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  • Venerdì 1 marzo 2013

Bradley Manning si è dichiarato colpevole

Il soldato statunitense accusato di aver collaborato con WikiLeaks ha ammesso 10 dei 22 capi di accusa contro di lui, ma non i più gravi

<> on February 28, 2013 in Fort Meade, Maryland.
<> on February 28, 2013 in Fort Meade, Maryland.

Giovedì 28 febbraio Bradley Manning, il soldato statunitense accusato di aver passato centinaia di migliaia di documenti riservati e altri materiali a WikiLeaks, si è dichiarato colpevole di 10 dei 22 capi di imputazione di cui è accusato, durante l’udienza preliminare in una corte militare in Maryland. Come preannunciato, Manning, che ha 25 anni ed è stato arrestato in Iraq nel maggio 2010, si è servito della procedura chiamata pleading by exceptions and substitutions (“dichiarazione attraverso eccezioni e sostituzioni”), dichiarandosi responsabile per alcune accuse minori, contenute o presupposte dai reati imputati dall’accusa, ognuna delle quali prevede una pena massima di due anni, mentre ha negato quelli più gravi – tra cui l’aver «aiutato il nemico» – per cui rischia l’ergastolo senza condizionale.

Manning ha letto una dichiarazione di 35 pagine, per più di un’ora. Per la prima volta ha raccontato in modo dettagliato non solo come ha passato le informazioni – ottenute lavorando come analista in una base dei servizi segreti dell’esercito fuori Baghdad – ma anche perché l’ha fatto: la necessità di far conoscere al popolo americano «il vero costo della guerra». Il soldato ha detto di aver trafugato le informazioni che lo «irritavano» o lo «turbavano», pensando che non avrebbero danneggiato gli Stati Uniti diventando di pubblico dominio – per esempio aiutando al Qaida – perché riguardavano fatti accaduti anni prima e situazioni che nel frattempo erano cambiate.

Manning ha raccontato che era molto depresso per la situazione in cui l’esercito si era impantanato e per il modo in cui veniva gestito il conflitto. «Eravamo ossessionati dalla cattura e dall’uccisione di target umani su delle liste ma ignoravamo obiettivi e missioni. Ero certo che se l’opinione pubblica, specialmente quella americana, avesse potuto vedere cosa stava succedendo sarebbe nato un dibattito sull’esercito e la nostra politica estera in generale, che avrebbe portato a rivedere le nostre politiche antiterrorismo e il disinteresse per la condizione dei diritti umani delle persone che ci stanno attorno».

Manning decise di copiare i documenti di guerra su una scheda di memoria e li portò con sé negli Stati Uniti durante un congedo nel gennaio 2010. Chiamò il Washington Post ma non venne preso sul serio. Chiamò allora il New York Times e lasciò un messaggio alla segreteria telefonica aggiungendo la sua mail e il numero telefonico, ma non venne mai richiamato. Decise allora di rivolgersi a WikiLeaks, che aveva scoperto nel 2009 rimanendo particolarmente impressionato dalla pubblicazione nel novembre di quell’anno di 500 mila messaggi scambiati durante gli attacchi terroristici dell’11 settembre.

Una volta tornato in Iraq Manning iniziò a passare materiale a WikiLeaks. Trovò un video del 2007 in cui due elicotteri Apache sparavano contro un gruppo di persone disarmate, uccidendo due reporter di Reuters e ferendo gravemente due bambini. Manning rimase impressionato dalla «sete di sangue» dei soldati che «sembravano non dare valore alla vita umana». «Per me era come torturare una formica con una lente di ingrandimento», ha spiegato. Inoltre i vertici militari avevano negato l’esistenza del video a Reuters, che continuava a chiederlo per far luce sulle morte dei suoi operatori. Manning era così arrabbiato che passò il video a WikiLeaks, che lo pubblicò nell’aprile del 2010 con il nome di Collateral Murder: fu visto centinaia di migliaia di volte, diventò un caso e rese famosa WikiLeaks.

Dopo la diffusione di Collateral Murder, Manning venne avvicinato da una persona ai vertici di WikiLeaks dal nome in codice Ox. Si trattava molto probabilmente di Julian Assange, il fondatore dell’organizzazione. Il soldato decise di continuare a collaborare e scelse come nome in codice Nathaniel Frank, come l’autore di un libro che aveva appena letto. Oltre a Collateral Murder passò all’organizzazione circa 250 mila cable diplomatici americani, documenti sulla guerra in Iraq e Afghanistan, file sui detenuti a Guantánamo e due documenti dell’intelligence. Dopo essere stato arrestato, Manning passò un anno e mezzo in quasi totale isolamento in un carcere militare di massima sicurezza in Virginia, formalmente per evitare il rischio di suicidio: le sue condizioni di detenzione generarono molte proteste nel mondo e negli Stati Uniti, causando anche le dimissioni di P. J. Crowley, ex portavoce del segretario di Stato Hillary Clinton, a marzo 2011, dopo alcune sue affermazioni critiche nei confronti del Pentagono sulla gestione del caso.

Manning ha letto la dichiarazione di colpevolezza – «rapidamente, a volte inciampando nelle parole, a volte ridendo ai suoi stessi commenti», scrive il Guardian – vestito con l’uniforme e affiancato dal suo avvocato civile David Coombs e da due avvocati militari. Dopodiché ha risposto per diverse ore alle domande del giudice del processo, il colonnello Denise Lind, che doveva assicurarsi che la dichiarazione fosse fatta liberamente e in piena consapevolezza delle conseguenze. Il processo marziale contro Manning inizierà il 3 giugno prossimo.

Bradley Manning dopo l’udienza (Mark Wilson/Getty Images)