La genesi di Lost

Un libro racconta come nacque la serie tv di maggiore successo degli ultimi anni, per chi vuole morire di nostalgia

BEVERLY HILLS, CA – SEPTEMBER 10: (L-R) Writers and Emmy nominees Carlton Cuse and Damon Lindelof speak at the ATAS Writers Nominee Party at the Friars Club on September 10, 2007 in Beverly Hills, California. (Photo by Amanda Edwards/Getty Images) *** Local Caption *** Carlton Cuse;Damon Lindelof

BEVERLY HILLS, CA – SEPTEMBER 10: (L-R) Writers and Emmy nominees Carlton Cuse and Damon Lindelof speak at the ATAS Writers Nominee Party at the Friars Club on September 10, 2007 in Beverly Hills, California. (Photo by Amanda Edwards/Getty Images) *** Local Caption *** Carlton Cuse;Damon Lindelof

Alan Sepinwall è un giornalista e scrittore americano che si occupa di televisione e che ha da poco pubblicato un libro dal titolo The Revolution Was Televised, in cui racconta le origini di alcune delle serie televisive più famose degli ultimi quindici anni, tra cui I Soprano, 24, Mad Men e Breaking Bad. Sepinwall racconta anche le origini di quella che probabilmente è la serie più importante degli ultimi anni, seguita da centinaia di milioni di spettatori in tutto il mondo: Lost. Il magazine online Grantland ha pubblicato un estratto del libro in cui Sepinwall racconta la genesi della serie, titolandolo in maniera eloquente “I Pretty Much Wanted to Die”. La creazione di Lost, infatti, è stata il frutto di una serie di intuizioni fortuite, di licenziamenti improvvisi, di inaspettati cambi di programma e della forte pressione a cui è stato costantemente sottoposto il suo team creativo: all’inizio e per tutta la durata della prima stagione ogni decisione fu presa con la consapevolezza che una cosa del genere non poteva essere credibile ma soprattutto non avrebbe mai potuto avere successo.

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L’idea originale della serie non venne a uno sceneggiatore o a un autore bensì a un dirigente della ABC Entertainment, Lloyd Braun, che nel 2003, mentre era in vacanza con la famiglia alla Hawaii, vide in televisione Cast Away, il film in cui Tom Hanks fa il naufrago, e immaginò una serie basata su quella storia. Braun sapeva però che una serie basata su un solo personaggio (e un pallone da pallavolo) non avrebbe potuto funzionare. Gli venne così in mente Survivor, il reality show in cui un gruppo di persone deve sopravvivere su un’isola deserta con poche risorse a disposizione. Braun aveva già in mente anche il nome che avrebbe avuto lo show: Lost.

(Un anno senza Lost)

Quando tornò dalle vacanze presentò il progetto alla ABC, attirando l’attenzione di un solo dirigente, Thom Sherman. Fu quindi ingaggiato uno sceneggiatore, Jeffrey Lieber, ma la prima stesura della sceneggiatura non convinse Braun già dalla prima pagina: l’autore aveva infatti cambiato il titolo della serie in Nowhere. Lieber venne così licenziato e Braun pensò di proporre il progetto e il soggetto scritto da Lieber all’unica persona che secondo lui sarebbe stata in grado di sviluppare al meglio la sua idea originale, J.J. Abrams, un autore che stava già lavorando per la ABC come ideatore e produttore esecutivo della serie Alias. Abrams lasciò in sospeso Braun con un «ci dormirò su» ma dopo qualche giorno lo spiazzò dicendogli «ti odio». «Perché?», gli chiese Braun. «Perché? Perché nelle ultime notti non ho fatto altro che pensare al tuo progetto».

Abrams suggerì a Braun l’idea che l’isola sarebbe dovuta essere un vero e proprio personaggio all’interno della narrazione. Secondo Braun tutta la storia avrebbe dovuto essere realistica e avere una spiegazione logica e scientifica, ma accettò comunque le proposte di Abrams. Per un po’ di tempo la serie venne accantonata perchè tutti stavano lavorando parallelamente ad altri progetti. A questo punto entrò in scena il secondo vero protagonista di questa storia, Damon Lindelof, un giovane autore che voleva a tutti i costi lavorare ad Alias al fianco di Abrams. Un dirigente del network suggerì a Lindelof, per fare colpo su Abrams, di presentargli alcune idee sulla puntata pilota di Lost, che era ancora in cantiere.

