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  • Martedì 31 maggio 2011

Itabolario: Mafia (1865)

Massimo Arcangeli ha raccolto 150 storie dell'Italia unita, una per ogni anno: Itabolario. L'Italia unita in 150 parole (Carocci editore)

di Marcello Ravesi

1865. Mafia (s. f.)

Sulla scrivania del ministro degli Interni giunge una relazione confidenziale, datata 25 aprile, a firma del nuovo prefetto di Palermo, il nobile orvietano Filippo Antonio Gualterio, da pochi giorni insediatosi nel suo ufficio. Vi si parla di uno «spirito pubblico sì gravemente conturbato», di un «grave e prolungato malinteso fra il Paese e l’Autorità» da cui trarrebbe alimento «la cosiddetta Maffia od associazione malandrinesca». Il proposito – poi realizzato – del Gualterio è quello di organizzare una grossa operazione di pubblica sicurezza per reprimere una “trista associazione” «sempremai dipendente dai partiti»; col malcelato secondo fine di assestare un colpo decisivo agli oppositori del governo della Destra, sia garibaldini sia, soprattutto, borbonici, accusati di complicità con la malvivenza locale (cfr. Alatri, 1954, pp. 92-100; Brancato, 1986, p. 103). Di lì a poco, allo stesso prefetto di Palermo perviene dal delegato di pubblica sicurezza di Carini, in data 10 agosto 1865, una “memoria riservata” in cui alcuni individui appena arrestati sono identificati come «alle dipendenze del partito della Maffia» (cfr. Scichilone, 1952, pp. 43, 164-5). Così il termine mafia (o maffia, con adeguamento al toscano) fa il suo ingresso ufficiale nella scrittura in lingua italiana col significato “tecnico” di indicare una specifica forma di associazione a delinquere. Tuttavia, per almeno un quindicennio a seguire, nei rapporti dei funzionari locali della destra storica non si fanno nette distinzioni fra mafioso, malandrino, manutengolo, brigante, renitente alla leva, disertore ecc. (cfr. Novacco, 1959, p. 209; Id., 1963, pp. 147-8; Lupo, 2004, p. 14); solo col tempo, dunque, si verrà precisando il riferimento a quelle consorterie di “uomini d’onore” che oppongono all’autorità dello Stato il diritto di farsi giustizia da sé, la solidarietà omertosa, il dovere del segreto. Peraltro, se per mafia si debba intendere principalmente una mentalità, un comune sentire del siciliano (in prospettiva “culturalista”), oppure un insieme di associazioni con scopi criminali (in prospettiva “organizzativa”), è questione che attraversa tutto il Novecento (cfr. Sciarrone, 1998, pp. 4-8, 19-23, 27-30).

Va da sé che, indipendentemente dalla parola, esisteva il fenomeno. La presenza di compagini mafiose ben strutturate è attestata con certezza fin dalla prima metà dell’Ottocento. Nel 1838 il procuratore generale di Trapani, Pietro Calà Ulloa, aveva scritto al ministro della Giustizia del Regno borbonico delle Due Sicilie, Cataldo Parisio: «Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti […]. Sono tante specie di piccoli governi nel Governo» (cfr. Tessitore, 1997, p. 23; Paoli, 2000, pp. 5, 31-2; Lupo, 2004, p. 56). La genesi di questi sodalizi viene per lo più ricondotta al vuoto di potere seguito alla dissoluzione del regime feudale in Sicilia (abolito formalmente nel 1812) e dovuto all’incapacità delle autorità politiche centrali – prima borboniche e poi sabaude – di esercitare mansioni di controllo a livello di ordine pubblico. Di qui la formazione di vere e proprie milizie private al servizio dei proprietari terrieri e degli affittuari più potenti, diffuse in particolar modo nelle province occidentali dell’isola – Palermo, Trapani, Girgenti, quelle che si riveleranno poi a più elevata concentrazione mafiosa – e capaci di offrire a una popolazione sempre più abbandonata a sé stessa quei servizi di protezione e mediazione sociale che lo Stato non era in grado di garantire (cfr. Brancato, 1986, pp. 45-62; Paoli, 2000, pp. 244-9; Lupo, 2004, p. 54). Altri studiosi, tuttavia, rilevano le prime tracce di pratiche mafiose intorno al XVI-XVII secolo, in relazione al sistema di governo spagnolo (cfr. per esempio Tessitore, 1997, pp. 26-51); altri ancora fanno risalire il fenomeno ai tempi della civiltà araba, o addirittura greca.

