L’editore Laterza ha pubblicato Un paese ben coltivato. Viaggio nell’Italia che torna alla terra e, forse, a se stessa, di Giorgio Boatti, giornalista e scrittore, autore di diversi libri dedicati alla storia contemporanea italiana. Nel libro Boatti racconta il suo viaggio da sud a nord in ricognizione nel mondo contadino in Italia, viaggio condotto visitando i posti dove le persone più diverse con le storie e le motivazioni più diverse hanno ridato vita a cascine e masserie, rilanciando aziende e conservando un pezzo di storia economica e sociale italiana in nuovi modi.
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Stamattina presto la radio ha detto che le nevicate si stanno spostando. Già dalla notte hanno cominciato a scendere lungo la dorsale dell’Appennino. Si spingeranno – dicono le previsioni meteo – sempre più a sud, sino alla Calabria.
Sto preparando la sacca perché a mezzogiorno, da Linate, parto anch’io per la Calabria. Chissà chi arriva prima, se io o la neve.
Nel dubbio aggiungo una felpa in più al bagaglio e mi tengo ai piedi gli scarponcini messi per un ultimo giro fatto sul sentiero attorno alla cascina dove ho casa da pochi anni.
La cascina è grande. Ha una pianta quadrata, a settentrione ci sono le stalle, ormai vuote, e sopra stanno i portici, sorretti da nove imponenti archi. Li vedo dal mio tavolo di lavoro, dalla stanza proprio sopra il portone d’ingresso. È un bel colpo d’occhio: assomiglia alla navata di una chiesa gotica aperta sul cortile che, al centro, ha sette imponenti platani centenari. Ognuno di questi alberi se ne sta lì in piedi, da quasi tre secoli, a guardare quello che succede attorno. Un tempo, in cascina, abitavano più di cento persone. E ora? Non ho mai fatto il calcolo esatto ma lungo gli edifici a un piano che compongono l’intero perimetro si aprono una ventina di porte. A ogni porta un’abitazione, e dunque, a occhio e croce, una ventina di nuclei famigliari. Ma ora niente famiglie patriarcali, anzi. Adesso dietro quella porta c’è spesso una sola persona, un single o una single, perché, come qualcuno mi ha spiegato quando sono arrivato qui per abitarci, “in questa cascina, negli ultimi anni, si arriva pari e si rimane dispari”. Non si sbagliava: funziona proprio così.
Il fico sul platano
Ai platani tutto questo non pare importare molto. Stanno lì, raggruppati e austeri, ciascuno con un cartellino – pare un biglietto da visita – ben esibito ad altezza d’uomo: riporta il numero d’inventario, perché anche loro, come tutta la cascina, sono sotto tutela della Soprintendenza. Sono, pur non essendone consapevoli, beni monumentali.
Capisco che la numerazione semplifichi le cose (anche nei film sulle carceri, o nei lager, si numera alla grande) ma a me piacerebbe che, invece di chiamarsi platano 374 o platano 379, ognuno di questi giganti avesse un suo nome. Perché ciascun albero ha una propria connotazione, un carattere maturato nel corso del tempo.
C’è, ad esempio, quello tutto bitorzoluto e un po’ infido che nel tronco, appena gli giri attorno, nasconde una trappola. È una fenditura larga due spanne: lì, se ci finisce dentro una palla – lo dico per esperienza diretta – non la recuperi più. La riavrà chi, tra un anno o un secolo, lo vedrà schiantarsi per una tromba d’aria o un fulmine.
Invece il 378 ha un nome e gliel’ho dato io: è il Platafico perché tra la forcella dei grossi rami alla base della chioma sta crescendo una pianticella di fico. Come sarà successo? Semplice: un uccellino che passava da quelle parti ha espulso dei semi ed eccolo lì, il fico cresciuto sull’albero, su un pugno di terra che gli ha fatto da culla tra un ramo e l’altro.
La cascina ha tre entrate e, ovviamente, tre uscite. C’è quella che dà sulla villa settecentesca dei conti – vale a dire i due fratelli, discendenti da una famiglia di antica nobiltà, conti per davvero – miei padroni di casa. Sono anche i proprietari di tutte le terre che stanno da questa parte del fiume: boschi e campi che coltivano direttamente. Di tanto in tanto tra le coltivazioni ci sono dei gruppi di case. Sono le frazioni abitate che compongono la Contea: così chiamo tra me e me la minuscola patria che da qualche anno mi ha accolto. Vicina alla metropoli eppure appartata, quasi fosse un po’ sospesa in un suo tempo tutto da definire.
A far da perno e centro dell’intera Contea è la piazzetta. Anzi sarebbe più giusto dire che la piazzetta è il palcoscenico della Contea. Da casa mia ci arrivo dal cortile, passando per una vecchia porticina verde chiusa a chiave. Prendi la chiave, apri la porticina ed entri in paese. Sulla piazzetta ci sono la chiesa, il municipio e la farmacia, la posta e la trattoria dei Trapper (sì, quella delle prime canzoni di Max Pezzali e degli 883) con i due lunghi tavoli di legno all’aperto. E, per concludere, anche due negozi dove si trova di tutto, purché sia buono e genuino. Perché gli abitanti della Contea sono abituati a trattarsi bene, almeno a tavola.
La terza e ultima uscita della cascina è il portone sotto la mia finestra: dà sulla strada verso il fiume, quella che ho percorso stamattina appena dopo aver preparato la sacca da viaggio.