L’intervento del cardinal Bagnasco sull’Italia e l’attualità
di Angelo Bagnasco
Questo è il testo della prolusione del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Angelo Bagnasco, al Consiglio Episcopale Permanente che si è aperto lunedì a Roma.
Venerati e cari Confratelli, avvio questa riflessione facendo subito riferimento al clima che – a giudizio di molti osservatori, ma è anche nostra sensazione – appare emergente, ossia il senso di insicurezza diffuso nel corpo sociale, rafforzato da un attonito sbigottimento a livello culturale e morale. Un’insicurezza che si va cristallizzando, e finisce per prendere una forma apprensiva dinanzi al temuto dileguarsi di quegli ancoraggi esistenziali per i quali ognuno si industria e fatica, essendo essi ragione di una stabilità messa oggi in discussione, per cause in larga misura non dipendenti da noi. Non si era capito, o forse non avevamo voluto capire, che la crisi economica e sociale, che iniziò a mordere tre anni or sono, era in realtà più vasta e potenzialmente più devastante di quanto potesse di primo acchito apparire. E avrebbe presentato un costo ineludibile per tutti i cittadini di questo Paese. Spetta ad altri dar conto degli scenari che si presentano sul versante economico-sociale; per parte nostra siamo specialmente in apprensione per le pesanti conseguenze sulla vita della gente e gli effetti interiori di questa crisi che, a tratti, sembra produrre un oscuramento della speranza collettiva. Se ne vede traccia in certa perplessità trascinata e stanca, in una amarezza dichiarata, in un risentimento talora sordo, in un cinismo che denuncia una sconfortata rassegnazione. Circola l’immagine di un Paese disamorato, privo di slanci, quasi in attesa dell’ineluttabile. Ebbene, in quanto Vescovi non possiamo essere spettatori intimiditi; nostro compito è proporci come interlocutori animati da saggezza, interessati a «rompere questo determinismo dell’immanenza o, meglio, aprirlo alla concezione cristiana della storia e del tempo» (Giandomenico Mucci, Il discernimento dei segni dei tempi, “La civiltà cattolica”, 7 maggio 2011). Vorremmo cioè, con passo lieve, accostarci al cuore di ciascuno dei nostri connazionali, e dire la parola più grande e più cara che abbiamo, e che raccoglie ogni buona parola umana: Gesù Cristo. Noi lo annunciamo a tutti come discepoli e Vescovi: Egli è Dio con noi e per noi, affinché abbiamo a non inaridirci, stanchi prigionieri del nostro «io». No, non dobbiamo affliggerci come chi non ha speranza (cfr 1Ts 4,13): una speranza che «attira − dentro il presente − il futuro […]. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura» (Spe salvi n. 7).
Perché questa dinamica salvifica si esplichi non ci stanchiamo, con l’aiuto dello Spirito, di esercitare il nostro arduo quanto irrinunciabile ministero, «di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta» (Gaudium et spes, n. 44). È ciò che ci proponiamo umilmente di perseguire anche nell’attuale sessione autunnale del nostro Consiglio Permanente, agli inizi del nuovo Anno pastorale, e a congedo di una stagione estiva particolarmente densa di eventi e segni. Vorremmo che la nostra parola, se deve echeggiare nel cuore degli italiani e nell’opinione pubblica, riuscisse a risvegliare la speranza, e ad un tempo quella tensione alla verità senza la quale non c’è democrazia.
Com’è noto, dal 3 all’11 settembre abbiamo celebrato ad Ancona, e nelle Diocesi di quella Metropolìa, il 25° Congresso Eucaristico Nazionale, appuntamento che ha visto un’elevata partecipazione di popolo proveniente da ogni parte d’Italia, e una vigorosa tensione spirituale realmente unitiva. Nel passaggio culminante, che coincideva con la giornata conclusiva, il congresso ha accolto il Pellegrino più illustre e atteso. Benedetto XVI continua infatti a riservare alla Chiesa italiana gesti di squisita attenzione ed autentica premura apostolica. Nei giorni scorsi lo abbiamo seguito e ammirato durante la visita che egli ha compiuto nella sua terra di Germania, ci siamo rallegrati per il successo del non facile viaggio, soprattutto ci siamo messi in ascolto del suo magistero nitido e straordinario: occorrerà che su di esso ritorniamo con una riflessione più distesa e impegnativa. Ma per restare al nostro incontro anconetano, in nessuno dei suoi momenti abbiamo vissuto staccati dal mondo, dal nostro Paese, dalla società di cui siamo parte. Abbiamo, in verità, celebrato questo Congresso Eucaristico facendo memoria del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ma – prima ancora – l’avevamo voluto per rinnovare la nostra consegna all’Eucaristia quale mistero d’amore che, unendoci intimamente a Gesù, ci apre ai fratelli. Potremmo dire che davvero abbiamo inteso portare là – dove pubblicamente si è posto il centro irradiante della nostra fede – tutta l’Italia e tutti gli italiani. D’altra parte il nostro popolo, senza sottrarsi ai doveri e alle forme proprie della collettività, avverte costantemente che c’è una «Presenza altra» nella storia che coincide con la forza rigenerante dell’Eucaristia, custodita e celebrata nei grandi e nei piccoli centri disseminati lungo la Penisola, crogiuolo benedetto da cui è scaturita l’identità profonda della Nazione, assai prima della sua stessa unificazione istituzionale e politica.