Su mafia, poi attestata in LCI, 1881, s. v. (come voce siciliana «sventuratamente […] passata […] nella lingua comune»), anche i lessicografi del dialetto siciliano tacciono curiosamente fino al periodo postunitario. Il primo a registrare la voce è Traina (1868, s. v.), per il quale mafia, in siciliano, sarebbe – con velata polemica verso il malgoverno dei “continentali” – un neologismo di supposta origine toscana. Eppure il termine nel dialetto locale esisteva, anche se con un significato diverso. Secondo la testimonianza dello studioso di folklore siciliano Giuseppe Pitrè, palermitano del rione del Borgo, che era una volta separato dalla città vera e propria, mafia e mafioso erano termini circolanti negli strati popolari della lingua già nella prima metà dell’Ottocento, e senza valore negativo:

al Borgo la voce mafia coi suoi derivati valse e vale sempre bellezza, graziosità, perfezione, eccellenza nel suo genere. Una ragazza bellina, che apparisca a noi cosciente di esser tale […] e nell’insieme abbia un non so che di superiore e di elevato, ha della mafia, ed è mafiusa, mafiusedda. […] All’idea di bellezza la voce mafia unisce quella di superiorità e di valentia nel miglior significato della parola e, discorrendo di uomo, qualche cosa di più: coscienza d’esser uomo, sicurtà d’animo e, in eccesso di questa, baldezza (Pitrè, 1889, pp. 289-90).

E similmente, qualche anno dopo, Luigi Capuana:

Mafia, una volta non voleva dire in Sicilia una specie di associazione di malfattori; e il mafioso non era un ladro, né molto meno un brigante. L’aggettivo mafioso significava qualcosa di grazioso e gentile, qualcosa di bizzarro, di spocchioso, di squisito; mafiosa veniva chiamata una bella ragazza, mafioso qualunque oggetto che i francesi direbbero chic. E il mafioso era ordinariamente un giovane con qualche grillo in testa, vanitoso della sua bellezza virile, della sua forza muscolare; che non si lasciava posare una mosca sul naso; che riparava a modo suo torti, o imponeva riconciliazioni (Capuana, 1972, p. 145).

La valenza positiva del vocabolo, che oscilla fra bellezza ed eccellenza, baldanza, orgoglio ed eleganza, in realtà non si è mai persa del tutto. Non solo si conserva in mafiusu ma è viva nei dialetti del Meridione e persino in quelli dell’Italia mediana e della Toscana, nei quali, tuttavia, il tipo maf(f)ia assume più spesso i tratti semantici della “boria”, della “spocchia”, della “vanità”, dell’“eleganza pacchiana” (Alinei, 2007, pp. 272-4). Forse la diffusione sovraregionale della parola in questa accezione si deve alla leva nazionale obbligatoria, importante fatto post-unitario che ha favorito il contatto linguistico fra dialettofoni di diversa origine (cfr. Prati, 1940, pp. 125-8; Renzi, 1966); del resto, anche in italiano, fare la mafia è proprio del gergo militare nel senso di “sfoggiare eleganza” (cfr. DM, 1918, s. v.).

