Venti canzoni che hanno vent’anni

Loser di Beck, Girls and Boys dei Blur, Hallelujah di Jeff Buckley, Basket Case dei Green Day e altre ancora: il 1994 fu un anno niente male

Il 1994 fu un anno niente male per la musica in generale (uscirono il primo disco dei Portishead e di Jeff Buckley, Definitely maybe degli Oasis e Parklife dei Blur, Protection dei Massive Attack e Monster dei REM, tra gli altri) e per una sequela di canzoni notevoli o di notevole successo che sono rimaste attaccate a quel periodo e lo ricordano tuttora: malgrado stiano compiendo tutte quante, fate i conti, vent’anni.
Le note e i commenti sono estratti dal libro Playlist di Luca Sofri, peraltro direttore del Post.

Loser

(Mellow Gold, 1994)
Voleva fare il rap, e non gli veniva, racconta lui. «Sono il peggior rapper del mondo, uno sfigato» si disse durante un tentativo in questo senso: “a loser”. E così nacque la canzone (pubblicata in poche copie nel 1993 e poi di nuovo nel ’94, quando fece il botto), che non gli sembrò neanche granché, quando l’ebbero messa giù assieme al produttore Carl Stephenson. Invece divenne un monumento, un inno, e l’annuncio di cose nuove, col suo misto di blues e rap e il refrain assassino. Un bum bum bum.

Girls and boys

(Blur, Girls and boys, 1994)
Gli inglesi chiamano “eurotrash” quel pop da classifica di solito proveniente dai paesi del Nordeuropa, spesso per opera di bands che poi spariscono nell’oblio, molta elettronica e una melodietta che funziona coi ragazzini: tipo “Barbie girl” degli Aqua, per capirsi. Questa canzone fu l’imitazione e la parodia dell’eurotrash e al tempo stesso la presa in giro del nascente cazzeggio degli anni Novanta e della gioventù squinternata ed eccitata che li frequentò. L’ironia però fu ignorata da quella stessa gioventù e dalle classifiche di mezzo mondo, che adottarono la canzone: che aprì la strada a un’ennesima era di britpop di grande successo internazionale.

Hallelujah

(Jeff Buckley, Grace, 1994)
C’è un momento nella vita in cui si ascolta per la prima volta Jeff Buckley che canta “Hallelujah”. Prima, ci si ricordava che era una vecchia canzone di Leonard Cohen. Dopo, si impara a riconoscere anche il sospiro con cui si apre. È la più amata e nota canzone di Buckley, che spiegò le sue metafore: «chiunque la ascolti attentamente scopre che è una canzone sul sesso, sull’amore dell’orgasmo. È un’ode alla vita e all’amore».

Ode to my family

(Cranberries, No need to argue, 1994)
E come facevano a non entrare in testa a mezzo mondo? Questa, già come inizia, è pura spietatezza acustica. Potrebbero fare un remix che fa solo “duddu-ruddù” tutto il tempo. È una cosa affettuosa verso la famiglia, l’andarsene, i tempi che furono e che inevitabilmente non sono più. “Dasèniuan cheeher, dasèniuan chee-her, dasèniuan chee-her…”.

You gotta be
(Des’ree, I ain’t movin’, 1994)
“You gotta be” spopolò in mezzo mondo, ed è un esempio di cosetta canticchiabile che ti dice come tutto-andrà-bene-basta-che-tu-ci-creda eccetera: format con cui Des’ree si è sempre trovata piuttosto a suo agio. Fu inserita anche in quella fabbrica da milioni di copie che furono le celebrazioni in musica della morte di Lady Diana.

You belong to me
(Bob Dylan, Natural born killers, 1994)
“See the pyramids along the Nile…”. L’aveva scritta Chilton Price nel 1952. L’ha cantata un sacco di gente, ma nessuno così bene come Bob Dylan nella colonna sonora di Natural born killers: nel cd è registrata con un dialogo del film sovrapposto alla coda. Il film è una baracconata sopra le righe, ma la canzone è la fine del mondo.

Missing

(Everything but the Girl, Amplified heart, 1994)
Remixata dance da un mago del genere, Todd Terry, fece imprevisti sfracelli in mezzo mondo, e divenne il loro singolo più venduto, suggerendo agli Everything but the Girl la strada da prendere successivamente emancipandosi dall’acustico dei primi tempi.

Basket case
(Greenday, Dookie, 1994)
Il loro pezzo più popolare (prima che arrivasse “Wake me up when september ends”, ballatone svenevole per teenagers) e il migliore. Ottima canzone rock, tiratissima, una musica tutta chitarre e batteria, con la strofa più efficace del ritornello. Si pogava parecchio, all’epoca. Parla di disordini mentali.

Space cowboy
(Jamiroquai, The return of the space cowboy, 1994)
Ormai ce ne sono diverse versioni, con remix successivi virati house e molto più ballabili. L’originale sottolineava di più i suoni anni Settanta e lasciava immaginare gente che ballava in seminterrati newyorkesi con chiome alla Napo-orso-capo e pantaloni a zampa d’elefante. Tutti facendosi molte canne, come sembra suggerire l’analisi del testo. “Some people call me the space cowboy” era il verso iniziale di “The joker”, della Steve Miller Band.