La storia dei Congressi Eucaristici nazionali, del resto, è intrecciata indissolubilmente alla vita e alle trasformazioni del Paese e riflette fin dal primo appuntamento, quello di Napoli del 1891, le differenti stagioni civili e culturali che l’hanno coinvolto: infatti, «L’unione con Cristo che si realizza nel Sacramento ci abilita ad una novità di rapporti sociali: la ‘mistica’ del Sacramento ha un carattere sociale» (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 89), e ci spinge per ciò stesso a raccogliere le implicanze dell’«Eucaristia per la vita quotidiana», come suggeriva l’argomento posto a tema del congresso. Non è un caso che certo affievolimento della fede proceda di pari passo con il venir meno di una autentica sensibilità per il bene comune. «L’Eucaristia – diceva il Papa – sostiene e trasforma l’intera vita quotidiana (…). La bimillenaria storia della Chiesa è costellata di Santi e di Sante la cui esistenza è segno eloquente di come proprio dalla comunione con il Signore, dall’Eucaristia, nasca una nuova e intensa assunzione di responsabilità a tutti i livelli della vita comunitaria» (Omelia a conclusione del Congresso Eucaristico Nazionale, 11 settembre 2011). Lo snodarsi delle giornate, incentrate sui cinque ambiti esistenziali su cui lavorammo già al Convegno ecclesiale di Verona, hanno messo in risalto l’«osmosi» possibile, ma anche esaltante, tra il mistero che celebriamo e le dimensioni dell’esistenza quotidiana: «Non vi è nulla di autenticamente umano – concludeva il Santo Padre – che non trovi nell’Eucaristia la forma adeguata per essere vissuto in pienezza» (ib).
Ringraziamo commossi il Papa per aver voluto ancora una volta spezzare il Pane con noi, e ringraziamo i Vescovi che più si sono fatti carico di questo memorabile evento: in particolare, l’Arcivescovo Edoardo Menichelli e la sua bella Chiesa di Ancona-Osimo, con i Pastori delle Chiese vicine di Fabriano-Matelica, Jesi, Senigallia e Loreto, e Mons. Adriano Caprioli, Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, presidente del Comitato per i Congressi Eucaristici nazionali, per la cura profusa lungo tutta la minuziosa preparazione e l’impegnativa celebrazione.
Non possiamo, ad un tempo, non evocare la Giornata Mondiale della Gioventù che si è svolta a Madrid dal 16 al 21 agosto. Hanno colpito, come dato esterno, la massiccia affluenza, quasi due milioni di giovani, provenienti da 193 Paesi, tanti quanti sono quelli rappresentati all’Onu. Ma ha sorpreso soprattutto la qualità della partecipazione, il fascino che questi giovani riescono a esprimere con i loro volti sorridenti, la serietà nei momenti giusti, i loro linguaggi, la loro buona educazione, persino la loro saggezza. Si è ripetuto anche stavolta lo stupore che già si era riscontrato a Sydney da parte della città ospitante, a motivo proprio della gioia e del garbo con cui questi protagonisti si sono presentati. Certo, hanno invaso Madrid, ma è stata ancora una volta un’invasione non solo pacifica, ma anche pacificante rispetto ad un contesto attraversato da varie tensioni, e ad un tempo è stata un’invasione radiosa. C’è da dire che l’età media era di 22 anni, e che il 70 per cento dei partecipanti era alla sua prima GMG. Dunque, un’ondata giovanile per gran parte nuova, ma non ripetitiva delle precedenti. Concentrata sull’evento, e fondamentalmente non interessata ad altre questioni – diciamo – intra-ecclesiali, è sembrata vivere ciascuno dei diversi momenti con una dedizione specifica. Si pensi all’allegria lungo le strade, ma poi all’attenzione in chiesa, per le catechesi, nonostante il caldo e la scomodità di vari luoghi d’incontro. E ancora all’affluire incessante e composto ai confessionali e all’interesse mirato su ogni esecuzione d’arte. Si pensi allo scompiglio tipicamente giovanile con cui hanno accolto l’inclemenza del tempo, il sabato sera, e al silenzio intensissimo e prolungato che subito dopo sono riusciti a realizzare per l’adorazione eucaristica. In questa sorprendente capacità di silenzio c’è una delle connotazioni più marcate della recente GMG, insieme ai dialoghi che seguivano le catechesi. Difficile davvero pensare che quello fosse un popolo inconsapevole e manovrabile.
È stato osservato che questa è la generazione giovanile scaturita dalle GMG di Benedetto XVI. Il che risulta vero non solo per il fattore anagrafico, ma per la corrente di simpatia che distintamente contrassegna il suo relazionarsi a questo Papa, l’immediatezza del loro intendersi, la finezza del loro corrispondersi… Papa Benedetto ha ormai impresso alla formula delle GMG un’inflessione di particolare cura nella preparazione personale e nell’esperienza sacramentale, comprensiva dell’adorazione eucaristica a scena aperta, quale gesto di riconoscimento plenario della signoria di Dio realmente presente. Col suo stile gentile, premuroso ed essenziale, mentre resisteva all’imperversare della tormenta – lui e loro, sferzati dalla pioggia – ha dato vita al momento forse più espressivo e memorabile del dialogo sviluppato tra il Papa e i giovani lungo i tre giorni madrileni, intessuti di una magia – non cercata ma effettiva – di sorrisi e gesti, preludio di un ascolto profondo. Tale alleanza, delicata e forte, tra Pietro e i giovani cattolici provenienti da ogni latitudine, e ad un tempo immediatamente in grado di sintonizzarsi tra loro e con il Papa, resta uno dei risultati più consolanti di questa iniziativa, per la quale avvertiamo il dovere di rivolgere il grazie più affettuoso e commosso a Giovanni Paolo II, oggi beato – osiamo crederlo – anche in forza di quel formidabile amore per i giovani che egli ha di fatto insegnato a tutta la Chiesa.
