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  • Venerdì 28 dicembre 2012

Che cos’è il fiscal cliff

Perché ne stiamo parlando da settimane: una guida per chi decida di capire oggi la famigerata scadenza con cui stanno facendo i conti gli Stati Uniti

di Francesco Costa – @francescocosta

WASHINGTON, DC – DECEMBER 27: Senate Minority Leader Mitch McConnell (R-KY) (2nd from L) walks toward the Senate Chamber on Capitol Hill December 27, 2012 in Washington, DC. Senators returned to Capitol Hill on Thursday to deal with the looming “Fiscal Cliff.” (Photo by Drew Angerer/Getty Images)

WASHINGTON, DC – DECEMBER 27: Senate Minority Leader Mitch McConnell (R-KY) (2nd from L) walks toward the Senate Chamber on Capitol Hill December 27, 2012 in Washington, DC. Senators returned to Capitol Hill on Thursday to deal with the looming “Fiscal Cliff.” (Photo by Drew Angerer/Getty Images)

Negli ultimi tempi si è parlato molto del cosiddetto fiscal cliff, letteralmente baratro fiscale, e molto se ne parlerà ancora probabilmente nei prossimi giorni stando alle notizie che arrivano dagli Stati Uniti: sul Post se n’è parlato più di una volta, la prima a luglio, ma dato che si avvicina la scadenza centrale della questione può essere utile spiegarla dall’inizio.

1 gennaio 2013
A questa data è legato un bel pezzo della salute dell’economia americana del prossimo futuro. Con l’arrivo del nuovo anno, infatti, negli Stati Uniti entreranno in vigore automaticamente tagli alla spesa per un totale di 607 miliardi di dollari solo nel 2013, che andranno a colpire soprattutto i settori dei servizi sociali, della difesa e dell’istruzione. Inoltre, sempre il primo gennaio 2013 scadranno una serie di esenzioni e vantaggi fiscali in vigore da diversi anni. La famiglia media americana dall’oggi al domani si troverà a pagare oltre 3.000 dollari di tasse in più all’anno (alcuni collocano questa stima ancora più in alto). Come se non bastasse, il primo gennaio del 2013 scadrà anche il cosiddetto “tetto del debito” (ci arriviamo).

Perché si è arrivati a questa scadenza?
Parte delle esenzioni fiscali in scadenza sono quelle approvate da George W. Bush a favore delle fasce più ricche della popolazione. Contemporaneamente, però, scadranno una serie di esenzioni fiscali approvate dall’amministrazione Obama col pacchetto di stimolo all’economia approvato all’inizio del 2009, dirette soprattutto alla classe media e ai disoccupati.

Un’altra serie di tagli scatterà automaticamente in ragione dell’accordo raggiunto faticosamente durante l’estate del 2011 da democratici e repubblicani, quando si trattò di alzare il tetto fissato dalla legge per le dimensioni del debito pubblico americano, concedendo così al governo di continuare a prendere denaro in prestito. L’accordo prevedeva, tra le altre cose, che il Congresso avrebbe dovuto approvare tagli alla spesa per 98 miliardi entro la fine del 2012, altrimenti sarebbero entrati in vigore dei tagli automatici e lineari su due capitoli di spesa: servizi sociali e istruzione, cari ai democratici, e l’esercito, caro ai repubblicani. A tale scopo si insediò un cosiddetto “super comitato” – composto da 12 membri, 6 democratici e 6 repubblicani – che non riuscì a trovare un compromesso.

Di nuovo il tetto del debito
Un’altra scadenza si è accavallata a quelle di cui sopra: il ministro del Tesoro Timothy Geithner ha diffuso ieri una lettera in cui ha spiegato che il tetto massimo del debito pubblico statunitense, stabilito per legge a 16.394 miliardi di dollari, sarà raggiunto il 31 dicembre 2012 e non nel 2013, come era stato previsto mesi fa.

Spiegata meglio, come avevamo fatto l’estate scorsa: ogni paese ha bisogno di soldi. Per pagare le proprie attività, gli stipendi ai propri dipendenti, i programmi di welfare, gli investimenti in infrastrutture, i programmi di assistenza sanitaria, eccetera. In teoria questi soldi dovrebbero arrivare dalle entrate: in primo luogo dalle tasse. In pratica, però, di questi tempi e per la maggior parte dei casi, i soldi in entrata sono meno dei soldi in uscita. A fronte di questa situazione, di norma i governi prendono del denaro in prestito – da banche, fondi e investitori, attraverso i titoli – e quindi si indebitano.

Anche gli Stati Uniti hanno un debito pubblico di proporzioni non indifferenti. Negli Stati Uniti, però, per prendere denaro in prestito e indebitarsi il governo ha bisogno dell’autorizzazione del Congresso. Fino al 1917, serviva un voto del Congresso per ogni prestito. Dal 1917 si è deciso per una pratica più agile: fissare un tetto massimo di indebitamento e permettere al governo di muoversi come meglio crede all’interno di quel tetto. Se non fosse che negli anni, un po’ per l’inflazione e un po’ per la situazione dell’economia, quel tetto è stato superato più volte: tutti i presidenti americani da Truman in poi hanno visto salire il tetto del debito statunitense. Il Congresso ha alzato il tetto del debito 18 volte durante la presidenza Reagan, 8 volte durante la presidenza Clinton, 7 volte durante gli anni di George W. Bush e 4 volte fino a ora con Barack Obama alla Casa Bianca.

