“Il diavolo, probabilmente”

Gianni De Gennaro e il processo per le violenze alla scuola Diaz, raccontati nel libro di Marco Imarisio "La ferita"

** FILE ** Italian Police chief Gianni De Gennaro gestures as he is chased by journalists, in Catania, Sicily, in this Feb. 3, 2007 file photo. De Gennaro has been put under investigation for alleged instigation to false testimony in the ongoing inquiry on a police raid and abuse against anti-globalization protesters at the Diaz school during the G8 summit in Genoa, Italy, in 2001, which left one protester shot dead and more than 200 injured, Italian news reported on Thursday, June 21, 2007. (AP Photo/Francesco Saya, files)
** FILE ** Italian Police chief Gianni De Gennaro gestures as he is chased by journalists, in Catania, Sicily, in this Feb. 3, 2007 file photo. De Gennaro has been put under investigation for alleged instigation to false testimony in the ongoing inquiry on a police raid and abuse against anti-globalization protesters at the Diaz school during the G8 summit in Genoa, Italy, in 2001, which left one protester shot dead and more than 200 injured, Italian news reported on Thursday, June 21, 2007. (AP Photo/Francesco Saya, files)

La ferita è il libro di Marco Imarisio, giornalista del Corriere della Sera, sul movimento “no global” italiano e la sua crisi a partire dai giorni e dalle violenze del G8 di Genova, che Imarisio aveva seguito intensamente. Dopo la sentenza che ha confermato le condanne per i responsabili della polizia che guidarono le aggressioni nella scuola Diaz e ne occultarono le prove, e le discusse parole del sottosegretario Gianni De Gennaro, vale la pena leggere il racconto di Imarisio su quel processo e i ruoli degli imputati, compreso De Gennaro.

“Vergogna, vergogna.” Sembra di essere ancora ai cancelli della scuola. Con le stesse persone, gli stessi cori, in più solo la stanchezza e la frustrazione di un’attesa lunghissima e vana. E le facce stravolte, oggi come allora. Fa male vedere un vecchio che urla e singhiozza, inveisce contro lo stato italiano. Si chiama Arnaldo Cestaro, grida in equilibrio precario su due sedie dell’aula bunker. Quella notte uscì in barella dalla scuola. Aveva un braccio e una gamba fratturati. Il dolore gli contraeva la faccia in una specie di ghigno. Sembrava che ridesse, ma c’erano i suoi occhi spalancati e vitrei. Un urlo muto. Doveva veramente essere successo qualcosa di tremendo.

Che brutta la nuova notte della Diaz. Senza speranza, senza pietà. Così identica alla prima, al 21 luglio 2001. Mancano soltanto i lampeggianti e il cordone di giovani carabinieri spaventati che tenevano lontano la folla che premeva, voleva capire cos’erano quelle urla che uscivano dalla scuola. Tutti in quella strada stretta, aggrappati all’inferriata dei cancelli di fronte, spettatori consapevoli di una situazione completamente fuori controllo. Non ricordo chi fu il primo a saperlo
Eravamo tutti nella stessa situazione, a cena oppure in albergo, il maledetto G8 era ormai finito, dopo un’altra giornata furiosa. Arrivò una telefonata: stanno perquisendo una scuola, hai mai sentito parlare di questa Diaz, che dici, lo so che siete stanchi ma andate a dare un’occhiata?
Nel cortile c’era un gruppo di funzionari, dovevano essere i capi. Giacca, cravatta e casco in testa. Uno di loro, un uomo alto dalla barba curata, sembrava fuori di sé. Imprecava, sbatteva il casco a terra. Alcuni giornalisti che lo conoscevano si erano avvicinati. “Calma Ciccio, stai calmo, ci sono le telecamere.” Era Francesco Gratteri, il capo del Servizio centrale operativo. L’uomo che aveva catturato Giovanni Brusca, l’assassino di Giovanni Falcone.

Un altro funzionario si era allontanato da poco, e quello lo conoscevano in tanti. Si chiamava Arnaldo La Barbera, era considerato una leggenda della polizia. Nell’autunno del 2002 sedeva su una panca nel corridoio della procura. Smunto e smagrito, l’espressione persa nel vuoto, aspettava il suo turno per essere interrogato. Quando lo chiamarono, cercò di alzarsi ma non ce la fece. La porta del pubblico ministero era distante un paio di metri. Dovettero sorreggerlo per fargli fare pochi passi. Ero a cena con un funzionario della Digos di Genova quando arrivò la notizia della sua morte. Rimase in silenzio a guardare fisso il piatto di trenette al pesto, ancora fumante. Passarono un paio di minuti. Scusa, mi disse, ma non credo tu possa capire. Io ho cominciato a fare questo mestiere per lui, perché volevo essere come lui.