È assai probabile che a far scivolare mafiusu verso il nuovo e più comune significato deteriore – oltreché a dare al termine e al fenomeno pubblicità nazionale – abbia contribuito lo straordinario successo del lavoro teatrale I mafiusi di la Vicarìa, scritto dal maestro elementare Gaspare Mosca in collaborazione con l’attore Giuseppe Rizzotto, rappresentato dapprima a Palermo nel 1863 e poi replicato numerose volte in molte città del Regno (cfr. Novacco, 1959, pp. 208-9; Loschiavo, 1962, dove si può leggere il testo con la traduzione italiana a fronte: pp. 211-359; Barbina, 1970, pp. 42-3; Sgroi, 1994, pp. 219-21; Leone, 2004, pp. 372-3). L’opera dialettale, ambientata in un’epoca di poco anteriore all’impresa garibaldina (1854), aveva messo in scena la vita dei detenuti in un’ala delle carceri nuove di Palermo (Vicarìa nova), altrimenti conosciute come quelle dell’Ucciardone, descrivendo usi, rituali e gergo della malavita associata, la sucività “società” (si badi che nel testo l’organizzazione non è mai indicata col termine mafia, bensì con camorra o, appunto, sucività). Per via teatrale, dunque, e non senza indulgenza, si ufficializza e si rende nota all’opinione pubblica italiana l’esistenza di un’organizzazione retta da vincoli di tipo familistico (le famiglie) che si sostituisce alle istituzioni statali. I sodali condividono un codice culturale in cui l’arroganza e l’ostentazione della superiorità sono valori positivi, specie nella Sicilia postunitaria, disillusa e rancorosa nei confronti del governo centrale (in parte a ragione; un bel quadro a tinte acide della situazione è dipinto da Camilleri, 1995). Così nasce lo stereotipo romantico – giunto fino a noi quasi intatto – del “mafioso aureolato” (cfr. Mazzamuto, 1989), sprezzante del pericolo, determinato e senza scrupoli, ma degno di rispetto. In tutto ciò non va sottovalutata la «funzione creatrice della parola» nel suo farsi «marchio di qualità» (Tessitore, 1997, p. 85); osserva infatti, lucidamente, uno dei primi studiosi del fenomeno mafioso: «mafia ha trovata pronta una classe di violenti e di facinorosi che non aspettava altro che un sostantivo che l’indicasse, ed alla quale i suoi caratteri e la sua importanza speciale nella società siciliana davano diritto ad un nome diverso da quello dei volgari malfattori di altri paesi» (Franchetti, 2000, pp. 103 s.).

