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  • Giovedì 29 settembre 2011

In giro a Delhi

Storia e pensieri intorno alla città indiana dove martedì è crollato un palazzo uccidendo sette persone

di Matteo Miele, Royal University of Bhutan

XXX of ZZZ competes in the (EVENT) at Vijay Chowk during day eleven of the Delhi 2010 Commonwealth Games on October 14, 2010 in Delhi, India.

XXX of ZZZ competes in the (EVENT) at Vijay Chowk during day eleven of the Delhi 2010 Commonwealth Games on October 14, 2010 in Delhi, India.

Dilli Haat è un ottimo posto per passeggiare con tranquillità a Delhi. Forse ha un po’ il sapore turistico, con i suoi negozietti di tessuti, disegni e collane, ma nella stagione dei monsoni di visitatori in cerca di souvenir se ne vedono pochi. Sono quasi tutti indiani, famiglie della borghesia che si accomodano nei tanti ristoranti, uno per ogni stato dell’Unione Indiana. È un buon modo per rilassarsi anche perché, a Dilli Haat, all’interno, non ci sono auto. Subito fuori, seguendo l’insopportabile (e pericoloso) traffico indiano, si arriva a Khan Market, dove davanti ad ogni porta vi è una guardia che ti apre con un sorriso. Si salgono le scale e ci si ritrova in una bella libreria, dove la quasi totalità dei libri è scritta in inglese. La lingua degli antichi dominatori che è lingua franca in India e il cui lessico entra prepotentemente nelle lingue indiane, tanto che un film in hindi rischia di diventare quasi comprensibile anche per un londinese. La diffusa conoscenza della lingua inglese è giustamente considerato un punto di forza dello sviluppo indiano, ma allo stesso tempo, l’educazione in inglese nelle scuole private dei figli dell’élite indiana, mette un’ipoteca sul futuro della letteratura in hindi, tamil, assamese o in un’altra delle tantissime lingue che si parlano in India. Molti laureati parlano e scrivono perfettamente in inglese, ma potrebbero incontrare qualche difficoltà con l’ortografia della propria lingua madre.

Naturalmente l’eredità britannica, a Delhi, non si esaurisce nel vocabolario. La si respira in ogni angolo della megalopoli, negli edifici dell’università, dove il rigore delle antiche università inglesi si appoggia alla perfezione ad un panorama più asiatico, con palme maestose accanto al dipartimento di sociologia. Gli studenti arrivano qui da ogni parte dell’India ed i quartieri limitrofi, dove vivono, diventano il punto di osservazione delle diversità etniche, culturali ed economiche del secondo paese più popoloso del mondo. Si scorgono visi del Nagaland, così simili ai cinesi, oppure i volti scurissimi del sud dravidico. I sikh del Punjab, con barba e turbante, obbligatori, o anche giovani musulmani, figli di quelle famiglie che nel 1947, al momento della partizione, quando nacque il Pakistan, allora composto anche dall’attuale Bangladesh, non lasciarono il paese. Forse impossibilitati o forse scommettendo sul carattere laico del Partito del Congresso, il principale partito politico indiano, che è oggi (come in gran parte della storia dell’India indipendente) al governo. Un paese a maggioranza induista, con un primo ministro sikh e una leader del Congresso italiana e cattolica, Sonia Gandhi, erede assieme al figlio Rahul della dinastia di Nehru, brahmini del nord. Indira, la figlia di Jawaharlal Nehru sposò un parsi di Bombay e il figlio di Indira, Rajiv scelse invece una vicentina. In barba ai matrimoni combinati all’interno di caste e sottocaste tra persone della stessa regione.

In pochi minuti da Khan Market, si raggiunge l’India Gate, la Porta dell’India, l’imponente monumento che gli inglesi costruirono in onore dei caduti indiani della Terza guerra anglo-afghana e della Prima guerra mondiale. Giovani che contribuirono, con il loro sacrificio, alla riflessione sull’identità nazionale indiana e dunque poi all’indipendenza, ottenuta due anni dopo la Seconda guerra mondiale, quando la nonviolenza del Mahatma Gandhi, la morte di migliaia e migliaia di indiani, anche sul fronte europeo, anche in Italia, e i mutati equilibri internazionali, con Washington e Mosca al centro della scena mondiale, mettevano con le spalle al muro ogni rivendicazione coloniale.

Ma oltre a essere inglese, Delhi fu anche moghul. Il Forte Rosso di Shah Jahan (lo stesso sovrano che fece realizzare il Taj Mahal), del XVII secolo, è una delle testimonianze più evidenti di questa dinastia straniera (moghul vuole dire mongolo) che regnò sull’India per più di tre secoli, dal Cinquecento fino alla Rivolta dei Sepoy, a metà dell’Ottocento, quando i britannici decisero di far passare il controllo dell’India direttamente alla Corona e non più alla Compagnia delle Indie Orientali. Gli edifici moghul si trovano un po’ ovunque in città, come la splendida cittadella fortifica di Purana Qila, fatta costruire dall’imperatore Humayun nel XVI secolo e dove, se l’afa indiana si fa in modo inaspettato clemente, ci si può riposare aspettando il tramonto.