Cominciarono a uscire le barelle dalla scuola. Una dopo l’altra. Un ragazzo dai capelli neri era riverso su un fianco, svenuto, la maglietta lacerata e intrisa di sangue. Una ragazza con i dreadlock che sembrava morta, il braccio destro le penzolava dalla lettiga, aveva le guance imbrattate di sangue. E poi gli altri. A ogni apparizione la situazione diventava sempre più chiara, il perché di quelle urla che uscivano dalle finestre al primo piano sempre più lampante. C’era una tensione pazzesca. Le ambulanze attendevano in fondo alla strada perché nella calca sudata e stravolta non si apriva lo spazio per lasciarle passare. E quel coro che diventava sempre più martellante. “Assassini, assassini.”
Anche adesso qualcuno prova a intonarlo, con i commessi del tribunale che si mettono di mezzo, la smetta subito, qui non si può fare. Qualcuno cerca di lanciarsi in avanti per agguantare il presidente del tribunale Gabrio Barone che ha appena finito di leggere la sentenza ed esce con un sorriso beffardo sul volto. Abbastanza soddisfatto, perché quella sera gioca la sua squadra del cuore. Uno sguardo all’orologio cancella i timori. Se corre veloce dovrebbe essere a casa per la ripresa di Juventus-Genoa.
Un caldo folle, rabbia e lacrime sui volti delle vittime, ormai convinte di avere sbagliato ad affidarsi alla giustizia italiana. Lena, la ragazza con i dreadlock che sembrava morta, guarda attonita lo spettacolo. Scuote la testa, è tedesca, devono tradurle quel che è appena risuonato nell’aula bunker. Tredici condanne, quelle che non contano nulla, ai capi pattuglia che diressero l’irruzione nella scuola. Sedici assoluzioni, tutti gli altri funzionari di polizia, quelli che stavano nel cortile, sono innocenti. Alle vittime lo sfregio di risarcimenti irrisori, esattamente un decimo di quello che avevano chiesto le parti civili.

Lena fa una faccia come a dire adesso ho capito, non mi aspettavo niente di meglio, sono venuta dalla Germania ma lo sapevo che finiva così. Accanto a lei un avvocato compassato come Vittorio Lerici che butta la toga in terra per la delusione, i reduci No global spaesati e umiliati. Forse anche spaventati. Oggi come allora. Le urla, le ferite ancora aperte, il senso di ingiustizia per quel che è appena avvenuto. I difensori degli imputati vanno via alla svelta, quasi dovessero portare al sicuro la refurtiva. Due Italie, una sempre più forte dell’altra.

“Noi speriamo che la vostra sentenza riporti alla luce un principio fondamentale della democrazia, quello che prevede il rispetto delle regole da parte della polizia, sempre e comunque.”
Era cominciata così, la lunghissima requisitoria che concludeva il processo per i fatti avvenuti alla scuola Diaz. Sappiate tutti di cosa si sta parlando, qual è la posta in gioco. Il senso della storia va oltre le singole responsabilità. Una questione di principio. I magistrati sono convinti fin dall’inizio che la notte della Diaz abbia messo in evidenza una malattia della nostra polizia di stato. C’è stato il massacro, è agli atti, nessuno lo può negare. Quella notte provò a farlo Roberto Sgalla, il portavoce del Viminale. Davanti alle barelle che uscivano dalla scuola raccontava ai giornalisti che si trattava di ferite pregresse, gente che si era fatta male durante gli scontri. “Li stiamo aiutando, credetemi.” Brutto mestiere quello del portavoce.

Dopo vennero le indagini, e la scoperta delle molotov false, le due bottiglie di Colli piacentini e Gutturnio che il mattino dopo il blitz stavano al centro della tavola imbandita in questura per cronisti e fotografi. Guardate le prove contro i manifestanti che abbiamo arrestato, lo vedete che quella irruzione era necessaria, doverosa? I funzionari presenti alla conferenza stampa sembravano a disagio. L’esibizione di utensili vari, compresi i picconi e i rastrelli prelevati dal cantiere nel cortile della scuola, appariva posticcia. Un quadro dipinto male, con colori sfocati laddove invece dovevano risultare nitidi.