Quanto all’etimologia di mafia, le sicurezze sono ben poche. Stando all’ipotesi più nota, già ottocentesca, si tratterebbe di un arabismo del dialetto siciliano: da mahjas “millanteria” (cfr. Avolio, 1882, p. 45, rispolverato da Trovato, 1998); sennonché l’attestazione tarda e una trafila fonetica anomala hanno suscitato qualche perplessità (per altre ipotesi dall’arabo cfr. Novacco, 1959, p. 207). L’incertezza ha dato la stura a uno sciupio di spiegazioni etimologiche; fino alle più bizzarre, come quelle che vanno ricercando possibili acronimie (m.a.f.i.a “morte ai francesi Italia anela”, da ricollegare ai Vespri siciliani, o, peggio ancora, “Mazzini autorizza furti incendi avvelenamenti”). Alcuni studiosi hanno pensato a incroci di parole siciliane: supponendo la derivazione inversa di mafia dall’aggettivo maf(f)iusu (con originario senso deteriore), a sua volta ircocervo rifatto su marfusu “furbo, ingannatore”, marfiuni “marpione”, smurfiusu “smorfioso, sdegnoso” (Lo Monaco, 1990); oppure proponendo la contaminazione di magnusu “pomposo” con smurfiusu o con fiura “(bella) figura”, da cui mafiusu (col senso primario di “elegante e borioso” ed evoluzione semantica verso il senso deteriore) e il deaggettivale mafia (cfr. Leone, 1991, 2002 e 2004). Altri hanno risolto la questione ricorrendo alla radice fonosimbolica maff- “gonfio” (cfr. Lurati, 1998, pp. 217 ss.), magari riconducendo la base onomatopeica -maf- “gonfio, grasso, grosso, pesante” a una matrice africana: Maffìa (nome di un’isola della riviera tanzaniana). Di qui, con una spinta in direzioni diverse, il sema sarebbe penetrato in Europa attraverso rotte commerciali arabe (ar. maifa’a “eminenza” e “luogo di qualche spessore”, che sostiene anche il senso di “personaggio di un certo spicco”); se così fosse mafia avrebbe affinità filogenetiche con gli innumerevoli vocaboli delle lingue europee (romanze e non) variamente caratterizzate da questo tratto semantico, persino con la Marfisa dell’Ariosto (cfr. Natella, 2002). C’è poi chi ha posto la nascita della parola alla fine del Settecento, collegandola al marchio d’infamia imposto ai criminali nell’antico regime: nel linguaggio popolare la voce dotta infamia sarebbe diventata ’nfamia o *famia (con aferesi vocalica o sillabica) e poi mafia (con metatesi, non infrequente in siciliano); il significato più antico sarebbe quindi quello delittuoso, e le accezioni di “eleganza, sfoggio e sim.” sarebbero invece secondarie (cfr. Spagnolo, 2006). Da ultimo una suggestiva teoria ha rintracciato l’origine della parola (e del fenomeno) nella cultura italica a base economica pastorale cosiddetta appenninica, affermatasi in tutta l’Italia centro-meridionale nel II millennio a.C. e declinata nel corso del successivo sotto la pressione dell’innovatrice e vincente civiltà latina. La mafia sarebbe dunque una forma di rivendicazione del potere territoriale perduto da parte di una élite spodestata di pastori-guerrieri italici contro le nuove specificazioni del potere “ufficiale” avvicendatesi nei secoli. La base della parola – che coerentemente non sarebbe autoctona della Sicilia, ma avrebbe avuto il suo focolaio d’irradiazione nel Lazio sannita e nelle regioni abruzzesi contigue – sarebbe una formazione osco-umbra *(a)mafla (con aferesi), affine a un lat. *AMABULA, dalla medesima radice di AMARE e AMICUS e semanticamente equiparabile ad AMICITIA e al lat. pop. *AMICITAS (cfr. Alinei, 2007); avremmo a che fare, in buona sostanza, con gli “amici degli amici”. Il pregio di questa ricostruzione è di far emergere dalla medesima humus italica e pastorale anche le cugine: la camorra, da morra “gregge di pecore” – ampiamente diffuso nei dialetti centro-meridionali –, col prefisso rafforzativo cata- abbreviato in ca- (quindi ca(ta)morra “interesse comune di una comunità pastorale”; l’etimologia corrente si rifà però al napol. morra “torma, banda”: cfr. Giudici, 1981); la ’ndrangheta, risultante dalla composizione del prefisso intra/indra “dentro, all’interno, in fondo” e di *anghita dal lat. *AMIC(I)TAS, ma con particolarità osco-umbre, nel senso finale di “unione stretta e profonda fra amici o alleati” (l’opinione invalsa è però che il termine venga dal gr. ‘ανδραγαθία “coraggio, valore in guerra, virtù”: cfr. Martino, 1978 e 1988).

