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La scomparsa di Kiribati

Un reportage racconta la vita sul piccolo paese dell'Oceania, che rischia di non esistere più entro il 2100 a causa del riscaldamento globale

Kiribati è un paese dell’Oceania, uno dei meno popolati e più vasti del mondo: 33 isole sparse in un’area larga quattromila chilometri da est a ovest e duemila da nord a sud, abitata da poco più di centomila persone. È anche un paese che rischia di scomparire per sempre nell’arco di pochi decenni, perché l’innalzamento dei mari causato dal riscaldamento globale sta sommergendo a poco a poco il territorio delle isole e cancellando le scorte già insufficienti di acqua potabile.

Jeffrey Goldberg ha scritto un lungo reportage su Bloomberg BusinessWeek in cui racconta i molti problemi del paese e il modo con cui cerca di affrontare le difficoltà. Il giornalista ha passato alcuni giorni a Kiribati e ha incontrato il suo presidente da dieci anni, il 61enne Anote Tong, famoso perché sostiene con forza la tesi secondo cui le nazioni industrializzate stanno causando la totale scomparsa del suo paese.

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Trentadue isole di Kiribati (si pronuncia “kìribas”) sono atolli il cui territorio non supera i pochi metri di altezza. La trentatreesima, chiamata Banaba, è un’isola corallina ricca di fosfati che è stata sfruttata a fondo dal Regno Unito, quando la zona era un dominio coloniale britannico.

Secondo le previsioni degli scienziati che si occupano dei cambiamenti climatici, i 103 mila abitanti del paese – chiamati I-Kiribati – potrebbero aver bisogno di cercare una nuova sistemazione molto presto. L’acqua aumenta di volume quando si riscalda, un fenomeno che è molto più importante per l’aumento del livello dei mari rispetto allo scioglimento dei ghiacciai, ed entro il 2100 gran parte del territorio del paese potrebbe essere sommerso. Si stima che di recente il livello dell’Oceano Pacifico sia aumentato in media di un paio di millimetri l’anno. Una violenta tempesta come quella che ha colpito poche settimane fa le Filippine metterebbe in pericolo la sopravvivenza di Kiribati ancora prima.

Goldberg racconta che il presidente Anote Tong sta “cercando un luogo dove spostare la sua gente”. A marzo del 2012, Tong annunciò l’acquisto di un terreno di circa 25 chilometri quadrati a Viti Levu, l’isola principale delle Isole Fiji: una sorta di “assicurazione” nel caso le cose volgessero al peggio rapidamente. Ma le Isole Fiji, che dal 2006 sono governate da una giunta militare dopo l’ennesimo colpo di stato nell’instabile paese, non sembrano essere intenzionate ad assorbire la popolazione del paese vicino. Nessun altro paese del mondo, ha dichiarato Tong in un’intervista del 2010, si è fatto avanti offrendo sostegno concreto per un’eventuale emigrazione: solo un ex presidente dello Zambia (probabilmente Levy Mwanawasa, morto nel 2008) si era detto disponibile. Nel frattempo, la Nuova Zelanda fissa la quota degli immigrati da Kiribati che è disposta ad accogliere in poche decine l’anno.

Oggi, d’altra parte, lasciare il paese non è facile: l’unico modo per andarsene sono i due voli settimanali per Nadi, nelle Fiji, e il presidente Tong può visitare il più grande atollo del suo paese, Kiritimati, solo facendo scalo in un altro paese.

I problemi di Kiribati
Il reportage di Goldberg – che vale la pena di leggere per intero – racconta da un lato il tangibile senso di incertezza e di angoscia che si respira tra i suoi abitanti per l’innalzamento dell’oceano, e dall’altro elenca una serie di disgrazie che affliggono il paese che fa pensare che la scomparsa della terra sotto i piedi non sia neppure il male peggiore in vista. Circa metà della popolazione di Kiribati, 51 mila persone, vive a Tarawa Sud, posta in una zona dell’atollo di Tarawa larga 950 metri nel suo punto più ampio. La densità nell’insediamento è di circa cinquemila persone per chilometro quadrato, poco meno di Hong Kong. Goldberg racconta così la prima passeggiata sull’isola:

La mia prima impressione non era giusta: prima del pomeriggio, il caldo a Tarawa diventa assolutamente fiaccante. A mezzogiorno, la gente dorme ai lati della strada. Gli uomini sonnecchiano su materassi di paglia mentre camminiamo attraverso l’insediamento. Passiamo a fianco di un fetido stagno di acqua salata. “Questo è nuovo” dice Maerere. L’acqua salata si infiltra attraverso il suolo e si raccoglie qua e là nel suo villaggio. Le rive dello stagno sono coperte di spazzatura – taniche di plastica, sacchi di riso, motori, scatole di cartone. L’aria è appestata da piccoli mucchi di escrementi – di cane, di maiale e umani. Arriviamo a un canale poco profondo che taglia in due l’insediamento. “Anche questo è nuovo”. Maerere cammina fino a un gruppetto di palme di cocco morte, piegate nella sconfitta. “Il sale le uccide”.

Uno dei problemi più gravi di Tarawa, conseguenza del sovraffollamento, è che la gente vive direttamente sopra la principale falda acquifera dell’isola, creata dall’acqua piovana che filtra nel suolo e galleggia su una quantità maggiore di acqua salata. A Tarawa, la falda si trova circa due metri sottoterra e fornisce gran parte dell’acqua potabile del piccolo stato. Le abitudini locali sono una causa grave del suo inquinamento: la questione è che circa il 60 per cento della popolazione, scrive Goldberg, defeca in mare o sopra la falda.

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