Il sintomo della malattia è coprire un errore con altri errori, metterci consapevolezza nel farlo. Secondo i magistrati, la Diaz è una vicenda nella quale i comportamenti devianti dei singoli sono stati commessi all’interno di un gruppo che considera la legge “come un intralcio al suo operare”. Nella requisitoria finale si denuncia l’esistenza di una sottocultura da “Dio è con noi”. Un malinteso spirito di corpo che, quella notte, ha messo in moto un meccanismo alimentato dalla necessità di ovviare all’operato violento e fallimentare della Celere romana comandata da Vincenzo Canterini. Uomini che non avevano avuto una guida adeguata e sentivano addosso il compito di riscattare l’immagine della polizia, offuscata da due giorni di scontri. L’hanno fatto a modo loro, i referti medici parlano chiaro.
Davanti al disastro, alle ossa dei manifestanti fracassate dalle manganellate, nei funzionari all’epoca più vicini ai vertici della polizia doveva emergere il senso dello stato, non un istinto di autoconservazione coniugato con la certezza di ritenersi al di sopra delle leggi. “Da questo humus morale e culturale è nata la convinzione che aggiustare gli elementi di prova possa far parte del fine ultimo delle forze di polizia. Sono comportamenti che minacciano la democrazia molto più delle molotov lanciate in quei giorni.”

Non è un paradosso. Se il criminale delinque, è nell’ordine delle cose. Se lo fa il poliziotto, salta tutto, e raddoppia la gravità del comportamento illegale.
È un’inchiesta impopolare e urticante, quella sulla Diaz. Come tutte le inchieste che riguardano la polizia. Lord Alfred Denning (1899-1999) fu un eroe di guerra, un matematico di rilievo, e uno dei più importanti giudici inglesi. Lo chiamavano “il giudice del popolo” per il suo impegno nelle cause civili, le sue modifiche alla common law furono sempre di stampo progressista, tanto da essere spesso annullate dalla Camera dei Lord. Nel 1980 fu chiamato a giudicare sull’ennesimo appello proposto dai “Birmingham Six”, i sei militanti dell’Ira condannati nel 1975 all’ergastolo per aver fatto esplodere un pub nella città del Nord dell’Inghilterra. Ventuno morti, centosessantadue feriti, il crimine più odioso mai commesso dai repubblicani irlandesi sul suolo inglese. Continuavano a dire di essere innocenti, sostenevano che le prove contro di loro erano false, avevano denunciato gli agenti che li avevano arrestati.
Le loro accuse contro la polizia delle West Midlands vennero archiviate da lord Denning. “Provate a pensare se il loro ricorso venisse accolto. Se lo vincessero, significherebbe una sola cosa: che la polizia di questa nazione è colpevole di spergiuro. È colpevole di violenza e minacce. Che le confessioni rese dagli imputati sono state estorte e impropriamente ammesse come prova. E che tutte le accuse nei loro confronti, per le quali sono stati condannati, erano sbagliate. Questo sarebbe uno scenario che turberebbe qualunque persona sensibile e onesta, una verità troppo dura da accettare.” I sei di Birmingham dovettero aspettare ancora undici anni per vedere riconosciuta la loro innocenza. Lord Denning non rinnegò mai la sua decisione.

Enrico Zucca è un uomo che coltiva la propria solitudine. Non segue. Non si accoda agli altri. Gli viene naturale, è fatto così. Nel luglio del 2001 è uno dei pochi magistrati che non si offrono volontari per entrare nel pool G8, che avrebbe dovuto giudicare i reati dei manifestanti. Così si scriveva, sembrava impensabile che potesse essere la polizia a commetterne altri, più gravi. Quando la procura viene sommersa dagli eventi, gli tocca in sorte l’irruzione alla scuola Diaz. Non è uno sconosciuto, Zucca. Pochi anni prima ha condotto le indagini sul serial killer Donato Bilancia, sospettato di aver ucciso diciassette persone. Lo arrestano dopo aver rubato di nascosto una tazzina di caffè dalla quale ha appena bevuto in un bar di Genova. Confrontano il Dna con quello trovato sui corpi delle vittime: è lui. Non può restare in libertà un minuto di più. Nelle ultime settimane la sua follia è deflagrata, semina morte in ogni dove. C’è un problema: quella prova non è utilizzabile in un processo. Non resta che il parziale riconoscimento di una donna sfuggita all’agguato. Bilancia non deve uscire, ma potrebbe succedere che non si riesca a tenerlo dentro. Il 14 maggio 1998 si siede davanti a Zucca. Confessa tutto. Il pubblico ministero dalla barba e dai capelli precocemente bianchi diventa un beniamino delle forze dell’ordine, è considerato uno con il quale si lavora bene, gli viene rimproverata soltanto un’eccessiva rudezza durante gli interrogatori. Fa parte del suo carattere. Se ritiene di essere preso in giro, si impunta. Reagisce.