Una parola anche sugli altri partecipanti, ossia i sacerdoti che accompagnavano i gruppi di giovani e senza i quali non potrebbe esserci alcuna GMG. Li ringraziamo per la capacità di condivisione e di resistenza di cui ancora una volta hanno dato prova. I giovani hanno bisogno di trovare in loro non un ulteriore amico tra i tanti che già hanno, ma specificatamente un educatore che punta per ciascuno alla forma Christi. Per questi nostri presbiteri valga l’esempio proprio di Karol Wojtyla che, nel corso della sua vita sacerdotale, ha riservato ai giovani una cura privilegiata, trascorrendo lungo tempo in mezzo a loro, ma riuscendo puntualmente anche a distanziarsi per stare – egli non lo diceva, ma loro lo intuivano – in intimità con Gesù. In questo darsi e ritrarsi è racchiusa tutta la vita di ogni vero prete, che in tal modo può diventare figura attrattiva. Di noi Vescovi – presenti, quanto all’Italia, quasi per il 50% – vorrei dire che ci fa un gran bene questa ricorrente immersione nel mondo giovanile. Ci rigenera nella fiducia, ci medica e ci consola.
In un’indagine condotta durante la GMG, nove giovani su dieci avrebbero dichiarato di attendersi un grande cambiamento nella loro vita in seguito a quella esperienza. È interessante che da questi giovani il cambiamento non sia temuto ma cercato, e noi adulti abbiamo a prendere sul serio questo loro desiderio. Dobbiamo prenderli sul serio come fa il Papa, e come altri hanno fatto lungo la storia. Indicativa, al riguardo, la citazione papale dal Parmenide di Platone: «Cerca la verità mentre sei giovane, perché se non lo fai, poi ti scapperà dalle mani» (cfr. Incontro con giovani professori universitari, 19 agosto 2011). Per il momento culmine della GMG, la veglia del sabato, il Papa aveva scritto: «Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all’origine della nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio. Rimanere nel suo amore significa quindi vivere radicati nella fede, perché la fede non è la semplice accettazione di alcune verità astratte, bensì una relazione intima con Cristo» (Omelia alla veglia di preghiera, 20 agosto 2011). Dunque, la fede come radicamento in una relazione a due, tra me e Dio! Al che, per farsi carico del potenziale stupore degli interlocutori, subito ha aggiunto: «Cari giovani, non conformatevi con qualcosa che sia meno della verità e dell’amore, non conformatevi con qualcuno che sia meno di Cristo. Precisamente oggi, in cui la cultura relativistica dominante rinuncia alla ricerca della verità e disprezza la ricerca della verità, che è l’aspirazione più alta dello spirito umano, dobbiamo proporre con coraggio e umiltà il valore universale di Cristo come salvatore di tutti gli uomini e fonte di speranza per la nostra vita» (ib). Non ci vuole molto a rilevare come il Papa condensi qui pagine poderose del magistero ecclesiale degli ultimi decenni, volto a riaffermare ciò che da alcune parti viene messo in discussione: la divinità di Cristo, unico salvatore dell’uomo e del mondo. Non ha insomma dispensato briciole, ma ha teso con gentilezza il pane sostanzioso della fede. Per questo aveva avvertito: «Non lasciatevi intimorire da un ambiente nel quale si pretende di escludere Dio e nel quale il potere, il possedere o il piacere sono spesso i principali criteri sui quali si regge l’esistenza. Può darsi che vi disprezzino, come si suole fare verso coloro che richiamano mete più alte o smascherano gli idoli dinanzi ai quali oggi molti si prostrano. Sarà allora che una vita profondamente radicata in Cristo si rivelerà realmente come una novità attraendo con forza coloro che veramente cercano Dio, la verità e la giustizia» (Omelia per i seminaristi, 20 agosto 2011). Cari giovani, in nome dell’amicizia che sentiamo per voi, e che pure abbiamo sentito da voi, vorremmo dirvi: il più e il meglio vengono ora. Lasciate che l’esperienza di Madrid lieviti in voi: è la fede la scelta della suprema, personale emancipazione. Guardate ai santi: avete mai riscontrato tra loro persone sbiadite? Insieme con Cristo, vivete in faccia al mondo l’umile fierezza di appartenergli e per questo sperimentare la gioia mai esaurita di servire i fratelli. Intanto, la prossima Giornata Mondiale della pace, il 1° gennaio 2012, avrà per tema i giovani, protagonisti della pace.
Quelli fino a qui evocati sono nella vita della Chiesa eventi, per quanto ricorrenti, pur sempre eccezionali. Chi non conosce allora l’obiezione? Nell’esperienza delle persone, è la vita quotidiana quella che conta… Ma è esattamente questo il motivo per il quale gli appuntamenti sopra richiamati devono concorrere alla rigenerazione del soggetto cristiano, tanto più in una stagione in cui la modernità s’è fatta liquida e tutto rischia di disperdersi. È vero che le nostre comunità cristiane sono − sociologicamente parlando − una rete di relazioni pressoché unica sul territorio, ma la Chiesa è qualcosa di più, c’è un Oltre che si deve perseguire e va assunto come il dato germinante. Mi ha colpito una confidenza che il Santo Padre ha fatto parlando, in San Giovanni, alla sua diocesi di Roma: «Mi torna alla memoria – egli ha detto – che, proprio in questa Basilica, in un intervento durante il Sinodo Romano, citai alcune parole che mi aveva scritto in una piccola lettera Hans Urs von Balthasar: “La fede non deve essere presupposta ma proposta”» (Discorso all’apertura del Convegno ecclesiale della diocesi di Roma, 13 giugno 2011). E la fede è fede in Gesù Cristo dato a noi per la nostra gioia. Ecco ciò che «trafigge» il cuore (cfr At 2,37; e anche Discorso cit.), non altro. Il pensiero corre allora nuovamente ai nostri Sacerdoti: mentre solidarizziamo cordialmente con voi, e vi ringraziamo con grande affetto per quanto fate, dobbiamo ricordare una cosa importante, in qualche modo ovvia ma non scontata, e cioè che le nostre comunità sono chiamate ad un continuo itinerario di conversione. Se Cristo è al centro, Lui è anche l’unità di misura che costantemente ci contesta e ci spinge a conversione. Una conversione, di cui sarà bene mostrare anche tutta la convenienza. «Talvolta – diceva il Papa a Venezia – quando si parla di conversione, si pensa unicamente al suo aspetto faticoso, di distacco e di rinuncia. Invece, la conversione cristiana è anche e soprattutto fonte di gioia, speranza e amore» (Benedetto XVI, Omelia alla Messa al Parco di San Giuliano, Venezia 8 maggio 2011). E allora assumiamo il portato fragrante del Congresso Eucaristico, immettiamo nel tessuto comunitario i giovani della GMG, scuotiamo un po’ l’ambiente, proponendoci accoglienti verso quanti sono in ricerca o potrebbero aver voglia di ricominciare, come si diceva nell’assemblea di maggio.
