Cosa sta succedendo in Italia, erano prevedibili i risultati elettorali recenti?
«Non c’è dubbio che quello che è accaduto in queste settimane, come spesso accade, in parte è merito dell’opposizione, ma in parte è andato oltre i nostri meriti e oltre le nostre attese. Si è messo in movimento qualcosa, penso soprattutto soprattutto ai giovani, che sono stati protagonisti della campagna elettorale e della campagna referendaria molto al di là di quello che ci si poteva aspettare. Io non credo che c’entri solo Berlusconi. C’entra anche lui, perché si è superato un limite di tollerabilità, ed è scattato un sentimento di riscossa civile, di indignazione, che è un sentimento salutare. Ma io credo che ci sia qualcos’altro, fenomeni più generali. Noi siamo un paese dove si oscilla tra il provincialismo e l’estremo cosmopolitismo. Nel senso che siamo un paese in comunicazione con il mondo, e nel mondo comincia a esserci un sentimento nuovo, perché una lunga stagione di liberismo privato, di dominio dell’economia, e tutti questi valori, che sono stati non solo una forma di governo ma, si direbbe con un linguaggio tranchant, un’egemonia, sono entrati profondamenti in crisi. E quindi le società occidentali sono scosse da una ventata culturale nuova che arriva anche in Italia, ed è un grande fatto positivo. Io non penso che la società italiana sia statica o che bisogni semplicemente affidarsi alla manovra politica: questa è una caricatura. Noi dobbiamo sapere interpretare il nostro cambiamento. Oggi questo paese è in movimento ed è in movimento verso una coscienza civile più avanzata. E il cambiamento politico che noi dobbiamo preparare, perché è urgente che ci sia un’altra guida politica nel paese, deve sapersi collegare a questa realtà.»
Secondo te il mondo lo cambiano più i leader, gli individui, o i popoli e le “masse” come si diceva prima?
«La mia cultura tende a pensare che sono i movimenti collettivi quelli che determinano i cambiamenti più profondi, più duraturi. Naturalmente la politica oggi è fortemente personalizzata, e ci vogliono leader in grado di interpretare questi movimenti collettivi: però un leader che non sia l’espressione di un movimento di fondo della società è un finto leader, e alla fine non produce nulla al di là delle sue fortune personali. Un leader che produce un cambiamento profondo nella società è la forma della leadership più moderna e più democratica. Quindi, sul tema della leadership io penso che si debba discutere e che dica delle cose molto sagge Pier Luigi Bersani quando dice “Noi dobbiamo ricostruire una dimensione collettiva dell’agire politico”. Un leader è il leader non perché scrive il suo nome sulla scheda al posto di un simbolo di partito. Un leader è il leader quando uno vede il simbolo di un partito e immediatamente sa chi c’è dietro, non c’è bisogno di scriverlo sopra. Questa forma esteriore della leadership, questa forma di personalizzazione che ha finito per cancellare la dimensione collettiva della politica, secondo me è dannosa.»
Però non trovi, in questo, che specularmente al centrodestra (dove hanno senz’altro un leader e invece una certa limitatezza di contenuti, progetti, visioni), il centrosinistra e il PD abbiano una tale ricchezza di contenuti, elaborazioni, visioni, progetti, programmi che forse appunto quello che gli manca è più veramente qualcuno che sappia esserne motore, modello, traino, guida, rappresentante e interprete?