Zucca veste quasi sempre di nero. Nelle filosofie orientali è il colore della conservazione. Della propria identità, del proprio modo di essere. Una rivendicazione di autonomia. Magari sbaglia, ma lo fa in proprio. Durante le indagini sulla scuola Diaz, sono troppi quelli che gli dicono cosa deve fare, come deve muoversi. Interroga persone che non si limitano a rispondere. Suggeriscono strategie. Sono poliziotti importanti, forse è anche comprensibile. Il magistrato si ostina a considerarli solo degli indagati. Per favore, si limiti a rispondere alla mia domanda. Quando scopre le false molotov capisce che dovranno fare da soli. Lui, e Francesco Albini Cardona, l’altro magistrato che segue l’indagine.
Nel dicembre 2002 va a Roma per sentire Gianni De Gennaro, il capo della polizia. Non è indagato, è solo un testimone. Il colloquio dura cinquanta minuti, senza particolari tensioni. Una volta letto e sottoscritto il verbale, De Gennaro si avvia verso la porta. Mette una mano sulla spalla di Zucca. “Mi creda, non c’è stato alcun dolo da parte nostra.” Il magistrato è convinto del contrario. Considera quella frase come un altro suggerimento, l’invito a delimitare il proprio recinto.
Due anni dopo chiederà il rinvio a giudizio dei principali funzionari coinvolti nella gestione del blitz. La richiesta non è firmata dai vertici della procura, che non ne condividono le conclusioni. All’improvviso Zucca non è più un magistrato simpatico con il quale si lavora bene. All’improvviso comincia a essere dipinto come un pazzo. Indiscrezioni, commenti tra addetti ai lavori, anche tra i suoi colleghi. Uno con gli occhi spiritati, che ormai non parla più al telefono, convinto di essere intercettato. Il suo ufficio profuma di incenso, c’è sempre una tavoletta accesa. Non è possibile che un pubblico ministero tenga la foto di Bruce Springsteen dietro alla scrivania. Su un giornale compare un articolo che rivela la sua passione per lo yoga. L’intento non è celebrativo.

Il processo dura quattro anni e centocinquanta udienze, tutte cattive, rancorose, con scontri aspri. Il 2 maggio 2007 viene chiamato a deporre Antonio Manganelli, ormai prossimo a diventare capo della polizia al posto di Gianni De Gennaro. Il confronto con Zucca è teso. Il testimone si rivela ostile, allineato alle tesi difensive. “Lei non può venire qui a dire che non si ricorda, che non c’era.” “Lei non può trattarmi come un imputato, non le permetto di parlarmi così.” Il giorno seguente tocca all’ex questore Colucci. Dovrebbe soltanto ripetere quanto detto durante le indagini. Fu De Gennaro a chiamare il portavoce Sgalla per mandarlo davanti alla scuola Diaz. Invece cambia versione. È stata una mia idea, dice. I magistrati non fanno una piega. Sapevano già che sarebbe andata così. Colucci è stato ascoltato mentre parla con una persona coinvolta in un’altra inchiesta, che ha il telefono sotto controllo. Afferma che è il capo ad avergli suggerito questa capriola. “C’è bisogno di dare una mano ai colleghi,” gli avrebbe detto. De Gennaro verrà indagato per istigazione alla falsa testimonianza.