Nel cuore dell’estate si è esplicitato un contrasto stridente tra ciò che avveniva per le vie di Madrid e certe turbolenze in atto nel mondo. Si va evidentemente configurando proprio nei giovani una grande questione mondiale. Non può essere un caso fortuito, né si può spiegare con la semplicistica teoria del contagio sociale, il fatto che sullo scacchiere internazionale siano scoppiate nell’arco degli ultimi dieci mesi una serie di manifestazioni che hanno avuto i giovani come protagonisti indiscussi. Avvertendosi tagliati fuori dai luoghi decisionali in cui si vanno affrontando i problemi dell’assetto economico e non solo, i giovani manifestano la loro incomprimibile esistenza. Certo, per taluni versi esistono tante gioventù e tanti modi di essere giovani. La terribile vicenda di Oslo ci dice che il seme del bene e quello del male sono presenti senza eccezioni nell’animo umano, catturabile talora da un estremismo che corrompe ogni fibra dell’essere, fino ad esplodere in tragedie che superano la stessa immaginazione. Situazioni altrimenti incresciose si sono verificate nelle capitali di vari Paesi europei, con risvolti tuttavia più complessi del passato. In particolare, la tipologia dei saccheggi ha interrogato le rispettive società, specialmente per quell’aspetto consumistico che fa intendere come si sia giunti ad un’ulteriore fase di individualismo esasperato e possessivo. «Prendo quello che voglio, perché posso»: sembra questa la spiegazione più pertinente di quanto accaduto. Ma è proprio sul fronte indicato da una simile espressione che bisogna condurre con onestà la disanima meno ipocrita. Quanti oggi, nel mondo che conta, volteggiano come avvoltoi sulle esistenze dei più deboli per cavarne vantaggi ancora maggiori che in altre stagioni? Questo «individualismo esasperato e possessivo» non è forse alla radice di tanti comportamenti rapaci in chi può, o ritiene di potere, a prescindere da ciò che è legittimo, giusto, onesto?
Né indignati, né rassegnati: questo suggeriva qualche confratello Vescovo spagnolo ai giovani della sua nazione, ed è quello che anche noi suggeriamo ai giovani del nostro Paese, perché si pone in questa direzione il passo efficace per contribuire a superare la crisi che pure ci coinvolge, e farlo in modo creativo e non distruttivo. Crescere senza ideali e senza limiti, in balia di un falso concetto di libertà, significa ritrovarsi insicuri, impacciati nel giudicare secondo razionalità, affidati a mere emozioni. Non possiamo non incoraggiare fortemente i giovani a essere protagonisti di un cambiamento spirituale e culturale, senza il quale nessuna soluzione tecnica può reggere. In questo senso siamo incoraggiati tutti ad agire, sulle tracce indicate dagli Orientamenti pastorali di questo decennio, nel quale siamo impegnati ad affrontare la sfida educativa.
Più volte e da varie parti la popolazione del Nord del mondo era stata avvertita e sensibilizzata sul fatto che l’Occidente viveva al di sopra delle proprie possibilità. Ed era ragionevole pensare che la crisi esplosa tra il 2008 e il 2009 avesse indotto non solo a tamponare le falle che si erano infine aperte, ma a introdurre elementi virtuosi per raddrizzare progressivamente il sistema dell’economia mondiale. Ma così non è stato. E quando infine si sperava di cominciare a vedere la luce, la crisi ha dato segnali di inequivocabile persistenza e per alcuni aspetti di pericolosa recrudescenza. La globalizzazione resta non governata, e sempre più tende ad agire dispoticamente prescindendo dalla politica. La finanza «è tornata a praticare con frenesia dei contratti di credito che spesso consentono una speculazione senza limiti. E fenomeni di speculazione dannosa si verificano anche con riferimento alle derrate alimentari, all’acqua, alla terra, finendo con impoverire ancor di più quelli che già vivono in situazione di grave precarietà» (Benedetto XVI, Discorso per il 50° dell’enciclica “Mater et magistra”, 16 maggio 2011). Nessuna nuova istituzione internazionale è stata nel frattempo messa in campo col potere di regolare appunto la funzionalità dei mercati allorché questi risultino anomali. Le agenzie che classificano l’affidabilità dei grandi soggetti economici hanno continuato a far valere la loro autarchica e misteriosa influenza, imponendo ulteriori carichi alle democrazie. Dal canto suo, l’Europa ha fatto fronte in ritardo e di malavoglia alle emergenze, incapace di esprimere una visione comunitaria inclusiva dei doveri propri della reciprocità e della solidarietà, soprattutto rivelando ancor di più lo squilibrio tra l’integrazione economica, di cui l’euro è espressione, e un’integrazione politica, ancora inadeguata, pesantemente burocratizzata e invasiva.