All over you

(Live, Throwing copper, 1994)
Grande invenzione: pochissimi versi, che vanno al sodo di un amore perseguitato perché “strano” (forse perché se lo è inventato lui da solo), e poi uno dei più efficaci refrain gridati della storia del rock. Loro sanno fare questo: momento da ballata melodica e poi baccano infernale. E soprattutto il passaggio dall’uno all’altro.
“All over you, all over me, 
the sun, the fields, the sky
 I’ve often tried to hold the sea, 
the sun, the fields, the tide”.

Protection
(Massive Attack, Protection, 1994)
Se i Massive Attack avessero composto in tutta la carriera solo “Unfinished sympathy” e “Protection”, basterebbe a metterli nelle enciclopedie. Ma che dico (nelle enciclopedie ci va chiunque): a intitolargli una piazza. “Mid-tempo”, dicono gli inglesi di quei lenti sostenuti però da una base ritmica “importante”. Ma è un lento, in sostanza: un grande lento moderno che deve moltissimo alla voce e alla mano di Tracey Thorn degli Everything but the Girl. Ce ne sono diverse versioni extended e remix, tra cui una piovosa e di nove minuti a opera di Brian Eno.

Glory box
(Portishead,Dummy, 1994)
Roba che non si era mai ascoltata, all’epoca: poi divenne luogo comune del “sentimolo strano”, ma è ancora emozionante. Stessa base del coevo e vicino di casa Tricky in “Hell is round the corner”, che veniva da una vecchia cosa di Isaac Hayes. Dopo il primo disco, la cosa migliore dei Portishead fu un disco da sola di Beth Gibbons dieci anni dopo.

Immortality

(Pearl Jam, Vitalogy, 1994)
Eddie Vedder ha smentito che parli di Kurt Cobain, come alcuni avevano sostenuto.

High hopes

(Pink Floyd, The division bell, 1994)
I Pink Floyd senza Roger Waters fecero cose oneste ma ormai superflue. Gilmour è uno bravo, gli altri sanno suonare: i tempi cambiarono, loro no. Tra le cose più piacevoli che hanno fatto c’è il refrain contagioso del pezzone che chiude The division bell, una roba autobiografica di Gilmour scritta con il consiglio della sua fidanzata Polly.

Prayer for the dying
(Seal, Seal II, 1994)
Lui canta, parole dopo parole, senza smettere mai, e intanto sotto c’è un arrangiamento “get-on-the-dancefloor” (di Trevor Horn). La parte migliore è quando attacca il ritornello: “I’m crossing that bridge, with lessons I’ve learned…”.

Streets of Philadelphia
(Bruce Springsteen, Philadelphia, 1994)
Era la canzone di apertura del film di Jonathan Demme, Philadelphia, che uscì a Natale e vinse l’Oscar nel 1994, battendo Philadelphia di Neil Young, che era sui titoli di coda nello stesso film (bella gara: ma quella di Neil Young è più bella).

All I Want for Christmas Is You
(Mariah Carey, Merry Christmas, 1994)
La grande tradizione delle canzoni di Natale vuole che tutti quelli che fanno dischi di Natale ricantano sempre le stesse quattro canzoni, anche perché quando ne inventano di nuove non sono all’altezza quasi mai. Rara eccezione, e da interprete che non l’avresti detto, questa: la migliore nuova canzone di Natale degli ultimi cinquant’anni, molto divertente (rifatta anni dopo con Justin Bieber, inutilmente).

Black Hole Sun
(Soundgarden, Superunknown, 1994)
Il pezzo più famoso di una band che allora fu parte robusta del grunge di Seattle, prima che restassero solo i Pearl Jam e i Nirvana, e poi solo i Pearl Jam. Chris Cornell, che era tra i più in gamba di quel giro, disse di averla scritta in 15 minuti.

What’s the Frequency, Kenneth?
(R.E.M., Monster, 1994)
I REM quando gli prese rocchettona, e d’altra parte il disco di prima Automatic for the people era irraggiungibile e lo sapevano anche loro, e bisognava fare altro. Questo fu il primo singolo, e parlava di cercare di capire i giovani e rinunciare: il titolo è la citazione di una frase ripetuta da uno sconosciuto mentre aggrediva il giornalista televisivo Dan Rather. Dan Rather, la cantò con la band durante una prova al Madison Square Garden, l’anno dopo.

Insensitive
(Jann Arden, Living Under June, 1994)
Per chiudere con un po’ di svenevole romanticismo dopo tanto rock, questa suonò allora nelle radio di mezzo mondo per mesi. Lei era canadese, e ha continuato a fare dischi ma non l è mai più andata così bene. Il ritornello srotolato – con lo svenevole romanticismo smorzato da chitarra e sua voce non svenevole – si meritò tanto successo.