Colucci è un tipo piuttosto loquace. In quei giorni sembra in preda all’euforia, si sente riabilitato. Le intercettazioni con i suoi colleghi rivelano l’esistenza di un pensiero unico nei confronti di Zucca. “Manganelli stamattina m’ha detto: dobbiamo dargli una bella botta, a ’sto magistrato.” “Quei pm sono gentaglia, uno di loro è uno squilibrato.” “È un pezzo di merda con lo sguardo da pazzo.” “Il pm è un matto, un mascalzone.”
La solitudine deve essere una scelta, altrimenti diventa isolamento, produce cattivi pensieri, mette alla prova i nervi e l’anima. Il processo Diaz pesa sulle spalle di due magistrati. Centocinquanta udienze, e mai una volta che si sia presentato il loro capo. Il presidente del tribunale li richiama spesso, eccepisce sulle domande che rivolgono ai testimoni, invita Zucca a moderare i toni. I difensori degli imputati sentono di essere padroni di quell’aula. Giocano sui nervi, vanno all’attacco. I ruoli vengono ribaltati. Una volta si sfiora la rissa. Gli avvocati, che alla fine del processo incasseranno parcelle da dieci milioni di euro, accusano Zucca di aver speso troppo per le indagini. Messe una in fila all’altra, sono prove che lasciano un segno. Il magistrato in nero diventa sempre più ombroso, sospetta di tutti. Subisce le sentenze di primo grado come un’umiliazione personale. Prima la Diaz. Assolti. Lena Zulke lo abbraccia in aula e lui si sente ancora più male. Non è riuscito a dare giustizia. Poi De Gennaro. Assolto.

Quelle sconfitte gli scavano dentro, insinuano dubbi. “Forse hanno ragione loro, sono davvero un cattivo magistrato.” Me lo disse con voce triste, il volto ancora più scavato. Era dimagrito, smunto. Un’implosione. La scelta di andarsene da quell’ufficio sembrava una necessità. Anche il 18 maggio 2010 è una giornata amara. A notte fonda il giudizio d’appello gli ha appena dato ragione: tutti colpevoli. Ma quel giorno è stato anche il primo dell’esilio che si è imposto, come se dovesse espiare qualche colpa. Dopo ventidue anni da pubblico ministero, Zucca ha cominciato una nuova vita in procura generale. Ritmi più blandi, la noia che ti avvolge come miele. Una solitudine diversa. Certe battaglie lasciano un segno indelebile.
“Un’operazione mediatica… Doveva riscattare l’immagine della polizia che nei giorni precedenti era sembrata inerte di fronte ai gravissimi episodi di devastazione e saccheggio. Preso atto del fallimentare esito della perquisizione, si sono attivamente adoperati per nascondere la vergognosa condotta dei poliziotti violenti concorrendo a predisporre una serie di false rappresentazioni della realtà a costo di arrestare e accusare ingiustamente i presenti nella scuola.” Così si legge nelle motivazioni della sentenza d’appello, pubblicate tre mesi dopo. Anche l’assoluzione di De Gennaro viene ribaltata nel secondo grado di giudizio. “Aveva con evidenza l’interesse a non far trapelare un suo diretto coinvolgimento nella vicenda Diaz, alterandone l’accertamento dei fatti, delle loro modalità e delle responsabilità politiche e penali.”

Una questione d’onore
“La mia polizia.” Cestaro, il pensionato che ebbe la sfortuna di passare dalla Diaz, lo ripeteva in continuazione impostando la voce su un tono di rimpianto.
Il pomeriggio del 20 giugno 2002 Oscar Fioriolli percorre i corridoi della procura ad ampie falcate, quasi volesse abbreviare l’agonia. Dal suo comportamento trapela un certo imbarazzo. Entra negli uffici dei pubblici ministeri, non prima di aver rilasciato dichiarazioni di intento solenne. “Questo è un giorno amaro.” Viene a nome del capo della polizia Gianni De Gennaro. Porta con sé l’offerta di “un’ampia azione investigativa” da mettere a disposizione dei magistrati. Appare turbato, non era per questo che l’avevano mandato a Genova. Era l’uomo chiamato a sanare la ferita. Arrivò nell’estate del 2001 per sostituire il questore Colucci, rimosso dal Viminale. Si presentò andando in piazza Alimonda a stringere la mano di Giuliano Giuliani, nel trigesimo della morte di Carlo. Ci fu un timido abbraccio, che venne poi rimproverato a entrambi. Un poliziotto moderno, dai modi gentili e pacati, uno che diceva adesso si volta pagina. E forse ci credeva davvero.