D’altronde, l’Italia non si era mai trovata tanto chiaramente dinanzi alla verità della propria situazione. Il che significa, tra l’altro, correggere abitudini e stili di vita. Qualcosa di facile a dire, ma estremamente difficile ad applicare, anzitutto per sé. Ci preoccupa come Vescovi l’assenza di un affronto serio e responsabile del generale calo demografico, e quindi del rapporto sbilanciato tra la popolazione giovane e quella matura e anziana. Il fenomeno va ad interessare anche le funzioni previdenziali e pensionistiche non solo delle generazioni a venire ma già di quanti sono oggi giovani. Se non si riescono a far scaturire, nel breve periodo, le condizioni psicologiche e culturali per siglare un patto intergenerazionale che, considerando anche l’apporto dei nuovi italiani, sia in grado di raccordare fisco, previdenza e pensioni avendo come volano un’efficace politica per la famiglia, l’Italia non potrà invertire il proprio declino: potrà forse aumentare la ricchezza di alcuni, comunque di pochi, ma si prosciugherà il destino di un popolo.
Conosciamo le preoccupazioni che pulsano nel corpo vivo del Paese, e non ci sfugge certo quel che, a più riprese, si è tentato di fare e ancora si sta facendo per fronteggiarle. L’impressione tuttavia è che, stando a quel che s’è visto, non sia purtroppo ancora sufficiente. Colpisce la riluttanza a riconoscere l’esatta serietà della situazione al di là di strumentalizzazioni e partigianerie; amareggia il metodo scombinato con cui a tratti si procede, dando l’impressione che il regolamento dei conti personali sia prevalente rispetto ai compiti istituzionali e al portamento richiesto dalla scena pubblica, specialmente in tempi di austerità. Rattrista il deterioramento del costume e del linguaggio pubblico, nonché la reciproca, sistematica denigrazione, poiché così è il senso civico a corrompersi, complicando ogni ipotesi di rinascimento anche politico. Mortifica soprattutto dover prendere atto di comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui. Non è la prima volta che ci occorre di annotarlo: chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole «della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda» (Prolusione al Consiglio Permanente del 21-24 settembre 2009 e del 24-27 gennaio 2011). Si rincorrono, con mesta sollecitudine, racconti che, se comprovati, a livelli diversi rilevano stili di vita difficilmente compatibili con la dignità delle persone e il decoro delle istituzioni e della vita pubblica. Da più parti, nelle ultime settimane, si sono elevate voci che invocavano nostri pronunciamenti. Forse che davvero è mancata in questi anni la voce responsabile del Magistero ecclesiale che chiedeva e chiede orizzonti di vita buona, libera dal pansessualismo e dal relativismo amorale? Annotava giorni fa il professor Franco Casavola, Presidente emerito della Corte Costituzionale: «L’unica voce che denuncia i guasti della società della politica è quella della Chiesa cattolica» (Corriere della sera, 20 settembre 2011). Lo citiamo non per vantare titoli, ma per invitare tutti a non cercare alibi. Ci commuove sentire la fiducia e la gratitudine che vengono espresse quando, come Vescovi, ci rechiamo nei molteplici ambienti di lavoro delle nostre città, campagne, porti. Ci commuovono soprattutto le parole della gente più semplice, dei lavoratori più umili: noi vi siamo grati per la vostra gratitudine che ci riconosce Pastori e amici, riferimenti affidabili là dove, per voi e le vostre famiglie, guadagnate un pane spesso difficile e a volte incerto. I vostri sentimenti ci invitano all’umiltà, responsabili come siamo del patrimonio di fiducia che ci confidate. Ci incoraggiano a esservi sempre più vicini ovunque, per raccogliere le ansie e le gioie dei vostri cuori, continuando a dar loro voce ed espressione. Noi nulla chiediamo, se non di starvi accanto con il rispetto e l’amore di Cristo e della Chiesa.
Tornando allo scenario generale, è l’esibizione talora a colpire. Come colpisce l’ingente mole di strumenti di indagine messa in campo su questi versanti, quando altri restano disattesi e indisturbati. E colpisce la dovizia delle cronache a ciò dedicate. Nessun equivoco tuttavia può qui annidarsi. La responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé, a prescindere dalle strumentalizzazioni che pur non mancano. I comportamenti licenziosi e le relazioni improprie sono in se stessi negativi e producono un danno sociale a prescindere dalla loro notorietà. Ammorbano l’aria e appesantiscono il cammino comune. Tanto più ciò è destinato ad accadere in una società mediatizzata, in cui lo svelamento del torbido, oltre a essere compito di vigilanza, diventa contagioso ed è motore di mercato. Da una situazione abnorme se ne generano altre, e l’equilibrio generale ne risente in maniera progressiva. È nota la difficoltà a innescare la marcia di uno sviluppo che riduca la mancanza di lavoro, ed è noto il peso che i provvedimenti economici hanno caricato sulle famiglie; non si può, rispetto a queste dinamiche, assecondare scelte dissipatorie e banalizzanti. La collettività guarda con sgomento gli attori della scena pubblica e l’immagine del Paese all’esterno ne viene pericolosamente fiaccata. Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili. La storia ne darà atto. Solo comportamenti congrui ed esemplari, infatti, commisurati alla durezza della situazione, hanno titolo per convincere a desistere dal pericoloso gioco dei veti e degli egoismi incrociati.
