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  • Giovedì 16 maggio 2013

Come comincia Il Grande Gatsby

Nella traduzione dello scrittore Tommaso Pincio, pubblicato di recente da Minimum Fax

La casa editrice Minimum Fax ha ripubblicato a gennaio 2011 Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald (246 pp., introduzione di Sara Antonelli, disponibile anche in ebook), all’interno di una collana in cui le opere di Fitzgerald sono tradotte da scrittori. Questo è l’incipit del romanzo, nella traduzione di Tommaso Pincio.

Nei miei anni più giovani e vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che non ho mai smesso di considerare.

«Ogni volta che ti sentirai di criticare qualcuno», mi disse, «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i tuoi stessi vantaggi».

Non aggiunse altro, ma nel nostro riserbo siamo sempre stati sorprendentemente comunicativi e compresi che voleva sottintendere molto di più. Di conseguenza, sono incline a sospendere ogni giudizio, abitudine che mi ha aperto a un gran numero di persone strane e mi ha inoltre reso vittima di non pochi seccatori consumati. Una mente degenerata è lesta a riconoscere una simile caratteristica e ad attaccarvisi quando si manifesta in una persona normale, e fu così che al college mi ritrovai a torto accusato di essere un intrigante perché ero al corrente delle pene nascoste di uomini sregolati e misteriosi. La gran parte delle confidenze non erano cercate; ho spesso finto d’essere assonnato o assorto in altri pensieri o ho ostentato una frivolezza ostile non appena scorgevo agitarsi all’orizzonte il segno inconfondibile di una rivelazione intima; giacché le rivelazioni intime dei giovani, o perlomeno i termini nei quali i giovani le esprimono, sono di solito contraffatte e alterate da palesi omissioni. La sospensione del giudizio presuppone una speranza infinita. Ancora adesso temo che perderei qualcosa qualora mi dimenticassi che, come mio padre snobisticamente asseriva e io snobisticamente ripeto, il senso della basilare decenza viene distribuito in misura iniqua alla nascita.

E, dopo essermi tanto gloriato per la mia tolleranza, giungo ad ammettere che essa ha un limite. La condotta può reggersi sulla dura roccia o affondare in paludi melmose, ma oltre un certo punto non mi interessa più su cosa si basa. Quando tornai dall’Est, lo scorso autunno, avvertivo il bisogno di un mondo in uniforme e, per così dire, sempre moralmente sull’attenti; non volevo più saperne di debosciate digressioni condite di fuggevoli sbirciate nel cuore umano. Soltanto Gatsby, l’uomo che dà il nome a questo libro, era esente da questa mia reazione. Gatsby, che rappresentava tutto quello per cui nutro un disprezzo spontaneo. Se la personalità è una serie ininterrotta di gesti ben riusciti, allora c’era qualcosa di fastoso in lui, una forma di acuta sensibilità verso le promesse della vita, quasi fosse imparentato con uno di quei complessi macchinari che registrano un terremoto a diecimila chilometri di distanza. Questa ricettività non ha alcunché da spartire con la molle impressionabilità che si pretende di nobilitare definendola «temperamento creativo»; si trattava di uno straordinario talento per la speranza, una prontezza romantica che non ho mai riscontrato in altre persone e verosimilmente mai più riscontrerò. No, alla fine Gatsby si rivelò una persona a posto; fu quel che lo assillava, fu quel nefando pulviscolo che si trascinava al seguito dei suoi sogni a reprimere per un po’ il mio interesse per le inutili pene degli uomini e le loro effimere esaltazioni.

Da tre generazioni la mia famiglia è tra le più benestanti e in vista di questa città del Midwest. I Carraway sono una sorta di clan e la nostra tradizione ci vuole discendenti dei duchi di Buccleuch, ma il vero fondatore del ramo cui appartengo fu il fratello di mio nonno, che venne qui nel ’51, spedì un sostituto alla Guerra di Secessione e avviò l’impresa di ferramenta all’ingrosso che mio padre porta avanti ancora oggi.
Non ho mai conosciuto questo prozio ma dovrei somigliargli, soprattutto guardando l’orribile crosta appesa nell’ufficio di papà. Mi addottorai a New Haven nel 1915, giusto un quarto di secolo dopo mio padre, e un poco più tardi partecipai a quella procrastinata migrazione teutonica che va sotto il nome di Grande Guerra. Ebbi modo di apprezzare la controffensiva così a fondo che ne ritornai smanioso. Anziché il centro palpitante del mondo, il Midwest mi sembrava ora il bordo sfilacciato dell’universo; per cui decisi di andarmene nell’Est e imparare i rudimenti del mercato azionario. Tutti quelli che conoscevo erano nel mercato azionario, pertanto immaginai che ci fosse spazio per un uomo in più. Zii e zie al completo ne discussero come dovessero scegliere un collegio cui mandarmi e alla fine, con facce serissime e titubanti, dissero: «Mah… sììì». Papà accettò di finanziarmi per un anno e, dopo svariati rinvii, nella primavera del ’22 venni nell’Est in pianta stabile, o così credevo.

La soluzione più pratica sarebbe stata trovare una stanza in città, ma era una stagione calda e io avevo appena lasciato una terra di prati estesi e alberi benevoli, così quando un giovanotto dell’ufficio propose di prendere una casa insieme in un sobborgo residenziale mi parve un’idea fantastica. Trovò lui la casa, una villetta di cartapesta segnata dalle intemperie per ottanta al mese, ma all’ultimo minuto la ditta dispose il suo trasferimento a Washington e io me ne andai in campagna da solo. Avevo un cane, perlomeno lo ebbi per qualche giorno, finché non scappò, e avevo anche una vecchia Dodge e una donna finlandese che mi rifaceva il letto e mi preparava la colazione e borbottava tra sé motti di saggezza finnica davanti al fornello elettrico.
Avevo trascorso un giorno o due in piena solitudine allorché un uomo, giunto dopo di me, un mattino mi fermò per strada. «Come si arriva al villaggio di West Egg?», mi chiese disorientato.

Glielo dissi. E nel riprendere il cammino non mi sentii più solo. Ero una guida, un pioniere, un colono della prima ora. Senza volerlo, costui mi aveva conferito la cittadinanza della zona.