“Bottiglie di vino, centilitri 75, con stoppino.” È la prima descrizione di due ordigni trovati durante gli scontri del sabato dalle parti di corso Italia. Vengono affidati alla pattuglia del reparto mobile di Roma, quello di Canterini, “per successivo inoltro in questura”. Non viene redatto il verbale di sequestro. Le bottiglie non finiscono all’ufficio reperti della Digos, non passano alla polizia giudiziaria, come da procedura, essendo corpi di reato. Semplicemente scompaiono. Per riapparire la mattina dopo sul tavolo della questura, tra il “bottino” delle armi sequestrate durante l’irruzione alla Diaz, compiuta proprio dagli uomini di Canterini. Nel giro di un anno i magistrati hanno ricostruito tutto il percorso delle due bottiglie. Prove false, fabbricate ad arte per incastrare i No global.
Quello è il giorno in cui cambia tutto. La Diaz non è più il racconto di una vendetta a freddo, la valvola di sfogo di un gruppo di poliziotti di strada che ha deciso di prendersi una rivincita sulle “zecche”, coinvolgendo i dirigenti che avrebbero dovuto gestire un’irruzione motivata con la presenza di Black Bloc nella scuola. Diventa una questione più importante, che coinvolge un gruppo di uomini che appartengono al mito della polizia democratica, quella che sconfigge la mafia. E adesso si trovano coinvolti in una storia sporca, di coperture e omissioni. Hanno partecipato a Genova facendo un mestiere che non gli appartiene. Nessuno di loro ha una storia professionale legata alla gestione dell’ordine pubblico. Catturano gli assassini, è un lavoro diverso.

La visita di Fioriolli ai pubblici ministeri è una presa d’atto piuttosto esplicita. Scusate, dateci un’altra possibilità. Promette arresti, assicura che non guarderanno in faccia a nessuno. La polizia che indaga su se stessa. Non funziona, non può funzionare. Lo sanno entrambi, magistrati e questore.
Poco tempo dopo Fioriolli riceve una telefonata dal pubblico ministero Enrico Zucca. L’intesa cordiale tra le due istituzioni è rimasta nel limbo delle buone intenzioni. I toni non sono concilianti. Abbiamo bisogno dei tabulati Wind delle utenze dei poliziotti indagati. Li avete voi in consegna, sono tre mesi che ve li stiamo chiedendo e alla squadra mobile rispondono di averli persi. Sarebbe il caso di cercarli bene, altrimenti siamo costretti a indagarvi tutti. Passa mezz’ora. Suona il telefono, chiamano dalla squadra mobile. Dottore, pensi che sorpresa. Stavamo spostando degli scatoloni, ce n’era uno sigillato accanto al termosifone, l’abbiamo aperto, e cosa è spuntato fuori? I vostri tabulati, adesso ve li portiamo.

L’inchiesta sui fatti della scuola Diaz è una lunga storia di incomprensioni e di mancata collaborazione. Il reciproco sospetto ha creato un’incomunicabilità totale. Le foto degli indagati per le sevizie di Bolzaneto e il pestaggio della Diaz vengono richieste per più di un anno. Sarebbero urgenti, servono per permettere alle vittime il riconoscimento dei loro picchiatori. Basterebbe un clic per ognuno di loro. Quando arrivano, sono quelle sbagliate. Risalgono al loro ingresso in polizia. Tutte le facce degli agenti e dei funzionari sono giovani e fresche, irriconoscibili. L’ampia azione investigativa promessa dal questore non ha consentito di identificare un poliziotto dalla fluente coda di cavallo fotografato in primo piano durante l’irruzione alla Diaz mentre parla con i colleghi, impartisce ordini. L’immagine fa il giro di tutte le questure d’Italia. Nessuna risposta. Durante il processo, un avvocato difensore avanza un’ipotesi. Forse si è tagliato i capelli, dice. La sua identità viene scoperta durante una delle ultime udienze, dopo otto anni. L’agente con la coda di cavallo compare in aula tra il pubblico, è venuto a dare un’occhiata. La notte del 21 luglio 2001 tre funzionari del Servizio centrale operativo e altri due dirigenti si chiudono in una stanza della caserma di Bolzaneto e scrivono il verbale d’arresto dei novantatré No global che dormivano nella scuola, con l’elenco delle prove contro di loro. Lo firmano quindici persone. I magistrati ne identificano quattordici. Nessuno ha mai riconosciuto la calligrafia del firmatario ignoto.