Il contributo di Lindelof fu subito essenziale: secondo lui bisognava ribaltare l’idea convenzionale che i sopravvissuti volessero abbandonare l’isola per fare ritorno a casa e quindi bisognava trovare un motivo abbastanza valido (o talmente assurdo) da far desiderare ai personaggi di rimanere in quel posto sconosciuto. Abrams fu molto colpito dalla proposta di Lindelof e a questo proposito suggerì l’idea che i sopravvissuti sarebbero potuti restare sull’isola alla ricerca di una misteriosa botola: tutta la prima stagione poteva reggersi su questo espediente. Non era ancora tempo di preoccuparsi di quello che sarebbe successo dopo.

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I due abbozzarono un progetto a grandi linee che entusiasmò Braun a tal punto da programmare le riprese del primo episodio in pochissimo tempo. L’intera produzione della puntata pilota (dalla scrittura al casting, dalle riprese al termine della post-produzione) richiese 11 settimane e mezzo, una cosa quasi senza precedenti nella storia della televisione, specie per un prodotto di quel livello. L’episodio, diviso in due parti, venne diretto dallo stesso J. J. Abrams a Oahu, nelle Hawaii, con un budget di 13 milioni di dollari, diventando l’episodio pilota più costoso di sempre per una serie televisiva.

La scena iniziale è un primissimo piano di un occhio che si apre mostrando una pupilla che si contrae; subito dopo si vede un uomo, Jack Shepard, che giace sdraiato in mezzo a una giungla. Un labrador gli passa vicino e poi sparisce fra gli alberi. Jack si alza in piedi con grande fatica e inizia a correre attraverso la giungla, fino ad arrivare su una spiaggia cosparsa di rottami di aereo, con circa una cinquantina di sopravvissuti all’incidente che urlano disperati. Da questo momento iniziamo a conoscere alcuni dei sopravvissuti del Boeing Oceanic 815 che, dopo essersi spezzato in tre parti, si è schiantato su una misteriosa isola del Pacifico: Jin e Sun, una coppia coreana che non conosce l’inglese (o forse si?); Michael e suo figlio Walt; Claire, una giovane donna incinta; uno strano uomo calvo che si chiama John Locke; Boone e la sua sorellastra Shannon; e poi Hugo, Sayid, Sawyer, Kate, Charlie, Rose. Alla fine della prima parte della puntata, durante la prima notte sull’isola, i sopravvissuti vengono svegliati da alcuni rumori assordanti provenienti dalla giungla, accompagnati dall’immagine di grossi alberi abbattuti con violenza.

Nella seconda parte della puntata vediamo già l’uso dei flashback, uno degli elementi distintivi di tutta la serie, che gioca continuamente su piani temporali diversi, e il secondo elemento di rottura rispetto al realismo della storia, ovvero la presenza di un orso polare nella giungla che viene ucciso da Sawyer. Il primo elemento era stato rappresentato nella scena dei rumori provenienti dalla giungla: si trattava del “mostro”, come lo chiameranno da questo momento in poi i sopravvissuti, una misteriosa entità che appare come una massa di fumo nero. Già dall’episodio pilota Abrams e Lindelof abbandonarono quindi il proposito di raccontare soltanto fatti scientificamente attendibili. Entrambi gli autori, grandi appassionati di fantascienza, desideravano inserire in Lost alcune tracce del loro background culturale ma allo stesso tempo non volevano spaventare il pubblico con troppi elementi paranormali, cercando di rendere tutto il più verosimile possibile.

(un’altra?)

La puntata venne trasmessa per la prima volta divisa in due parti il 22 e il 29 settembre 2004 sulla ABC e in seguito come episodio unico il 6 ottobre. Ad aprile del 2005 Lloyd Braun, il vero ideatore del progetto (è sua la voce che prima di ogni episodio recita “Previously on Lost“), venne licenziato dalla rete e sostituito da Steve McPherson. Poco dopo, a metà della prima stagione, Abrams abbandonò la serie per dedicarsi al progetto di Mission Impossible III e in seguito collaborò con il team di Lost solo saltuariamente. Damon Lindelof aveva già avuto qualche esperienza come produttore esecutivo ma non si sentiva pronto a gestire l’intera macchina dello show. Dopo aver rischiato un crollo nervoso durante la produzione dei primi episodi chiamò Carlton Cuse ad affiancarlo. Cuse, che aveva già collaborato con Lindelof alla serie Nash Bridges, ricorda così l’ideazione e la realizzazione dei primi episodi:

«La cosa bella è che c’erano pochissime persone che credevano sinceramente nel progetto. Tutti ci lasciavano soli poiché pensavano che lo show avrebbe avuto al massimo 12 episodi e poi sarebbe terminato, e questo ci dava la possibilità di creare la versione migliore possibile, quella che noi volevamo vedere. Non c’era il timore di fallire, perché in quelle circostanze fallire era l’opzione più plausibile»

La prima puntata andò benissimo, con quasi 19 milioni di spettatori, e la ABC fu molto soddisfatta. Lindelof invece reagì al successo del primo episodio in maniera drammatica:

«Terrore, depressione, attacchi d’ansia. Non sto esagerando. Tutti quelli che mi stavano intorno sapevano che avrei quasi desiderato morire»

(aprite la terza pagina in un’altra finestra, se volete continuare ad ascoltare la colonna sonora)

Il successo inaspettato dello show aveva letteralmente spiazzato i suoi creatori poiché tutto era stato realizzato in pochissimo tempo, senza alcuna aspettativa e con poche idee sul futuro. Come ha poi confessato Lindelof, fino alla messa in onda del primo episodio non era stato deciso e ideato nulla della mitologia della serie, tranne l’idea che i personaggi fossero finiti sull’isola per un motivo preciso, ovvero prendere parte a una specie di lotta tra il bene e il male. Non esistevano ancora i numeri dell’equazione di Valenzetti, le proprietà curative dell’isola, l’elettromagnetismo e gli Altri. I tratti generali della mitologia vennero abbozzati soltanto durante un campeggio che Lindelof e Cuse organizzarono per lo staff creativo dopo la fine della prima stagione. Fino ad allora la serie era stata scritta e girata episodio per episodio e si era concentrata essenzialmente sul ritratto e la costruzione narrativa dei personaggi. Durante il campeggio si iniziò a parlare per esempio della Dharma Initiative e di Jacob, il misterioso personaggio che non compare fino alla terza stagione.

(Le migliori scene di Lost)

L’episodio finale della prima stagione, Exodus, fu diretto da Jack Bender, che decise di rimarcare lo stile proposto da J. J. Abrams nell’episodio pilota. Oltre ai numerosi colpi di scena che riguardano quasi tutti i personaggi, l’episodio contiene una delle caratteristiche più importanti dell’intera serie: quella speciale inquietudine, per alcuni vera e propria ansia, generata dalla decisione degli autori di lasciare in sospeso e irrisolta la questione centrale della storia (decisione considerata crudele, se non addirittura sadica, dalla maggior parte degli spettatori). Tutta la prima stagione ruota infatti sulla presenza di questa misteriosa botola che appare per la prima volta nell’undicesimo episodio. Durante l’ultima scena dell’episodio finale Jack e John, che dopo varie disavventure sono riusciti ad aprire la botola facendone esplodere il portellone, si affacciano finalmente sullo stretto tunnel di luce che si estende sotto di loro, danno un’occhiata e… Stop, fine dell’episodio. Cosa conteneva la misteriosa botola si sarebbe scoperto solo nella stagione successiva. «Cosa c’è dentro la botola di Lost?» fu la domanda dei mesi passati tra la fine della prima stagione e l’inizio della seconda.

La reazione di parte del pubblico fu a metà strada tra la delusione e la rabbia. «Come avete potuto farci una cosa del genere?», era la domanda rivolta più spesso ai due ideatori. Da quel momento in poi Lost, con i suoi 114 episodi divisi in 6 stagioni, avrebbe conosciuto un successo inaspettato e clamoroso ricevendo diversi riconoscimenti, tra cui un Golden Globe e tre Emmy Award, dando vita a una serie infinita di prodotti paralleli come videogiochi, libri e alternate reality game, ma soprattutto entrando nell’immaginario e nella cultura popolare mondiale. Lindelof descrive così i giorni che seguirono la messa in onda dell’ultimo episodio della prima stagione:

«Quell’estate fu straordinaria. In vita mia non mi era mai successo niente del genere. Poteva capitarmi di andare a colazione fuori con mia moglie e sentire i nostri vicini di tavolo domandarsi “Cosa pensi ci sia nella botola?” Il fatto che io fossi una delle dieci persone al mondo a conoscere la risposta a quella domanda era molto fico.»

Nella foto: Carlton Cuse e Damon Lindelof (Amanda Edwards/Getty Images)