La questione morale, complessivamente intesa, non è un’invenzione mediatica: nella dimensione politica, come in ciascun altro ambito privato o pubblico, essa è un’evenienza grave, che ha in sé un appello urgente. Non è una debolezza esclusiva di una parte soltanto e non riguarda semplicemente i singoli, ma gruppi, strutture, ordinamenti, a proposito dei quali è necessario che ciascuna istituzione rispetti rigorosamente i propri ambiti di competenza e di azione, anche nell’esercizio del reciproco controllo. Nessuno può negare la generosa dedizione e la limpida rettitudine di molti che operano nella gestione della cosa pubblica, come pure dell’economia, della finanza e dell’impresa: a costoro vanno rinnovati stima e convinto incoraggiamento. Si noti tuttavia che la questione morale, quando intacca la politica, ha innegabili incidenze culturali ed educative. Contribuisce, di fatto, a propagare la cultura di un’esistenza facile e gaudente, quando questa dovrebbe lasciare il passo alla cultura della serietà e del sacrificio, fondamentale per imparare a prendere responsabilmente la vita. Ecco perché si tratta non solo di fare in maniera diversa, ma di pensare diversamente: c’è da purificare l’aria, perché le nuove generazioni – crescendo – non restino avvelenate. Chi rientra oggi nella classe dirigente del Paese deve sapere che ha doveri specifici di trasparenza ed economicità: se non altro, per rispettare i cittadini e non umiliare i poveri. Specie in situazioni come quella attuale, ci è d’obbligo richiamare il principio prevalente dell’equità che va assunto con rigore e applicato senza sconti, rendendo meno insopportabili gli aggiustamenti più austeri. È sull’impegno a combattere la corruzione, piovra inesausta dai tentacoli mobilissimi, che la politica oggi è chiamata a severo esame. L’improprio sfruttamento della funzione pubblica è grave per le scelte a cascata che esso determina e per i legami che possono pesare anche a distanza di tempo. Non si capisce quale legittimazione possano avere in un consorzio democratico i comitati di affari che, non previsti dall’ordinamento, si auto-impongono attraverso il reticolo clientelare, andando a intasare la vita pubblica con remunerazioni – in genere – tutt’altro che popolari. E pur tuttavia il loro maggior costo sta nella capziosità dei condizionamenti, nell’intermediazione appaltistica, nei suggerimenti interessati di nomine e promozioni. Al punto in cui siamo, è essenziale drenare tutte le risorse disponibili – intellettuali, economiche e di tempo – convogliandole verso l’utilità comune. Solo per questa via si può salvare dal discredito generalizzato il sistema della rappresentanza, il quale deve dotarsi di anticorpi adeguati, cominciando a riconoscere ai cittadini la titolarità loro dovuta.
L’altro fronte vitale per la nostra democrazia è l’impegno di contrasto all’evasione fiscale. Difficile sottrarsi all’impressione che non tutto sia stato finora messo in campo per rimuovere questo cancro sociale, che sta soffocando l’economia e prosciugando l’affidabilità civile delle classi più abbienti. Il grottesco sistema delle società di comodo che consentono l’abbattimento artificioso dei redditi appare – alla luce dei fatti – non solo indecoroso ma anche insostenibile sotto il profilo etico. Bisogna che gli onesti si sentano stimati, e i virtuosi siano premiati. Sono tanti i cittadini per bene e le famiglie che adempiono positivamente i loro compiti. A un’osservazione attenta, le ragioni per cui guardare avanti ci sono: la strada si è fatta più impervia e il consumismo potrebbe averci fiaccato, ma il popolo italiano odierno sa di non essere da meno delle generazioni che l’hanno preceduto. E sa anche che le conquiste di ieri hanno oggi bisogno di essere riguadagnate: il «parassitismo esistenziale» infatti è solo istinto di psicologie fragili e derelitte. Il brontolio sordo non aiuta a vivere meglio, demotiva anzi ulteriormente. La gente di questo Paese dà il meglio di sé nei momenti difficili: certo, le occorre per questo un obiettivo credibile, per cui valga la pena impegnarsi. Questo obiettivo c’è, e coincide con il portare l’Italia fuori dal guado in cui si trova anche per un certo scoramento. Portarla fuori perché sia all’altezza delle proprie responsabilità storiche e culturali. Il che significa darle il futuro che merita, e che serve al mondo intero. L’Italia ha una missione da compiere, l’ha avuta nel passato e l’ha per il futuro. Non deve autodenigrarsi! Bisogna dunque reagire con freschezza di visione e nuovo entusiasmo, senza il quale è difficile rilanciare qualunque crescita, perseguire qualunque sviluppo.
La Chiesa pellegrina in Italia non intende sottrarsi alle attese e alle responsabilità che le competono. Negli ultimi anni, in coincidenza col dispiegarsi della crisi, essa ha intensificato la propria capillare presenza, a cerniera tra il territorio e i bisogni della gente. Le iniziative molteplici e straordinarie delle diocesi e quella stessa – «Il prestito della speranza» – promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana, si sono aggiunte alla fitta rete di vicinanza e di solidarietà quotidiana; e testimoniano la partecipazione sincera della comunità credente alle ansie comuni. Nel frattempo, anche il moltiplicarsi di impegni a favore delle popolazioni più colpite e quelle più derelitte del mondo documenta la tensione che ci pervade, e ci ha indotti a operare ogni risparmio e potare poste di bilancio consolidate per concentrarci sui fronti oggi più esposti. Fidandoci dell’aiuto di Dio che mai manca, siamo intensamente grati alla Caritas e alla Migrantes per quanto fanno ogni giorno, al di fuori di qualsiasi pubblicità, canalizzando e dando sbocchi ravvicinati e credibili alla carità della Chiesa e di molti italiani. Quanto alla discussione, non sempre garbata e informata, che c’è stata negli ultimi tempi circa le risorse della Chiesa, facciamo solo notare che per noi, sacerdoti e Vescovi, e per la nostra sussistenza, basta in realtà poco. Così come per la gestione degli enti dipendenti dalle diocesi: essa si ispira ai criteri della trasparenza, senza i quali non potrebbe sussistere l’estimazione da parte di molti. Se abusi si dovessero accertare, siano perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti. Per il resto, ci affidiamo all’intelligenza e all’onestà degli uomini, segnalando che risposte a nostro avviso esaurienti, seppur non troppo considerate, sono già state offerte all’opinione pubblica: segnalo per tutte la pagina a firma di Patrizia Clementi, pubblicata su Avvenire lo scorso 21 agosto.