“E comunque si ricordi una cosa. Io sono una persona onesta, ha capito? Io sono una persona onesta.” Francesco Gratteri si accorge di avermi stretto il braccio. “Scusi, mi sono fatto prendere dalla foga.” Nell’autunno del 2008 salgo sul treno Frecciarossa diretto a Napoli. Di fronte a me si siede un uomo vestito con un completo elegante. Alzo gli occhi, distrattamente. È Gratteri. Non ci ho mai parlato in vita mia, non ci siamo mai incontrati. Ma è lui, nessun dubbio. Ogni tanto, attraverso amici comuni, mi sono giunti gli echi della sua disistima per come avevo raccontato l’inchiesta e il processo della Diaz. Troppo parziale, troppo piegato sulla versione dei magistrati e non su quella delle difese.
Mando un sms. “Ho Gratteri davanti a me. Che faccio, mi presento?” Risposta: “Se vuoi fallo. Ma secondo me non ti saluta neppure”. Allungo la mano verso di lui, gli dico buongiorno e declino le mie generalità. “Andiamo a prendere un caffè al bar,” dice.
Abbiamo parlato per quasi due ore, ed eravamo così coinvolti nella discussione che mi sono dimenticato di scendere dal treno. Ce l’aveva scritto in faccia quanto gli pesa quella storia, quanto lo abbia tormentato. Ho capito come sia difficile per un uomo dello stato trovarsi dall’altra parte della scrivania, rispondere alle domande del magistrato invece di suggerirle. È un’inversione di ruolo forzata, dolorosa, ma è toccata a lui. “Io non potrei accettare l’esistenza di prove false, non l’ho mai fatto in tutta la mia vita. Se avessi saputo l’identità del responsabile di quel raggiro, stia sicuro che lo avrei fatto arrestare.”

Mi è capitato altre volte di incontrare i poliziotti della Diaz. Nel 2006 Gilberto Caldarozzi uscì dalla questura di Parma con la faccia livida e gli occhi lucidi. Aveva arrestato i sequestratori del piccolo Tommaso Onofri, un bimbo di appena due anni. Era un mese che faceva avanti e indietro da Roma. Li aveva interrogati per ore e aveva capito che quei due, il muratore e il pugile, dicevano la verità, almeno su un punto. Il bambino era stato ucciso subito. Masticava rabbia, quel giorno. Per una fine annunciata e ingiusta. Lo sapevano tutti che il bambino era morto, ma scoprirlo, vederne il corpo, è un’altra cosa. L’anno seguente Caldarozzi guidò l’arresto di Bernardo Provenzano, l’ultimo capo dei corleonesi. Furono pubblicati molti articoli sulla sua figura, e nessuno faceva riferimento al fatto che fosse sotto processo per la Diaz. L’omissione non mi sembrò scandalosa: un gesto di riguardo per una persona che aveva appena fatto una cosa importante, molto importante, per il proprio paese.

E poi il diavolo, probabilmente. L’uomo che riassume ogni idea di cospirazione dietro le giornate di Genova, il simbolo del male assoluto per i No global. Nel gennaio 2008 Gianni De Gennaro era stato nominato commissario straordinario, qualifica enfatizzata dal prefisso “super”, che sottolineava poteri speciali per risolvere l’emergenza rifiuti a Napoli. Il suo limbo dopo le dimissioni da capo della polizia era durato pochi mesi. Se n’era andato al compimento del settimo anno, questa la motivazione ufficiale studiata dal governo di centrosinistra, che faceva contenti gli alleati di Rifondazione e non umiliava lui, da qualche giorno indagato a Genova per aver suggerito a Colucci di modificare la sua testimonianza durante la deposizione al processo Diaz.
De Gennaro aveva chiesto di modificare quanto dichiarato in precedenza, ovvero che fosse stato lui a mandare il portavoce Sgalla davanti ai cancelli della scuola. Una circostanza di nessun significato per il processo, un dettaglio ininfluente. Ma importante per il prefetto, perché era l’unico nodo che lo teneva legato a quella notte, a quella macchia. Ancora una volta, una questione d’onore.

