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  • Sabato 31 maggio 2014

Tira una brutta aria per i cristiani in Cina

È stata pretestuosamente demolita una chiesa nella città conosciuta come "Gerusalemme cinese" e non è il primo atto ostile

Chinese worshippers pray during the Christmas Eve mass at a Catholic church in Beijing early on December 25, 2012. While China does not officially celebrate Christmas, its popularity continues to grow with non-Christians keen to see and feel the experience of Christmas. AFP PHOTO / WANG ZHAO (Photo credit should read WANG ZHAO/AFP/Getty Images)
Chinese worshippers pray during the Christmas Eve mass at a Catholic church in Beijing early on December 25, 2012. While China does not officially celebrate Christmas, its popularity continues to grow with non-Christians keen to see and feel the experience of Christmas. AFP PHOTO / WANG ZHAO (Photo credit should read WANG ZHAO/AFP/Getty Images)

Il 28 aprile scorso la comunità cristiana di Wenzhou, città della Cina sudorientale in cui vivono circa 3 milioni di persone, ha assistito alla distruzione della chiesa di Sanjiang, completata solo nel 2013 dopo 12 anni di lavori. Escavatrici e bulldozer hanno demolito tutto: secondo i funzionari locali la chiesa violava le regole stabilite nel piano urbanistico cittadino, mentre per la numerosa comunità cristiana locale si è trattato di un atto di persecuzione del governo contro i cristiani. Il 29 maggio la storia è stata ripresa e raccontata sul New York Times da Ian Johnson, un giornalista e scrittore esperto di Cina, secondo cui quello che è successo a Wenzhou fa parte di un più ampio tentativo del Partito Comunista Cinese di indebolire la forte comunità cristiana concentrata nell’area urbana attorno a Wenzhou, e percepita come una minaccia al potere del governo.

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Wenzhou è conosciuta anche come “Gerusalemme cinese” per la sua larga comunità cristiana (15 per cento della popolazione) e per i rapporti piuttosto distesi che fino a poco più di un mese fa sembravano esserci tra governo e leader religiosi locali. Quando ancora non era stata demolita, la chiesa di Sanjiang era «un punto di riferimento per tutta la periferia nord in rapido sviluppo, e la sua croce a 55 metri saliva in maniera imponente contro un promontorio roccioso». Il progetto per la sua costruzione era stato precedentemente approvato dal governo locale, che l’aveva anche definito un “progetto ingegneristico” da prendere come modello. Lo scorso mese, comunque, i funzionari locali ci hanno ripensato: il governo ha ordinato la demolizione della Chiesa, dopo avere verificato che il terreno su cui era stata costruita eccedeva di parecchio i metri quadrati accordati nel progetto originale.

Il New York Times ha avuto però modo di vedere il documento interno di nove pagine del governo cinese legato alla demolizione della chiesa di Sanjiang: e dal documento, scrive Johnson, emerge che l’obiettivo è regolare i “siti religiosi eccessivi” e le attività religiose “troppo popolari”, facendo però riferimento esplicitamente a una sola religione – il cristianesimo – e a un solo simbolo – la croce. Nel documento, dice il New York Times, si legge anche: «La priorità è rimuovere le croci dai siti religiosi su entrambi i lati di autostrade, strade nazionali e provinciali. Nel tempo e per zone, si devono abbattere le croci dai tetti e dalle facciate degli edifici». La vicenda è diventata ancora più importante perché nella decisione sulla demolizione è stato coinvolto anche uno stretto alleato del presidente cinese Xi Jinping, il segretario provinciale del partito, Xia Baolong.

Le tensioni tra governo cinese e comunità cristiana hanno rinfocolato anche i conflitti tra i cristiani e le altre religioni. Prima della demolizione, la comunità cristiana locale era stata accusata di danneggiare il feng shui, l’antica arte geomantica della Cina, e di “rubare” spazio per la costruzione di templi di altre religioni. Il problema, spiega Johnson sul New York Times, non riguarda solo Wenzhou. Da marzo di quest’anno i funzionari del PCC nella provincia di Zhejiang hanno ordinato la rimozione del simbolo della croce in almeno una decina di chiese, mentre altre hanno ricevuto ordini di demolizione.

Tra gli anni Sessanta e Settanta, durante il periodo chiamato “rivoluzione culturale”, la pratica della religione cristiana, e di tutte le altre religioni, era effettivamente vietata. Leader religioni, missionari e semplici praticanti venivano perseguitati, multati e a volte torturati ed uccisi. A partire dalla metà degli anni Novanta la posizione del Partito Comunista si è ammorbidita, le persecuzioni si sono attenuate così come gli attacchi e le demolizioni delle chiese (anche se le tensioni con il Vaticano non si sono mai del tutto estinte). Secondo alcuni esperti, in questi ultimi anni il Partito Comunista Cinese ha ricominciato a guardare con crescente diffidenza il cristianesimo e i valori occidentali che rappresenta: il cristianesimo in pratica viene percepito sempre di più come una minaccia alla tendenza centralizzatrice del potere del Partito Comunista. Il governo centrale di Pechino, scrive Johnson, ha cominciato allora a dare maggiore sostegno alle altre religioni, soprattutto quelle percepite come “indigene”. A marzo il presidente Xi aveva elogiato il buddismo per il contributo che ha dato alla Cina, mentre alla fine dello scorso anno, durante una visita alla casa di Confucio, aveva preso due volumi sul confucianesimo e – andando contro all’antagonismo che da sempre esprime il Partito Comunista – aveva fatto una specie di endorsement pubblico dicendo: «Ho bisogno di leggere questi libri molto attentamente».

Mayfair Yang – docente all’Università della California, Santa Barbara, ed esperto di conflitti di religione a Wenzhou – ha spiegato che tra i funzionari del governo cinese c’è una certa ansia che alcune religioni cristiane possano ricevere sostegno finanziario o essere influenzate dall’estero. Il protestantesimo è anche legato al dibattito nazionale sui “valori universali”: alcuni protestanti cinesi sostengono per esempio che libertà come quella di espressione sono date da Dio, e quindi non possono essere tolte dallo Stato. Molti di loro, scrive il New York Times, hanno finito per lavorare come avvocati in diversi casi importanti riguardanti la difesa dei diritti umani.