (Kazakistan), che sono entrambi – non a caso – paesi autoritari in cui il parere degli elettori non è tenuto in considerazione, in cui ai manifestanti non sarà permesso protestare davanti agli stadi in costruzione, e in cui i leader colgono questo genere di opportunità per vantarsi agli occhi del mondo. Per le stesse ragioni, le sedi delle prossime due edizioni dei Mondiali di calcio non sono una coincidenza: la Russia nel 2018 e il Qatar nel 2022. Una corruzione su larga scala spiega in parte il successo della candidatura del Qatar – il Sunday Times se ne è occupato in una lunga inchiesta. Più in generale, il successo di Russia e Qatar è spiegato dalla fiducia nel fatto che non ci sarà alcuna opposizione degli elettori, e certamente non ci sarà alcun referendum. Peraltro in Qatar, a differenza che in Brasile, sanno che possono finanziare la costruzione dei progetti per il Mondiale avvalendosi praticamente del lavoro di schiavi: già più di 400 operai nepalesi sono morti nei cantieri aperti in vista dei lavori per il Mondiale.

Le democrazie non possono scherzare con questo tipo di abusi. Né leader con più larghi consensi vorrebbero avere a che fare con proteste di massa simili a quelle delle strade del Brasile, che hanno fatto precipitare gli indici di consenso della presidente Rousseff. I brasiliani devono ancora sopravvivere alle Olimpiadi estive del 2016, e Tokyo le ospiterà nel 2020 – ammesso che entrambe le edizioni non siano impedite dalle proteste o dalla rabbia degli elettori. In futuro, forse i governi democratici non potranno scherzare con l’investimento dei miliardi di euro richiesti attualmente per la costruzione delle infrastrutture necessarie per ospitare questi eventi. Per i prossimi otto anni il Mondiale in Brasile resterà il più recente svolto in un paese democratico. Sarà l’ultimo in assoluto, in un paese democratico?

Foto: Martin Rose/Getty Images

© Washington Post