I neri sono più veloci dei bianchi?
Può stupire, ma è come chiedersi se gli ebrei sono più bravi a basket
di Giovanni Zagni
Il record mondiale di velocità sui 100 metri piani è detenuto da atleti neri dal 1968, e anche guardando le ultime Olimpiadi tutti si saranno chiesti almeno una volta perché le batterie dei 100 e dei 200 metri sono dominate da atleti neri. Il primo e unico atleta bianco ad aver corso i 100 metri in meno di 10 secondi, nel 2010, è il francese Cristophe Lemaitre.
(La storia dei 100 metri piani)
E quindi, perché i neri sono più veloci dei bianchi? Tra l’altro la domanda è collegata ad altre molto simili: perché i corridori che vincono sulle lunghe distanze sono spesso keniani o etiopi? Perché i nuotatori sono quasi sempre bianchi? Nello sport sembrano esserci alcune differenze evidenti nelle capacità, basate sull’appartenenza etnica. Si tratta di una questione difficile da risolvere e con poche risposte certe, ma qualcosa si può dire. Guardando a quello che è successo in passato emergono anche diverse sorprese e si sfatano alcuni miti.
La questione e il razzismo
Precisazione necessaria: si tratta di un argomento molto spinoso e spesso non affrontato, anche deliberatamente, dato che negli ultimi anni si è dato molto spazio all’evidenza scientifica sull’inconsistenza del concetto di “razza”, e in secondo luogo dato che avanzare la possibilità che i bianchi o gli orientali o i neri abbiano differenze sul piano fisico può aprire la strada, come è stato fatto in passato in modo discriminatorio, a considerare differenze anche sul piano psicologico.
Nelle rappresentazioni razziste europee e americane, che durarono secoli, fino a tutta la prima metà del Novecento, l’opposizione che veniva fatta abitualmente era tra la “forza bruta” delle popolazioni nere africane e invece l’intelligenza dell’uomo bianco. Ma come ha scritto un giornalista statunitense, John Entine, in un libro importante sul tema della diversità etnica nello sport – molto discusso e intitolato non a caso Taboo – le differenze genetiche sul piano fisico non c’entrano nulla con la genetica dell’intelligenza. Oltre a questo, i fattori ambientali come l’educazione, la famiglia, il contesto sociale sono potenzialmente in grado di annullare benissimo gli effetti che vengono dai geni. Fatte queste precisazioni, possiamo continuare.
Le tradizioni sociali
La prima osservazione è che nella pratica sportiva c’è sempre un elemento storico, sociale e geografico: negli stati in cui c’è una grande diversità etnica, in primo luogo negli Stati Uniti, alcuni sport sono oggi tradizionalmente più praticati dai bianchi, come il golf o la pallavolo (nella nazionale statunitense di pallavolo alle Olimpiadi di Londra non c’è nessun nero).
Altri sport sono più diffusi in alcune zone del mondo e non praticati o quasi in altre (qualcuno ha detto India?), ma il tutto, bisogna aggiungere, dipende anche dal periodo storico e quelle divisioni possono cambiare. Per fare uno degli esempi più notevoli, negli anni Trenta si credeva che il basket fosse uno sport da ebrei, e si sosteneva questo dato di fatto – i migliori giocatori del tempo erano effettivamente ebrei, mentre oggi l’80 per cento dei giocatori dell’NBA sono neri – con pseudomotivazioni psicologiche e biologiche (maggior equilibrio, maggiore velocità, vista migliore rispetto agli altri, “scaltrezza”). Le motivazioni erano molto probabilmente altre, dato che il basket è uno sport “cittadino” e allora le città statunitensi avevano un alto numero di immigrati di origine ebraica, ma diversità fisiche, all’occorrenza, si trovavano anche allora.
