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  • Mercoledì 2 gennaio 2013

Gli Stati Uniti evitano il fiscal cliff

Il Congresso ha votato una legge che evita i tagli mostruosi e aumenta le tasse sui ricchi per la prima volta in vent'anni, e i repubblicani si sono spaccati

di Francesco Costa – @francescocosta

WASHINGTON - JANUARY 1: U.S. President Barack Obama arrives to deliver a statement in the White House Briefing Room following passage by the House of tax legislation on January 1, 2013 in Washington, DC. The House and Senate have now both passed the legislation, averting the so-called fiscal cliff. (Photo by Brendan Hoffman/Getty Images)
WASHINGTON - JANUARY 1: U.S. President Barack Obama arrives to deliver a statement in the White House Briefing Room following passage by the House of tax legislation on January 1, 2013 in Washington, DC. The House and Senate have now both passed the legislation, averting the so-called fiscal cliff. (Photo by Brendan Hoffman/Getty Images)

La Camera degli Stati Uniti ha approvato l’accordo sul fiscal cliff, il cosiddetto baratro fiscale, dopo il voto favorevole espresso il primo gennaio dal Senato. Il voto è avvenuto quando negli Stati Uniti erano le 23 di martedì e in Italia erano le 5 del mattino di mercoledì. Hanno votato a favore dell’accordo 257 deputati, mentre hanno votato contro in 167. Hanno votato a favore 172 democratici e 85 repubblicani, hanno votato contro 151 repubblicani e 16 democratici. La leadership dei repubblicani si è divisa: il presidente della Camera, John Boehner, che tra due giorni spera di essere rieletto, ha votato a favore come Paul Ryan, presidente della commissione Finanze e ultimo candidato repubblicano alla vicepresidenza; hanno votato contro, invece, il capogruppo dei repubblicani Eric Cantor e il deputato Kevin McCarthy, il repubblicano numero tre al Congresso.

L’accordo evita innanzitutto l’entrata in vigore simultanea di una serie mostruosa di tagli alla spesa, soprattutto al welfare, alla difesa e all’istruzione, e l’annullamento di esenzioni fiscali dirette a tutti gli americani: questi meccanismi andavano incontro il 31 dicembre alla loro scadenza naturale e almeno in una circostanza erano stati resi dal Congresso così radicali e potenzialmente dannosi proprio per incentivare democratici e repubblicani a trovare un compromesso. La famiglia media americana avrebbe pagato 3.000 dollari di tasse in più all’anno e gli Stati Uniti, secondo l’ufficio per il budget del Congresso, sarebbero finiti nuovamente in recessione.

(Che cos’è il fiscal cliff, spiegato bene)

Gli Stati Uniti tecnicamente sono caduti nel “baratro fiscale”: alla mezzanotte del 31 dicembre 2012, infatti, né il Senato né la Camera avevano approvato alcun accordo. I membri del Congresso hanno continuato però a lavorare il primo gennaio, approfittando del fatto che fosse festa e che quindi borse e mercati fossero chiusi. Dopo il fallimento di ogni possibilità di accordo alla Camera, al Senato è stato trovato un compromesso tra il capogruppo dei repubblicani, Mitch McConnell, e il vicepresidente Joe Biden. L’accordo è stato votato da quasi la totalità dei senatori, con 89 voti favorevoli e 9 voti contrari, ottenendo l’approvazione di molti repubblicani, compresi un paio tra i più estremisti. Questo ha messo molta pressione ai repubblicani della Camera e di fatto li ha spaccati: alla fine soltanto un terzo di loro ha votato per l’accordo, ed è stata la prima volta dal 1991 che dei deputati repubblicani hanno votato per aumentare le tasse negli Stati Uniti.

L’accordo approvato dal Congresso, infatti, aumenta le tasse come nessun’altra legge aveva fatto negli ultimi vent’anni. Questo aumento però si scaricherà soltanto sulle persone che guadagnano più di 400.000 dollari l’anno e sulle coppie che ne guadagnano più di 450.000, mentre per chi si trova sotto questa soglia le esenzioni introdotte dall’amministrazione Bush diventano definitive. Per chi si trova sopra questa asticella, inoltre, la tassa sulle rendite finanziarie e i dividendi sale dal 15 al 20 per cento mentre la tassa di successione sale dal 35 al 40 per cento. L’accordo contiene poi una serie di piccole norme che evitano emergenze più piccole ma comunque controverse, tra cui un aumento del prezzo del latte e aumenti degli stipendi di deputati e senatori. La cosa che ha fatto infuriare molti repubblicani è che l’accordo prevede pochi tagli rispetto a quanto avrebbero sperato: 600 miliardi nei prossimi dieci anni, quando all’inizio della trattativa si parlava di 4.000 miliardi. I programmi di welfare e assistenza sanitaria sono stati toccati poco e niente, e si è deciso di rimandare alla fine di febbraio tagli per altri 110 miliardi di dollari, nonché la famigerata legge per alzare il tetto del debito: ci aspettano insomma un’altra trattativa e un’altra scadenza.

Obama ha tenuto una conferenza stampa alla Casa Bianca poco dopo il voto, ringraziando chi ha votato a favore dell’accordo e dicendo di augurarsi che nel 2013 «si possano mettere insieme accordi del genere con un po’ meno tensione e un po’ meno estremismo, senza terrorizzare i cittadini come questa volta». «Grazie ai voti di democratici e repubblicani», ha detto Obama, «firmerò una legge che alza le tasse sul 2 per cento di americani più ricchi e impedisce un aumento delle tasse sulla classe media che avrebbe riportato il paese in recessione». L’accordo alla fine è più favorevole a Obama e ai democratici rispetto a quello che era sembrato negli ultimi giorni, e che aveva fatto infuriare anche molti liberal del Partito Democratico, l’ala più di sinistra. Dopo la conferenza Obama è ripartito per il suo stato natale, le Hawaii, dove era in vacanza prima di tornare precipitosamente a Washington viste le difficoltà del Congresso di trovare un accordo.

Persino Paul Krugman, editorialista del New York Times, premio Nobel per l’Economia e spesso critico di Obama da posizioni liberal, dopo una posizione inizialmente delusa e scettica ha scritto che Obama ha ottenuto circa 600 miliardi di tasse in più quando l’obiettivo iniziale era 800 miliardi, una differenza pari allo 0,1 del PIL statunitense quindi «non fondamentale, come minimo». Inoltre, dice Krugman, «i democratici hanno tenuto il loro terreno sui principi fondamentali mentre i repubblicani hanno votato per la prima volta dopo decenni per aumentare le tasse». Krugman si spiega così, quindi, il malumore di molti a sinistra: «Ha a che fare meno con dove Obama è andato a parare e più con il come ci è arrivato. Ha continuato a tracciare delle linee dicendo che più in là non sarebbe andato, per poi andare più in là e tracciare delle nuove linee». Secondo Krugman se Obama non retrocederà nei prossimi mesi, «retrospettivamente questo accordo non sembrerà male».

Sarà interessante invece vedere ora cosa accadrà a destra. Tra pochi giorni si insedierà il nuovo Congresso, quello eletto lo scorso novembre, e il repubblicano John Boehner spera di essere rieletto alla presidenza della Camera. La maggioranza dei repubblicani alla Camera però ha votato contro l’accordo, mentre lui ha votato a favore, e molti hanno criticato la stessa decisione di calendarizzare il voto sulla legge approvata dal Senato. Senza questa decisione però probabilmente oggi, a mercati aperti, non ci sarebbe ancora nessun accordo.

foto: Brendan Hoffman/Getty Images