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  • Sabato 22 settembre 2012

Le proteste contro le milizie islamiche in Libia

Ieri una manifestazione pro-statunitense ha attaccato le basi dei miliziani islamici, causando 11 morti e 60 feriti: intanto, ci si chiede quale sarà il futuro del paese

Libyan civilians celebrate the raiding of Ansar al-Shariah Brigades compound, after hundreds of Libyans, Libyan Military, and Police raided the Brigades base, in Benghazi, Libya, Friday, Sept. 21, 2012. The recent attack that killed the U.S. ambassador and three other Americans has sparked a backlash among frustrated Libyans against the heavily armed gunmen, including Islamic extremists, who run rampant in their cities. More than 10,000 people poured into a main boulevard of Benghazi, demanding that militias disband as the public tries to do what Libya’s weak central government has been unable to. (AP Photo/Mohammad Hannon)

Libyan civilians celebrate the raiding of Ansar al-Shariah Brigades compound, after hundreds of Libyans, Libyan Military, and Police raided the Brigades base, in Benghazi, Libya, Friday, Sept. 21, 2012. The recent attack that killed the U.S. ambassador and three other Americans has sparked a backlash among frustrated Libyans against the heavily armed gunmen, including Islamic extremists, who run rampant in their cities. More than 10,000 people poured into a main boulevard of Benghazi, demanding that militias disband as the public tries to do what Libya’s weak central government has been unable to. (AP Photo/Mohammad Hannon)

Aggiornamento, ore 16.00: il bilancio degli scontri a Bengasi è salito a 11 morti e 60 feriti. Il gruppo islamico Ansar al-Sharia ha annunciato oggi tramite un portavoce di aver evacuato le sue basi nella città per motivi di sicurezza. La milizia è stata collegata all’attacco al consolato di Bengasi, ma ha ufficialmente negato ogni coinvolgimento.

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Ieri, a Bengasi, un corteo formato da migliaia di manifestanti ha attaccato le sedi di alcuni gruppi islamici: in particolare quella della milizia Ansar al-Sharia, che sembra essere coinvolta nell’assalto della sede diplomatica statunitense dell’11 settembre scorso, per le conseguenze del quale morì l’ambasciatore J. Christopher Stevens e tre funzionari statunitensi che lavoravano con lui.

(Che cosa non ha funzionato a Bengasi)

Secondo quanto riporta Al Jazeera, i manifestanti sono entrati ieri sera nel quartier generale di Ansar al-Sharia urlando slogan contro Al Qaida, mettendo in fuga i miliziani e dando fuoco a un’autovettura. Subito dopo, i manifestanti si sono diretti verso un altro edificio, sede della milizia Rafallah Sehati. Il bilancio degli scontri, scrive oggi BBC, è stato di almeno 4 morti e circa 20 feriti. Secondo quanto afferma il New York Times, tra i manifestanti che hanno organizzato e condotto l’attacco potrebbero esserci stati anche degli agenti di polizia e dei militari.

Come spiega il New York Times, la causa degli scontri di questo venerdì non può essere individuata semplicemente nella rabbia scatenata in una parte della popolazione dalla morte di Christopher Stevens, che aveva lavorato a stretto contatto con i ribelli contro Gheddafi ed era quindi un uomo molto rispettato dai libici. Il problema infatti sarebbero le milizie in sé, che da quando Gheddafi è stato ucciso nell’ottobre del 2011 hanno allargato il proprio controllo sul territorio e hanno tentato di imporre la propria autorità al nuovo governo.

Questo scenario è parzialmente confermato dagli slogan, dai manifesti e dalle testimonianze raccolte ieri dal corrispondente di Al Jazeera tra i manifestanti. Uno dei testimoni intervistati, che si chiama Hassan Ahmed, ha rilasciato una dichiarazione interessante:

«Dopo ciò che è successo al consolato statunitense, la popolazione di Bengasi ne ha abbastanza degli estremisti. Non sono fedeli all’esercito, così la gente è entrata e loro sono fuggiti. Questo posto è come la Bastiglia. È da qui che Gheddafi controllava la Libia, poi l’hanno utilizzata i miliziani di Ansar al-Sharia. Per questo oggi rappresenta un punto di svolta per la popolazione di Bengasi.»

Lo scenario che si sta profilando in Libia in queste ultime settimane pare essere tornato instabile. Secondo il New York Times, in questo momento si aprono due possibilità. La prima è che queste manifestazioni contro le milizie possano essere sfruttate dal governo per consolidare il proprio potere. La seconda è il suo esatto opposto, ovvero che questi scontri riportino la Libia alla guerra civile.

Eppure, nonostante i timori e le violenze, c’è chi pensa che la situazione in Libia stia migliorando. Il settimanale britannico Economist, per esempio, ha scritto che, malgrado l’attacco all’ambasciata statunitense che ha portato alla morte di Stevens e malgrado il fatto che il governo fatichi ancora a imporre il proprio controllo sul paese, sono molti gli elementi che possono far ben sperare, in particolare a livello politico.

Tra i fattori che fanno sperare in una evoluzione positiva, secondo l’Economist, c’è per esempio il fatto che il congresso nazionale abbia eletto come primo ministro Mustafa Abushagur, un professore di ingegneria elettrica che viveva in California, un laico che era in esilio da 31 anni e che dovrebbe presto presiedere il primo governo eletto democraticamente della storia della Libia. Un altro aspetto positivo è che il partito islamista di Giustizia e Costituzione, alleato con i Fratelli Musulmani, ha preso alle elezioni soltanto 17 seggi su 80, mentre la coalizione tra islamici moderati, liberali e laici ne ha conquistati 39.

L’Economist chiude il proprio articolo citando i tre possibili scenari futuri per la Libia secondo un ex ambasciatore occidentale (di cui però non hanno rivelato il nome). La prima è quella più ottimista e, secondo il diplomatico, ha il 30 per cento delle possibilità di realizzarsi: una ripresa della produzione petrolifera e di conseguenza del mercato, che possa portare alla nascita di uno governo democratico. La seconda, data dall’anonimo ambasciatore al 20 per cento, è la spirale della violenza, il disastro di una guerra civile tra bande. La terza, che è quella data come più probabile, al 50 per cento, è in realtà una via di mezzo: ovvero, per qualche tempo si andrà avanti così, con politiche un po’ confusionarie e sporadiche violenze.

Foto: AP Photo/Mohammad Hannon