Oggi come allora, le eccezioni notevoli si notano, e anche il valore di “esempio” che si pensa che abbiano queste eccezioni si dimostra meno forte di tradizioni consolidate. Prendiamo il caso di Tiger Woods, il golfista nero che è stato per anni uno degli sportivi più celebri del mondo, prima che le sue infedeltà coniugali e alcuni infortuni non ne mettessero seriamente a rischio la carriera a fine 2009. Il golf è tradizionalmente considerato uno sport per bianchi, maschi, ricchi e piuttosto in là con gli anni: quindici anni di Woods ai massimi livelli non sembrano aver aumentato né il numero di giocatori neri – o delle donne, se è per questo – nei tornei principali, né abbassato l’età media, né reso il golf uno sport più popolare. Un altro esempio è quello dei nuotatori: nella squadra di nuoto degli Stati Uniti, una delle più competitive nella storia della disciplina, ci sono stati solamente tre nuotatori neri (uno di questi, che è anche il secondo nero americano ad aver migliorato un record mondiale, è Cullen Jones, che è anche a Londra).
La maggioranza di atleti neri ai massimi livelli dell’atletica, quindi, potrebbe avere semplicemente una motivazione sociale, e spiegarsi con il fatto che in alcuni gruppi sociali o in alcuni paesi si praticano diffusamente alcuni sport e non altri, in questo periodo storico. Vedremo perché questa sembra essere la spiegazione più convincente.
La struttura fisica
Un’altra risposta, quella che viene data più frequentemente, è che tra le popolazioni nere e quelle bianche ci sia una diversità nelle caratteristiche fisiche, che risale a una diversità nel patrimonio genetico.
Durante le finali di atletica di ieri sera, i commentatori di Rai2 si sono fatti una domanda simile a quelle a cui stiamo cercando una risposta qui, ovvero perché ai blocchi di partenza delle semifinali dei 200 metri piani femminili ci fossero tante atlete provenienti dai Caraibi (nove su 24). Il commentatore tecnico ha spiegato la cosa con il fatto che la presenza della popolazione nera nei Caraibi risale alle deportazioni di popolazioni africane da parte dei colonizzatori europei nelle piantagioni. Durante il trasporto attraverso l’Atlantico la mortalità tra le popolazioni deportate era altissima, e altrettanto alta lo era nelle piantagioni, motivo per cui si sarebbe selezionata una “razza superiore” – sono state le parole del commentatore – dal fisico particolarmente resistente.
L’argomento è assurdo, dato che i geni della resistenza alle malattie o altri che potrebbero essere stati selezionati durante le deportazioni – che dal punto di vista strettamente “biologico” sono durate un tempo eccezionalmente breve, appena 4 o 5 generazioni – non sembrano avere nulla a che fare con quelli che danno la forza esplosiva nelle gambe o che hanno a che fare con la velocità nella corsa.
A parte quindi le motivazioni palesemente infondate, ci sono state ricerche che hanno avanzato un’altra possibilità: la diversa composizione delle fibre muscolari tra le popolazioni dell’Africa occidentale rispetto a quelle del resto del mondo. In particolare, secondo queste ricerche, nell’Africa occidentale ci sarebbe una maggior percentuale di fibre muscolari a contrazione veloce, o fibre bianche, uno dei due tipi principali di fibra muscolare. Le fibre bianche si contraggono rapidamente, ma sono poco resistenti alla fatica, al contrario invece delle fibre rosse (quelle più sollecitate da un maratoneta), e sono quindi i muscoli più “utili” per le gare di velocità.
In modo simile, altre ricerche hanno provato a dimostrare la presenza di caratteristiche particolari nelle popolazioni dell’Africa orientale, da dove provengono i corridori più forti sulle lunghe distanze: le caratteristiche sono numerose, da più enzimi produttori di energia nei muscoli o un processo di ossigenazione del sangue più efficiente, da una maggior percentuale di fibre rosse nei muscoli, a gambe più lunghe e a una maggiore capacità polmonare.
Queste ricerche sono però piuttosto discusse e hanno bisogno di numerose precisazioni. In primo luogo, non esiste un patrimonio genetico “dei neri” e un patrimonio genetico “dei bianchi”. Tra i diversi gruppi etnici, presi nel loro complesso, c’è minore variazione nel patrimonio genetico rispetto alla variazione all’interno degli stessi gruppi (rispettivamente 15 per cento e 85 per cento).