Riguardo alla presenza dei cattolici nella società civile e nella politica, siamo convinti che, anche quando non risultano sugli spalti, essi sono per lo più là dove vita e vocazione li portano. Gli anni da cui proveniamo potrebbero aver indotto talora a tentazioni e smarrimenti, ma hanno indubbiamente spinto i cattolici, alla scuola dei Papi, a maturare una più avvertita coscienza di sé e del proprio compito nel mondo. Un nucleo più ristretto ma sempre significativo di credenti, sollecitati dagli eventi e sensibilizzati nelle comunità cristiane, ha colto la rinnovata perentorietà di rendere politicamente più operante la propria fede. Sono così nati percorsi diversi, a livelli molteplici, per quanti intendono concorrere alla vitalità e alla modernità della polis, percorsi che hanno dato talora un senso anche di dispersione e scarsa incidenza. Tuttavia, non si può non riconoscere che si è trattato di una sorta di incubazione che, se non ha mancato di produrre qua e là dei primi risultati, sta determinando una situazione nuova, rispetto alla quale un osservatore della tempra di Giuseppe De Rita alcune settimane fa annotava: «Chi fa politica non si rende conto che milioni di fedeli vivono una vicinanza religiosa che si fa sempre più attenta ai “fatti della vita politica”, con comuni opinioni socio-politiche, e con ambizioni di vita comunitaria di buona qualità» (Corriere della sera, 6 agosto 2011). Sta lievitando infatti una partecipazione che si farebbe fatica a non registrare, e una nuova consapevolezza che la fede cristiana non danneggia in alcun modo la vita sociale. Anzi! A dar coscienza ai cattolici oggi non è anzitutto un’appartenenza esterna, ma i valori dell’umanizzazione: chi è l’uomo, qual è la sua struttura costitutiva, il suo radicamento religioso, la via aurea dell’autentica giustizia e della pace, del bene comune… Valori – lo diciamo solo di passaggio – che si sta imparando a riconoscere e a proporre con crescente coraggio, e che in realtà finiscono per far sentire i cattolici più uniti di quanto taluno non vorrebbe credere. Nel contempo, sempre di più richiamano anche l’interesse di chi esplicitamente cattolico non si sente. A un tempo, c’è un patrimonio di cultura fatto di rappresentanza sociale e di processi di maturazione comunitaria. Dove avviene qualcosa di simile, nel contesto italiano? Ebbene, questo giacimento valoriale ed esistenziale rappresenta la bussola interiormente adottata dai cattolici, e da esso si sprigionano ormai ordinariamente esperienze che sono un vivaio di sensibilità, dedizione, intelligenza che sempre più si metterà a disposizione della comunità e del Paese. Non sempre tutto è così lineare, è vero. Lentezze, chiusure, intimismi restano in continuo agguato, ma ci sembra che una tensione si vada sviluppando grazie alle comunità cristiane, alle molteplici aggregazioni ecclesiali o di ispirazione cristiana, e grazie anche al lavoro realizzato dai nostri media, che sono diventati dei concreti laboratori di idee e dei riferimenti ormai imprescindibili. Sembra rapidamente stagliarsi all’orizzonte la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica, che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita – sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni.
Sarà bene anche affinare l’attitudine a cercare, sotto la scorza dei cambiamenti di breve periodo, le trasformazioni più profonde e durature, consci, tra l’altro, che una certa cultura radicale − al pari di una mentalità demolitrice − tende a inquinare ogni ambito di pensiero e di decisione. Muovendo da una concezione individualistica, essa rinchiude la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale. Per questo, dietro una maschera irridente, riduce l’uomo solo con se stesso, e corrode la società, intessuta invece di relazioni interpersonali e legami virtuosi di dedizione e sacrificio.
La transizione dei cattolici verso il nuovo inevitabilmente maturerà all’interno della transizione più generale del Paese, e oserei dire anche dell’Europa, secondo la linea culturale del realismo cristiano, e secondo quegli atteggiamenti culturali di innovazione, moderazione e sobrietà che da sempre la connotano. È forse «pensabile – si chiedeva il Rettore magnifico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, professor Lorenzo Ornaghi – che rispetto a tale politica risultino latitanti, facilmente emarginabili, irrilevanti, non tanto singole personalità cattoliche, quanto i cattolici italiani come presenza vitale e immediatamente riconoscibile, perché efficacemente organizzata?» (Intervista ad Avvenire, 24 luglio 2011).
All’inizio del nuovo anno scolastico, desideriamo rivolgere un augurio sentito ai giovani che si accingono a compiere questo ulteriore tragitto della loro crescita. La scuola si trova spesso coinvolta in polemiche e vicissitudini anche serie, che tuttavia restano ai margini rispetto al bonum che, in questa istituzione nevralgica, è rappresentato dal processo di crescita umana e dallo sviluppo della conoscenza nei protagonisti principali che sono gli studenti. A loro il nostro pensiero affettuoso e pieno di fiducia: imparino a pensare in autonomia e senso critico, sappiano infatti che è questa l’attitudine principale di libertà e responsabilità, ed è anche l’intelaiatura su cui può proficuamente poggiare l’esperienza comunicativa e l’esposizione mediatica. A loro associamo gli insegnanti e tutto il personale amministrativo e tecnico della scuola italiana. Siano consapevoli che – insieme alla famiglia − sono garanti dell’impresa qualitativamente più importante e sacra di ogni comunità: la cura educativa, culturale e intellettuale delle nuove generazioni. Alla classe politica e amministrativa chiediamo di dare ragione della centralità della scuola, con lucidità e lungimiranza, adottando decisioni di equità e di giustizia rispetto a tutte le esperienze proficuamente attive, dalla scuola materna all’università, valorizzando anche il patrimonio della scuola cattolica e sostenendo il diritto dei genitori di scegliere l’educazione per i propri figli. Senza considerare che ogni volta che una scuola paritaria è costretta a chiudere, ne deriva un aggravio economico per lo Stato e una ferita per la scuola nel suo insieme.
Continuiamo a prestare l’attenzione necessaria al comparto comunicativo e televisivo, affinché le innovazioni avvengano nel rispetto del pluralismo e della vocazione culturale del nostro popolo, a partire dalle esigenze dei singoli territori.
