Nell’ambito della grande e globale crisi dei giornali cartacei – in questo articolo parleremo dei quotidiani, ma il problema riguarda notoriamente anche le riviste – anche per la stampa italiana il 2012 è stato un anno molto difficile. Si è ridotta la quota dei finanziamenti pubblici, che rappresenta per molte testate una significativa fonte di introiti, ma soprattutto sono continuati a diminuire i guadagni dalla pubblicità. Nei primi nove mesi del 2012 il mercato pubblicitario del settore dell’informazione, nell’insieme, è arretrato del 10,5 per cento, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. La tendenza va avanti così da anni e porta con sé conseguenze sulle redazioni e, alla fine della fiera, sul prodotto finale, quello che arriva nelle mani dei lettori (anche questi sempre di meno, con poche eccezioni).
Per i quotidiani nel 2012 la raccolta pubblicitaria è diminuita del 13,9 per cento, mentre per i periodici del 16,2 per cento. Nelle redazioni ci sono stati e ci saranno piani di riorganizzazione e ristrutturazione, con lo scopo principale di tagliare i costi sul lavoro, cioè giornalisti e poligrafici. I poligrafici sono i dipendenti di un giornale che non sono giornalisti, principalmente i tipografi e gli impiegati amministrativi, ma non i dirigenti (come il direttore marketing o il direttore editoriale). Secondo i dati dell’INPGI, l’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani, le aziende che nell’ultimo anno hanno fatto ricorso allo “stato di crisi” sono state 58.
Per “stato di crisi” si possono intendere diverse cose, ma parliamo in sostanza di ammortizzatori sociali: prepensionamenti, cassa integrazione, contratti di solidarietà. I giornalisti coinvolti, sempre secondo l’INPGI, sono almeno 1.139. Qui bisogna aprire una parentesi: quando si parla di “giornalisti”, come nei dati forniti dall’INPGI, si fa riferimento alle persone iscritte all’Ordine dei Giornalisti come praticanti o come professionisti. Questo perché in Italia la legge – la legge 69 del 1963 – stabilisce che chi vuole esercitare la professione giornalistica debba obbligatoriamente iscriversi all’Ordine dei Giornalisti e sostenere un esame di Stato, al termine di un periodo di praticantato. Questo non ha evitato, però, che moltissime persone oggi svolgano professioni giornalistiche all’interno di redazioni giornalistiche senza un contratto giornalistico, ma con contratti di varia altra natura (e molto minori retribuzioni e tutele): dai co.co.co ai co.co.pro. alle partite IVA. E poi ci sono i freelance: collaboratori che vengono pagati ad articolo ma che non fanno parte degli organici redazionali. Nella maggior parte dei casi le collaborazioni sono tra le prime cose a essere tagliate, e a volte il punto di partenza delle trattative sindacali, allo scopo di tutelare i giornalisti della redazione, è proprio il taglio radicale dei contratti di collaborazione.
Ma dicevamo della crisi dei giornali italiani. In alcuni casi, pochi, la situazione sembra stabile, grazie al fatto di non aver risentito molto del calo dei ricavi pubblicitari: su tutti il Fatto Quotidiano (ma ne parleremo più avanti). In altri ancora i piani di riorganizzazione prevedono anche nuovi investimenti, per esempio nella tecnologia, con sviluppi di nuovi sistemi di impaginazione e un rafforzamento della “forza lavoro”, per quanto riguarda le redazioni online dei giornali. La tendenza, a maggioranza, non prevede comunque nuove assunzioni né la regolarizzazione dei precari, ma soltanto una redistribuzione interna delle forze.
Questa “fotografia” sullo stato dei quotidiani e dei giornalisti si concentra in particolare su quanto sta accadendo nei maggiori quotidiani nazionali, anche in base alle informazioni raccolte parlando con i vari rappresentanti dei comitati di redazione (CDR), cioè gli organi di rappresentanza sindacale dei giornalisti. La situazione appare complessa e in generale negativa: e in alcuni casi non è stato possibile raccogliere informazioni per via delle trattative in corso, come nel caso della Stampa. Prima di descrivere qual è la situazione testata per testata, però, è bene spiegare cosa comporta per un giornalista, anche in termini di retribuzione, andare in prepensionamento o l’applicazione di un cosiddetto “contratto di solidarietà”.