Bisogna poi specificare che, se anche le differenze genetiche fossero così forti e così decisive, in pratica queste non si traducono in successi sportivi corrispondenti. Nella maratona, per esempio, è piuttosto comune parlare di dominio degli atleti che provengono dall’Africa orientale; ma sarebbe più giusto parlare del Kenya, e veramente corretto parlare di persone che vengono da una piccola regione della Rift Valley, chiamata Nandi, e da una tribù in particolare, di 4,4 milioni di persone (il Kenya ne ha oltre 40) che si chiama Kalenjin. Come ha scritto Matthew Syed, autore di un altro libro sul tema, “il fenomeno della corsa sulle lunghe distanze, diversamente dall’essere una questione di ‘neri’, o perfino di keniani, è in realtà una questione del Nandi.”
Si tratta di una popolazione che vive normalmente in villaggi tra i 1.500 e i 2.400 metri di altezza e che è solita spostarsi da un posto all’altro a piedi, vista la mancanza di strutture e di mezzi di trasporto, e che ha una cultura che sottolinea l’indipendenza personale e la resistenza fisica. Anche in questo caso, quindi, la cultura e le abitudini giocano un ruolo importante, al di là delle eventuali caratteristiche genetiche, che non sono comunque state dimostrate in modo definitivo. E prima dei keniani, gli atleti che dominavano nelle corse sulla lunga distanza sono stati… gli scandinavi.
Venendo alla questione dei primatisti nei 100 metri piani, si può fare un’analisi simile. Il fenomeno riguarda, più che “i neri” o “gli africani occidentali”, i neri statunitensi e i giamaicani. In Giamaica, è bene precisarlo, la corsa su brevi distanze è uno degli sport nazionali e ha un grande seguito. Ad ogni modo, anche in tempi recenti sono state avanzate ipotesi scientifiche sulla base di una diversità biologica: in particolare, una ricerca del 2010, molto citata e discussa, in cui due professori statunitensi hanno analizzato i dati provenienti dalle documentazioni militari di diversi paesi e hanno concluso che le popolazioni nere dell’Africa occidentale – quelle zone da cui discendono la gran parte dei neri americani – hanno un baricentro mediamente più alto del 3 per cento rispetto alla popolazione bianca, il che darebbe loro un vantaggio medio di circa 0,15 secondi.
Il prossimo caso da spiegare
In conclusione: la predominanza dei neri in alcuni sport è un fenomeno storico, che si è verificato in modo sensibile a partire dagli anni Sessanta. Le differenze sul piano fisico ci possono essere, ma non sono ancora state dimostrate in modo incontrovertibile, e pongono tutta una serie di problemi di delimitazioni e definizioni che fanno dubitare che si arrivi mai a qualche conclusione certa e incontrovertibile. Quando si parla del predominio dei bianchi nel nuoto, per esempio, sembra contare di più il fatto di avere a disposizione una piscina.
Ma prima del predominio dei neri – volendo ostinarsi a fare una distinzione solo sulla base del colore della pelle, che fa acqua da tutte le parti – ce ne sono stati altri, e in futuro ce ne saranno altri ancora: avete dato un’occhiata a qual è il primo paese del medagliere a Londra 2012? Non è un paese africano e non è un paese occidentale. È il paese che ha avuto la maggior crescita economica degli ultimi decenni, ha uno Stato che ci tiene a fare bella figura e ha i soldi per pagare i migliori allenatori del mondo (spesso europei o americani). Fino a poche edizioni fa vinceva molto meno: nel 1988 era all’undicesimo posto del medagliere, nel 2000 era al terzo, oggi è al primo. Tenetelo a mente, quando uscirà il primo articolo sulla predisposizione genetica dei cinesi per i tuffi.
foto: Cameron Spencer/Getty Images