Ai quindici ostaggi italiani che si trovano «prigionieri» in Africa per opera di estremisti o criminali va la nostra viva solidarietà, la nostra premura e l’auspicio che quanto prima, grazie all’iniziativa accorta e vigorosa delle autorità, possano essere restituiti sani all’affetto e alle necessità delle loro famiglie. Ai parenti delle vittime del terrorismo caduti in patria o all’estero diciamo la nostra continua vicinanza, ammirando quel coraggio della quotidianità che testimoniano agli occhi di chi non vuol essere un cittadino svagato né immemore.
Il nostro esplicito appoggio va ai sacerdoti che sono sotto il tiro della malavita e a quanti, laici o religiosi, sono impegnati sul territorio in nome della giustizia e del rispetto della legge. Chi attacca loro, lo sappia, attacca noi tutti.
Conosciamo di persona, e tramite i nostri cappellani, le condizioni in cui si trovano molti dei carcerati e di coloro che li custodiscono. Disagi che troppo spesso arrivano a livelli intollerabili – e a scelte tristemente estreme – a motivo del sovraffollamento registrabile in diversi penitenziari del nostro Paese. Si sappia che tutto ciò che non viene fatto per la giusta pena e l’intelligente recupero dei carcerati, la comunità nazionale lo nega a se stessa e alle prospettive del proprio benessere.
La situazione del lavoro, la disoccupazione, il precariato, l’inattività di molti giovani: sono un nostro assillo costante. Conosciamo da vicino l’angoscia e i drammi, l’inquietudine e la rabbia di molti. Vorremmo avere una speciale capacità taumaturgica per risolvere in particolare questi problemi, tanto siamo convinti che la dignità della persona passa per il lavoro riconosciuto nella sua valenza sociale, così come matura nel grembo della famiglia che però deve essere posta al centro di politiche di sostegno dirette, concrete, efficaci. Non si tratta di una degnazione del mercato: il lavoro è un diritto-dovere iscritto nell’ordine creaturale, e dunque la società ha l’obbligo di porre le condizioni perché esso possa esplicarsi per tutti.
Infine, esprimiamo l’auspicio che la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento possa giungere quanto prima in porto: dopo l’approvazione della Camera dei Deputati, essa attende il secondo passaggio al Senato. La sollecitiamo con rispetto, nella persuasione che si tratta di un provvedimento oggi necessario per salvaguardare il diritto di tutti alla vita.
L’articolazione dell’intervento mi induce a procedere decisamente verso la conclusione, assicurando la nostra quotidiana preghiera per le situazioni di angustia che affliggono il mondo. Innanzitutto nel Corno d’Africa dove una carestia, la peggiore degli ultimi sessant’anni, affligge almeno undici milioni di persone. Bisogna far di tutto per portare aiuto a queste persone nei loro villaggi e nelle loro città, per questo si va allertando la solidarietà del mondo, e insieme la nostra. La colletta nazionale speciale, svoltasi il 18 settembre, voleva essere un gesto corale, nella cornice indicata dal Papa con l’accorato Discorso alla 37a Assemblea della Fao, il 1° luglio 2011. Si tratta pur sempre di una piccola goccia nel mare delle urgenze. Non abbandoniamo questi fratelli, non carichiamo sulla nostra coscienza una nuova ecatombe. Più in generale, facciamo sì che il nostro modo di vivere cessi di far parte del problema, per concorrere invece alle sue soluzioni. In Africa, com’è noto, è nata la cinquantaquattresima nazione, il Sud Sudan, a cui va la nostra simpatia e la nostra amicizia. Protagonista primario di questa indipendenza è stato un nostro missionario e confratello, S.E. Monsignor Cesare Mazzolari: la sua improvvisa morte ha finito per dare ancor più rilievo all’opera di questo straordinario servitore del Vangelo che, per intelligenza e dedizione, è degno di figurare tra i più grandi missionari di ogni tempo. Purtroppo, l’amato Continente africano è sottoposto a tali pressioni e condizionamenti – interni ed esterni – da far temere per un suo realistico futuro di libertà e progresso. Ma guai ad arrendersi, e guai a non dare a tanti gesti di novità positiva – che pur non mancano – il loro giusto valore. Strategie di condizionamento stanno progressivamente intaccando anche gli esiti di quelle che sono state chiamate le primavere del Nordafrica, ciascuna delle quali – già lo sapevamo – va marcando un profilo proprio. Auguriamoci che si confermi l’evoluzione pacifica in atto nel Marocco e in Giordania; che la situazione della Siria non degeneri oltre e che si arrivi ad un nuovo equilibrio interno, di garanzia per tutti; che dalla tormentata vicenda bellica che ha interessato la Libia, segnata dall’ombra degli affari, si possa almeno trarre a livello internazionale la consapevolezza che la sovranità di un Paese non può andare contro il diritto alla vita dei suoi cittadini. Queste rivoluzioni hanno comunque assegnato alla ricorrenza decennale dell’11 settembre 2011 un carattere di movimento e di speranza. Auspichiamo che il raduno interreligioso di Assisi, indetto da Benedetto XVI per il 27 ottobre prossimo, a venticinque anni dal primo incontro voluto da Papa Wojtyla, sprigioni per intero le sua potenzialità di bene. A tale scopo noi e le nostre comunità ci sentiamo impegnati a pregare. È il modo più significativo per solidarizzare con i cristiani perseguitati in vari Paesi, dall’Iraq al Pakistan, dal Vietnam alla Cina.
Vi ringrazio, Confratelli cari, per la Vostra amabile attenzione che diviene subito, ne sono certo, occasione per approfondimenti e contributi importanti. Maria che, nell’Atto di affidamento in occasione del 150° dell’Unità d’Italia, il Papa ha invocato con noi e per noi quale Mater unitatis (cfr Discorso, 26 maggio 2011), indirizzi i nostri cuore e sostenga i nostri passi. Grazie.