I prepensionamenti
Nel 2009 tre diversi provvedimenti hanno modificato la legge quadro sulle imprese editrici 416 del 1981: la legge 2/2009, la 14/2009 e la 33/2009, che regolano la cassa integrazione e i prepensionamenti nel settore dell’informazione. L’onere dei prepensionamenti è ora a carico dello Stato, che ha istituito un Fondo statale per i prepensionamenti dei giornalisti, con una dotazione di 20 milioni di euro all’anno. Questo significa che a pagare l’assegno per la pensione, fino al raggiungimento dei requisiti standard, sarà lo Stato e non più l’INPGI.
Se questo fondo di 20 milioni di euro non dovesse essere sufficiente, per coprire il costo dei prepensionamenti, è previsto un contributo aggiuntivo, da parte degli editori, pari al 30 per cento del trattamento di fine rapporto, per ogni singolo prepensionamento richiesto. Le imprese editoriali che vogliono utilizzare questo tipo di ammortizzatore sociale devono fare innanzitutto richiesta di attivazione della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS), per ristrutturazione o riorganizzazione, a partire da una crisi aziendale. La richiesta di prepensionamento è volontaria e può riguardare soltanto i giornalisti professionisti “dipendenti” dell’azienda.
Gli anni di “scivolo”
Rispetto alle norme che regolano la pensione di vecchiaia, il giornalista che va in prepensionamento può ritirarsi dal lavoro con un massimo di sette anni di anticipo. In caso di prepensionamento, comunque, l’assegno mensile è ridotto, rispetto a quello che si sarebbe preso una volta raggiunti i 65 o i 60 anni di età. La prima riduzione è provvisoria ed è legata agli anni che mancano alla pensione di anzianità, la seconda riduzione rappresenta un vero e proprio “abbattimento” definitivo dello 0,5 per cento, per ogni anno di scivolo.
La cassa integrazione
A differenza del prepensionamento la cassa integrazione non è volontaria, ma dipende dal programma dell’azienda, in base all’organizzazione del lavoro decisa dal direttore e contrattata poi a livello sindacale. Le aziende editoriali possono richiederla per rilevanza sociale, per ristrutturazione e riorganizzazione, nei casi di fallimento, amministrazione straordinaria o liquidazione coatta amministrativa. La CIGS ha una durata massima di 12 mesi per i casi di crisi aziendali, di 18 mesi per le procedure giudiziali, di 24 mesi per riorganizzazione e ristrutturazione. E comunque, un’azienda non può superare i 36 mesi di intervento della CIGS, nell’arco di cinque anni.
Anche in questo caso il trattamento di cassa integrazione riguarda soltanto i giornalisti dipendenti: per i collaboratori non regolarizzati non è prevista nessuna tutela. Nel periodo di cassa integrazione, a meno che non ci siano accordi volontari di spontanea decurtazione della retribuzione (è stato per esempio il caso di Liberazione, anche se la proposta non è stata accettata), lo stipendio dei giornalisti è pari all’80 per cento della propria retribuzione, con un tetto massimo stabilito annualmente per tutti i lavoratori. Questo assegno è a carico dell’INPGI, anche se in alcuni casi può essere anticipato dall’azienda. Se alla fine del periodo di cassa integrazione le difficoltà aziendali non sono state superate, il datore di lavoro può decidere di fare dei licenziamenti collettivi.
I contratti di solidarietà
I contratti di solidarietà prevedono una riduzione della retribuzione proporzionale alla riduzione dell’orario di lavoro: per esempio, per una “solidarietà” al 10 per cento, lo stipendio del giornalista viene ridotto del 4 per cento, per una “solidarietà” al 20 per cento, lo stipendio del giornalista viene ridotto dell’8 per cento, e così via. Questo tipo di contratto può durare tra i 12 e i 24 mesi, rinnovabile per altri 24 mesi (in accordo tra le parti).
Questo dunque è il quadro normativo che è stato utilizzato dalla maggior parte delle aziende editoriali italiane nell’ultimo anno, con alcune eccezioni: in alcuni casi, infatti, non si può ricorrere ai prepensionamenti, per il semplice fatto di avere nelle redazioni giornalisti che non arrivano, né si avvicinano, alla soglia dei 56-58 anni. Al di là della riorganizzazione delle redazioni, abbiamo anche cercato di capire come si stanno ristrutturando i giornali, a livello di prodotto editoriale. Ci sono due tendenze generali: quella che prevede l’anticipo della chiusura del giornale e quella della riorganizzazione delle mansioni, per i giornalisti, che sono sempre più integrate tra il giornale di carta e il sito Internet del quotidiano.
Nella prossima pagina: come stanno Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport, Repubblica, Stampa, Sole 24 Ore, Avvenire, Europa, il Foglio, il Fatto, Milano Finanza.