Al di là dell’origine e dei percorsi semantici del termine, che restano ancora piuttosto nebbiosi, rimane il fatto fondamentale che dopo l’Unità «esso sia utilizzato da tutti […] a definire seppure confusamente un rapporto patologico tra politica, società e criminalità, e che dunque il momento genetico della nostra storia nazionale e statuale segni la prima, generica e molto ambigua percezione dell’esistenza di un problema di questo genere» (Lupo, 2004, p. 49). Essenziale è anche che, per quanto perfettamente acclimato nella lingua italiana, mafia non cessi di evocare il lato negativo della sicilianità. Fra i dialettismi entrati nell’italiano, del resto, il comparto “malavita ed emarginazione” è in buona parte appannaggio del Meridione, Sicilia in testa (cfr. Avolio, 1994, pp. 583-4). Il corredo lessicale di mafia offre all’italiano “in corso” un nutrito mannello di voci mutuate dal dialetto siciliano: cosca, che in origine indicava qualsiasi pianta a foglie raccolte (tipo carciofo) e poi per traslato è diventata “combriccola”; omertà e omertoso, dall’origine discussa (la base è forse lo sp. hombredad “virilità”); picciotto, che ha iniziato a diffondersi con la spedizione dei Mille, ma ancora con il significato di “ragazzotto, giovanotto arrogante”; pizzo “tangente”, che le organizzazioni mafiose impongono ai cittadini in cambio della “protezione” e dei “servizi pubblici” offerti. Per quanto alcuni di questi termini siano attestati in italiano fin dall’Ottocento sono effettivamente entrati nella lingua corrente piuttosto di recente: ancora abbastanza fresco pizzino, dalla cronaca della cattura (2006) del “boss dei boss”, Bernardo Provenzano. Anche pizzo, benché più stagionato, si può tuttavia definire un neologismo, dal momento che sui giornali all’inizio degli anni novanta compariva ancora tra virgolette. Era nato nel secondo Ottocento, forse nell’ambiente carcerario, poiché la mafia faceva pagare a chi entrava in carcere lu pizzu, «cioè il posto dove ci si corica, il posto letto: da capizzu, il capo del letto, il capezzale» (Beccaria, 2006, p. 84); a meno che la spiegazione non risieda in pizzu “becco degli uccelli” (cfr. in particolare fari vagnari u pizzu “far bagnare il becco”, accondiscendere a una modesta offerta, come poteva essere quella di un bicchiere di vino a compenso di un lavoro: Sgroi, 1995, pp. 287-8).

Col Novecento la mafia sbarca anche oltreoceano, dove si consolida il generico Cosa Nostra, pronunciato nel 1963 dal gangster, sotto processo, Joe Valachi, il quale rivela l’esistenza negli Stati Uniti di un’organizzazione segreta di origine siciliana e ne narra la storia (cfr. Lupo, 2002, pp. 250-5; Pezzino, 2003, pp. 102-4). Dalla Sicilia agli USA, dagli USA al mondo: è così che mafia diventa un italianismo planetario. Se PIZZA [1889], seguita da CIAO [1874], è la parola italiana più nota all’estero, mafia è a un’incollatura. In Italia solo all’altezza dei primi anni ottanta dello scorso secolo la società civile prende davvero coscienza del fenomeno e lo Stato comincia a reagire in maniera efficace. Alla mafia si oppone così l’antimafia, si parla di guerra alla mafia, oltre che di guerre di mafia (se intestine). A cavallo fra gli anni ottanta e novanta lo scontro si incrudelisce. Viene varata la legge che prevede con l’art. 41/bis il carcere duro per i mafiosi: la reazione è violentissima. Nel 1992, con la strage di Capaci e, a ruota, di via d’Amelio, s’inaugura la stagione dello stragismo e quel poco di consenso sociale di cui il mafioso ancora gode s’incrina definitivamente. Il popolo della legalità comincia a scendere in piazza e la frase “la mafia non esiste” diventa fonte di sincera indignazione. Per quanto indebolita sul territorio – ma fino a un certo punto – la mafia (cosa e parola) si espande proteiforme, traveste realtà che nulla hanno a che vedere con la sua antica origine. Si muove sulla carta geografica: mafia cinese, mafia del Brenta, mafia albanese ecc.; oppure si presta a un uso sovraesteso annidandosi in unità polirematiche che designano generici gruppi clientelari: mafia politica, mafia della sanità, mafia del cancro, mafia del ponte, mafia del salotto buono, mafie accademiche ecc. Su quest’ultimo terreno, tuttavia, a partire dall’inchiesta di Mani Pulite (TANGENTOPOLI [1989]), il meccanismo ha incontrato la concorrenza spietata del pervasivo suffisso -poli (cfr. Arcangeli, 2008b); così, a proposito del caso Moggi & Co., non si parla tanto di mafia del pallone quanto piuttosto di calciopoli o piedi puliti, e persino di una paradossale mafiopoli del calcio che mette insieme capra e cavoli. Ma le risorse della mafia sono infinite: si fa suffissoide e diventa ecomafia, zoomafia e, recentissimo, archeomafia.

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