La cosa importante da capire è che si tratta di un tetto politico, non economico: se dovesse essere raggiunto gli Stati Uniti non potrebbero prendere più denaro in prestito e risarcire i creditori non per decisione dei mercati finanziari ma per via della loro legislazione. Andrebbero tecnicamente in default – la condizione in cui il governo di un paese non è in grado (oppure, più raramente, si rifiuta) di pagare in tutto o in parte il proprio debito – ma per ragioni politiche.

Perché è complicato trovare un accordo?
La ragione è semplice: perché dal 2010 negli Stati Uniti il Senato è a maggioranza democratica e la Camera è a maggioranza repubblicana, e un accordo per entrare in vigore dev’essere votato nella stessa forma da entrambi i rami del Congresso. Democratici e repubblicani devono mettersi d’accordo, insomma. La trattativa fin qui è stata condotta da Barack Obama e dai leader di maggioranza: John Boehner, speaker e capo dei repubblicani alla Camera, e Harry Reid, capo dei democratici al Senato.

Le posizioni in campo
Democratici e repubblicani sono ancora molto distanti. Barack Obama ha vinto le elezioni presidenziali sulla base della promessa di aumentare le tasse sull’1 per cento più ricco della popolazione – la cosiddetta “Buffett rule” – e usare quei soldi per mantenere alcune esenzioni dirette alla classe media ed evitare tagli lineari (è disponibile però a concordare su una serie di taglia alla spesa pubblica). In particolare, Obama vuole tassare di più i redditi degli americani che guadagnano più di 250 mila dollari l’anno, ritornando ai livelli di imposizione fiscale degli anni Novanta, e lasciare scadere i tagli di Bush ai ricchi.

I repubblicani si dicono disponibili alla trattativa ma insistono perché si evitino nuove entrate provenienti dalle tasse e perché ci si concentri invece sui tagli alla spesa pubblica e per un minor ruolo del governo federale nell’economia e nelle politiche sociali. Teoricamente hanno detto di essere disposti a trattare per aumentare le tasse a chi guadagna più di un milione di dollari l’anno (lo 0,3 per cento circa della popolazione) ma la settimana scorsa hanno bocciato concretamente anche questa proposta. Il fatto che questa linea sia stata sconfitta alle elezioni non sembra aver modificato il loro atteggiamento rispetto all’estate del 2011, e va tenuto conto anche del fatto che il nuovo Congresso, quello eletto lo scorso novembre, entrerà in carica soltanto a inizio 2013.

A che punto siamo
La settimana scorsa una proposta di mediazione del capo dei repubblicani, John Boehner, è stata bocciata dagli stessi deputati repubblicani, che lo hanno messo in minoranza. La proposta prevedeva proprio l’aumento delle tasse sul reddito per chi guadagna oltre un milione di dollari l’anno. Ora la partita è nelle mani del Senato – e quindi principalmente dei democratici e del loro leader Harry Reid – e della Casa Bianca. Obama è tornato in anticipo dalle vacanze di Natale nel suo stato natale, le Hawaii, e ha dato appuntamento ai leader del Congresso alla Casa Bianca per oggi alle 15 ora locale.

Bisogna tenere conto del fatto che anche se si dovesse trovare un accordo, per renderlo effettivo bisognerebbe metterlo per iscritto in una legge e farlo approvare sia dalla Camera che dal Senato: operazione che ha dei tempi tecnici non indifferenti e che se portata avanti frettolosamente potrebbe generare altri guai, tra imprecisioni e norme scritte male. Anche per questa ragione Harry Reid ieri si è detto pessimista. Il personaggio al centro della crisi resta per il momento John Boehner, però, che tra le altre cose con l’insediamento del prossimo Congresso a gennaio si gioca la rielezione a speaker della Camera: i democratici lo accusano di non voler raggiungere un compromesso prima della riconferma per non compromettere il gradimento dei deputati repubblicani nei suoi confronti, specie dopo il fallimento della sua prima proposta.

Che cosa succede se non si raggiunge un accordo?
Entreranno in vigore i tagli di cui sopra, spariranno le esenzioni fiscali di cui sopra, con l’effetto di rallentare i consumi e la ripresa economica. Le borse ne risentirebbero quasi istantaneamente, le agenzie di rating hanno minacciato nuovi declassamenti del debito statunitense, con tutte le conseguenze del caso. Senza alzare il tetto del debito, poi, gli Stati Uniti esaurirebbero rapidamente le loro risorse e non riuscirebbero più a pagare stipendi, pensioni e sussidi, nonché a restituire denaro a chi ha acquistato titoli in scadenza. L’ufficio per il budget del Congresso ha calcolato che tutto ciò con ogni probabilità farebbe finire gli Stati Uniti nuovamente in recessione.

foto: Mitch McConnell, leader dei repubblicani al Senato, ritorna al Congresso per le trattative sul fiscal cliff. (Drew Angerer/Getty Images)