Quando ai primi di febbraio si decise a ricevere la stampa, sembrava un uomo che si preparava alla sconfitta. Il governo Prodi era caduto, dietro di lui non c’era più nessuno. Un supercommissario senza poteri, obbligato all’ordinaria amministrazione, spedito a Napoli come un salvatore della patria e rimasto solo nel giro di un mese. Questa volta i media gli servivano a rompere l’isolamento, a far presente che i rifiuti continuavano ad accumularsi, incuranti e irrispettosi dei dolori di Prodi e dell’imminente campagna elettorale.
Ma il suo primo pensiero fu un altro. Come un riflesso condizionato. “Lei ha scritto cose inesatte sul G8,” fu la sua accoglienza quando mi presentai. Ero in imbarazzo, con me c’erano altri colleghi, non necessariamente al corrente della questione. “Lei continua a vedere il dolo, ma non c’è nessun dolo, e sono convinto che alla fine i fatti mi daranno ragione.” Poi mi strinse la mano. “Prima o poi racconterò come sono andate davvero quelle giornate.”

Anche per questo, il processo Diaz è stato politico, suo malgrado. Perché metteva in gioco la reputazione di poliziotti come Gratteri, Caldarozzi e, soprattutto, il loro capo Gianni De Gennaro, che avevano sconfitto la mafia di Corleone. Accostava i loro nomi a quelli degli indifendibili picchiatori di Canterini, convinti invece di essere vittime sacrificali di un tradimento della polizia più nobile e blasonata.
“Ci hanno venduto.” Alla fine dell’ottobre 2010, nei giorni della rivolta di Terzigno contro l’apertura di una nuova discarica, ho conosciuto un celerino che faceva obiezione di coscienza. Condivideva le ragioni della protesta, aveva parenti che passavano le notti al presidio, costretti ad andarsene soltanto quando arrivava l’ora dei violenti, vedette in motorino, bombaroli che sparavano fuochi d’artificio ad altezza di poliziotto, incappucciati ossessionati dal sogno di “buttare a terra” l’odiato sbirro.
Era stato uno dei tanti agenti indagati per la Diaz e scagionati solo perché non identificabili. Gli chiesi quale fosse la differenza tra le due situazioni. Anche allora chi protestava aveva delle buone ragioni. Mi disse che era tutto diverso. A Genova, lui credeva in quel che stava facendo. Avevano creato una squadra, mesi di addestramento e sacrifici, avrebbe seguito i suoi compagni in capo al mondo. “E quella notte io pensavo davvero che ci fossero i cattivi. Poi ci hanno scaricato, come esseri indegni. Ci hanno messo in trappola gettando su di noi responsabilità che erano di tutti.”

La storia della Diaz è stata più grande di ogni singolo dettaglio di innocenza o colpevolezza. È diventata una questione assoluta. L’onore, dello stato e dei No global. Poliziotti importanti costretti a scegliere. O sprovveduti, vittime di un raggiro che si è compiuto sotto i loro occhi, ordito da colleghi ritenuti manovalanza. Oppure colpevoli, di reati infamanti, complici del pestaggio di manifestanti inermi, e della fabbricazione di prove false. Il movimento si è aggrappato ai dettagli salvifici della propria reputazione, come la negazione costante della presenza di Black Bloc in quella scuola. C’erano, invece, e lo sapevano tutti. Nelle notti precedenti ci avevano dormito dentro, mischiati a manifestanti normali. Lo striscione Smash che accompagnò le loro gesta venne fabbricato proprio nella palestra al pianterreno. Ammettere la loro presenza sarebbe stato un cedimento, perché la Diaz è presto diventata la metafora di quel che è stato Genova, il Potere che schiaccia e reprime un movimento nuovo.

Era una partita importante. Le mezze misure non erano possibili. Il pareggio non era contemplato. Nel primo processo furono condannati solo gli agenti del reparto mobile, gli autori materiali del blitz e dei pestaggi. I funzionari furono assolti. Contro di loro, si leggeva nella motivazione, “c’erano indizi non univoci”. I quindici dirigenti che firmarono falsi verbali d’arresto erano stati “ingannati”, anche se non veniva specificato da chi. Il 18 maggio 2010 la Corte d’appello ha invece accolto le tesi dell’accusa, convinta che i “capi” fossero consapevoli delle bugie contenute in quei documenti, ai quali ha dato valore di prova. Da qui, l’infamante condanna per falso ideologico.
Nella sua brutalità, Genova è stato proprio questo. O tutto, o niente. L’alfa e l’omega. Il giorno più bello e quello più brutto. Una ferita che non si è ancora chiusa.

(AP Photo/Francesco Saya)

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