«Guarda, è molto più difficile fare il leader in uno schieramento politico che è ricco di tante personalità, che non fare il leader in un’area politica che è più povera di storia, di personalità, e soprattutto tende anche culturalmente a una visione leaderistica della politica. La cultura della destra è molto legata a quella del capo, al riconoscersi nel capo. Noi veniamo da una cultura in cui c’è una fortissima componente libertaria, c’è poco da fare. Tanto più che, quando ci siamo liberati della tradizione comunista, noi abbiamo avuto persino uno sfrenamento, da questo punto di vista, di forme di libertà. Quindi è molto complicato guidare il centrosinistra. Secondo me l’idea che noi dobbiamo aspettare l’uomo della Provvidenza è un illusione»
Però la vittoria di Barack Obama negli USA, che non è sicuramente una vittoria del centrodestra, è una vittoria che sta molto in quella persona lì; e, fatte le dovute proporzioni, le recenti vittorie dell’opposizione nelle elezioni amministrative hanno a che fare molto con quelle persone in quel momento: Giuliano Pisapia, Piero Fassino, Luigi De Magistris…
«È vero, però è anche vero che se uno avesse detto tre mesi fa che Piero Fassino era un leader nuovo, ci avrebbero detto: “Voi riproponete sempre il vecchio.” Poi tu vedi che in realtà, quando una persona ha forza, competenza e personalità si afferma, in un determinato contesto, con una capacità di leadership. Io sono stato entusiasta che Giuliano Pisapia sia apparso come una grande novità della politica italiana, anche perché nei quindici anni in cui è stato deputato insieme con me abbiamo fatto amicizia. E penso che il fatto che lui sia un uomo che ha una lunga esperienza politica lo abbia molto aiutato e lo aiuterà moltissimo anche a fare il sindaco di Milano. Poi, se i giornali me lo presentano come nuovo, va bene. Però non raccontiamoci le favole, almeno noi»
Che cosa immaginavi del tuo futuro quando hai cominciato a fare politica?
«Per la mia generazione, per come sono cresciuto io, l’aspirazione fondamentale del mio impegno politico era quella di diventare segretario del partito comunista. Quando sono arrivato a quarant’anni non c’era più.»
C’è un’immagine pubblica di te come persona molto sicura del fatto suo, molto indipendente e autonoma nel giudizio, nel pensiero, nelle scelte e nelle decisioni, fino a essere disegnata e vista e letta anche da molti come una persona “antipatica”, lettura che immagino ti sarà assolutamente familiare…
«Ma che non condivido!»
Ma cosa ti dici del fatto che tu sia letto come antipatico, presuntuoso, persino spocchioso? Trovi che ci sia un inevitabile fondamento, oppure non te lo spieghi?
«Non lo so, è sempre molto complicato parlare per sè in questo modo. Che poi ognuno innanzitutto nella vita pubblica esiste per come esiste nell’immaginario collettivo, e indubbiamente mi si sono appiccicate addosso delle chiavi di lettura che io trovo deformanti, profondamente deformanti. Ma d’altra parte è più facile cambiare te stesso che non l’immagine e l’idea degli altri, che tende a resistere nel tempo, soprattutto quando poi l’informazione ne fa un cliché.»
E tu sei cambiato?
«Ma io tendo a cambiare, perché no? A sfumare, a chiarire. Poi nel corso della vita normalmente si smussano gli angoli, si capiscono gli sbagli che si sono fatti. Con l’andar degli anni c’è una maggiore tendenza, in realtà (almeno così la vedo io), non a indurirsi, ma semmai a intenerirsi. Quindi, a me non sembra di essere quella persona… A volte lo sono, nei confronti di un certo mondo, ma che è abbastanza limitato. L’avvocato Agnelli, di cui dopo abbiamo vissuto molte imitazioni, ma l’avvocato Agnelli, quello autentico, aveva dei difetti tipici della grande borghesia italiana (un certo cinismo, un certo distacco dal suo paese): ma era un uomo di grande cultura e di grande intelligenza col quale ho avuto un buon rapporto personale. E una volta lui mi disse una cosa, che io considero un grande onore. Mi disse: “Guardi, lei risulta e risulterà sempre più indigesto all’establishment di questo paese.” E lui se ne intendeva, e lo disse tutto divertito. Perché loro non sono abituati alla pretesa dei politici di essere così importanti. E questo è molto importante, perché il modo in cui ti vede l’establishment è il modo in cui ti vedono i giornali. Perché i giornali in Italia sono i portavoce dell’establishment, che ne sono i proprietari. E quindi io ho sempre avuto un grave problema con questo mondo, nel senso che, in un paese in cui la politica è sempre stata debole, io ho sempre avuto l’idea che la politica debba essere indipendente. A volte anche sbagliando, ma indipendente. E questo una parte dell’Italia che conta non l’ha mai potuto sopportare.»