• Mondo
  • Giovedì 6 giugno 2013

Due marocchini hanno denunciato il New York Post

Il tabloid americano pubblicò una loro foto in prima pagina descrivendoli come i sospettati delle bombe di Boston, e non era vero

Salaheddin Barhoum, 16 anni, e Yassine Zaimi, 24 anni, due ragazzi marocchini residenti in Massachusetts, hanno fatto causa al New York Post per diffamazione, a causa di una foto pubblicata in prima pagina dal tabloid il 18 aprile 2013. Quella prima pagina mostrava una foto dei due ragazzi etichettati come “Bag Men”, di fatto additandoli come i possibili responsabili – e per questo ricercati dall’FBI – per le bombe esplose il 15 aprile vicino al traguardo della maratona di Boston.

NEW-YORK-POST-bag_menNel titolo di prima pagina c’era scritto: “Feds seek these two pictured at Boston Marathon”, cioè che gli agenti federali stavano cercando le due persone ritratte in quella foto. I due ragazzi però erano semplicemente due spettatori che stavano assistendo alla maratona.

Il giorno della maratona
Salaheddin Barhoum e Yassine Zaimi risiedono legalmente negli Stati Uniti, dopo essersi trasferiti dal Marocco circa quattro anni fa. Zaimi è arrivato negli Stati Uniti da solo e ha conosciuto Barhoum e la sua famiglia nel palazzo in cui abitano entrambi. A entrambi piace correre, e così il giorno della maratona di Boston erano usciti di casa presto, con le scarpe nella borsa, sperando di poter prendere parte alla corsa benché non si fossero iscritti. Arrivati sul posto i due ragazzi si sono messi a chiacchierare con qualche funzionario della maratona, hanno scoperto di non poter partecipare, e se ne sono andati quando all’esplosione delle bombe mancavano circa due ore.

Il giorno dopo su Internet – soprattutto su Twitter e su Reddit – partì una specie di “caccia ai terroristi”: decine di utenti confrontavano le migliaia di fotografie disponibili cercando persone in qualche modo “sospette”. Tra le foto che circolavano di più c’era quella di Barhoum e Zaimi. Alcuni loro amici li riconobbero e i due la sera del 17 aprile si presentarono in una stazione di polizia. Dopo aver parlato con gli agenti, ed essere stati rassicurati che non erano tra i sospettati, i due tornarono a casa.

Il giorno dopo la foto di Zaimi e Barhoum fu pubblicata in prima pagina sul New York Post. In un piccolo articolo, sempre in prima pagina, si spiegava che non c’era nessuna prova che collegava i due ragazzi all’attentato ma che la polizia aveva intenzione di identificarli: la polizia però aveva già parlato con Zaimi e Barhoum la sera precedente, il 17 aprile. Nelle pagine interne del giornale erano state pubblicate altre fotografie che mostravano le loro facce, abbastanza perché parenti, amici e conoscenti potessero riconoscerli.

Quella mattina né Zaimi né Barhoum avevano visto la prima pagina del New York Post. Una volta arrivato nella società di servizi finanziari in cui lavora, Zaimi venne chiamato dal vicepresidente dell’azienda, che gli mostrò una copia del giornale. Zaimi ha raccontato che cominciò a tremare al punto che stava per avare un attacco di panico. Quando tornò a casa dopo il lavoro, mentre aspettava il treno, qualcuno iniziò a indicarlo come il ragazzo della prima pagina del New York Post: spaventato, Zaimi si allontanò correndo. Ancora oggi, ha spiegato il suo avvocato, Zaimi non è riuscito a superare quel trauma e non va più a correre perché ha ancora la sensazione di sentirsi osservato.

Barouhm invece quel giorno era in ferie. Rientrò a casa in tarda mattinata dopo aver fatto un giro, e trovò un gruppo di giornalisti che facevano domande ai suoi genitori. Anche lui, c’è scritto nella denuncia, si sentì male. Il suo avvocato ha detto che chiederà al giudice di costringere il New York Post a rendere pubblica la fonte che ha fornito la foto e ha accusato il giornale anche di razzismo, sostenendo che quella foto non sarebbe mai stata pubblicata se si fosse trattato di un ragazzo dai tratti occidentali.

I dirigenti del New York Post non hanno commentato la notizia della causa per diffamazione, ma uno dei suoi giornalisti, Col Allan, ha difeso il lavoro del proprio giornale, spiegando che la foto in prima pagina era la stessa che alcuni agenti delle forze dell’ordine avevano diffuso per e-mail, in cui erano ritratte le persone su cui si stavano raccogliendo delle informazioni. Nonostante l’esplicito titolo di prima pagina, Allan ha aggiunto: «Noi non li abbiamo identificati come sospettati».

Il caso della “pista saudita”
Prima di questa vicenda, il New York Post era stato protagonista di un altro fatto molto discusso e sempre collegato all’esplosione delle bombe di Boston. Il tabloid aveva scritto per primo della possibilità di una “pista saudita”, sostenendo che un cittadino saudita al momento delle esplosioni si trovava sul luogo dell’attentato e che successivamente era stato fermato dalla polizia di Boston. La notizia era circolata molto nelle ore successive all’esplosione ed era stata ripresa da molti siti di news internazionali. In quel caso, il New York Post citò alcune fonti interne alle forze dell’ordine, che poi smentirono tutto.

Il cittadino saudita era stato descritto dal giornale come un ragazzo di 20 anni, spettatore della maratona. Dopo le esplosioni, era stato scritto che il ragazzo – dai tratti mediorientali – era scappato via, spaventato, come molte altre persone che si trovavano nei pressi del traguardo della maratona. Era ferito e così venne fermato e aiutato da un altro spettatore, che avrebbe poi raccontato di aver sentito su di lui puzza di esplosivo. Il ragazzo, inoltre, chiedeva informazioni su quanto successo e anche questo era parso essere un segno strano. Successivamente la polizia – chiamata dallo spettatore/soccorritore – portò il ragazzo in ospedale, tenendolo sotto controllo.

Il New York Post fu anche l’unico giornale a dire che le bombe avevano ucciso più di tre persone, scrivendo a lungo che le persone uccise erano dodici.