Daniela Santanché fu intervistata quando aveva ventidue anni, nel 1983, da una trasmissione tv che si chiamava “Viva le donne”, condotta da Amanda Lear. Le chiesero a quale programma televisivo avrebbe voluto partecipare e lei rispose: al telegiornale. Poi le chiesero cosa volesse fare da grande e lei rispose: il ministro del Tesoro.
Nell’ultimo anno, Daniela Santanché è diventata sempre più una protagonista della politica italiana, dopo essere stata trattata a lungo come un elemento di colore tra i molti di contorno allo scenario parlamentare e televisivo. Le scelte del PdL l’hanno promossa, in questi tempi “con l’elmetto”, a un ruolo comunicativo – superficiale ma poi sostanziale – che vede allargare la sua visibilità mediatica con l’allargarsi dei guai del presidente del Consiglio. E siccome in questi mesi di guai Berlusconi ne ha passati parecchi, alla fine la strategia Santanché si è rivelata ineludibile: urlare, insultare, mostrare il dito medio, dire bugie, non rispondere alle domande, sollevare argomentazioni pretestuose, eccetera. Deprecabile, ma vincente. Fino a domenica, con le sconfitte elettorali: e le successive 48 ore di considerazioni sul tema “ci ha fatto perdere la Santanché?”. Ora che tutta la stampa nazionale parla di lei, provate a pensarci: lo sapete come equando è apparsa nelle nostre vite? In molti risponderete di no: non c’è stata sempre. È arrivata a un certo punto della sua, di vita.
Provate a cercare il nome “Daniela Santanché” negli archivi storici di Repubblica e del Corriere della Sera. Su Repubblica, il primo articolo che parla di Daniela Santanché è dell’estate del 1995 ed è stato scritto a Porto Raphael, località della Costa Smeralda che Wikipedia descrive come “ampia zona fitta di macchia mediterranea dove si trova un importante porto per yacht e numerose ville blindate di personaggi importanti”. Il giornalista racconta di una festa notturna precipitosamente interrotta dall’arrivo dei carabinieri. Presenti Alba Parietti, Heather Parisi, Dalila Di Lazzaro, Eleonora Brigliadori, Umberto Smaila, Adriano Panatta, Corinne Clery. La festa è quella di Paolo Santanché, chirurgo plastico, “mago delle tette rifatte”. Scrive il cronista di Repubblica.
All’arrivo dei carabinieri di Palau nulla ha potuto neanche il vicepresidente della Camera Ignazio La Russa, uno dei 250 invitati alla cena con karaoke. “Comandi onorevole – ha risposto un militare appena il parlamentare di An si è qualificato – ma sa, qui è in vigore un’ordinanza del sindaco che vieta la musica dopo l’una del mattino. Dobbiamo procedere”. Era l’una e mezzo. Alba Parietti in abito lungo e nero aveva appena completato la sua performance canora, accompagnata dalla band locale. Poco prima Heather Parisi aveva riscosso applausi e hurrà per il suo famosissimo brano Cicale e la signora Daniela Santanché (31 anni) superava se stessa nell’intrattenimento degli ospiti.
In realtà Daniela Santanché di anni ne aveva 34. Li aveva festeggiati nell’aprile di quell’anno, e il Corriere della Sera le aveva dedicato un trafiletto.
Festa tra vip stasera alla “Gare” di via Ferrante Aporti 37.39, per il compleanno di Daniela Santanché , tra le organizzatrici doc delle notti d’estate in Costa Smeralda: centoventi invitati, ma in discoteca, più tardi (ingresso 20 mila lire) potrà accedere chiunque.
Le venti mila lire sono un dettaglio degno di nota. E comunque, come forse sapete o avete capito dall’estratto da Repubblica, Daniela Santanché alla nascita era Daniela Garnero. Nata il 7 aprile del 1961. A Cuneo.
I racconti più approfonditi sulla sua infanzia li ha fatti lei stessa nella “Daniela Story” scritta da Antonello Capurso al Foglio. Ha raccontato della sua vivacità di bambina e di due genitori particolarmente burberi e severi, che volevano mandarla in collegio e la picchiavano.
«Mia madre era l’addetta alle sberle, alle punizioni fisiche, mi tirava perfino i capelli, e mi stupisco ancora di averne tanti. Mio padre invece pensava ai castighi pesanti: via la bambola preferita, via la tv, non potevo mangiare con loro. Ma il castigo peggiore era quando venivo chiusa al buio nello sgabuzzino. Ci finivo se rispondevo male, se non rispettavo apposta gli orari che mi davano, se non raccoglievo le cose da terra. Io ci morivo, ma non facevo un plissè, una piega, e tanto meno urlavo “aprite”. Mai! Stavo lì, con tutti quegli scaffali pieni di scarpe, che non so più quante volte ho contato. E infatti erano sempre i miei fratelli che intervenivano per farmi uscire. Mia sorella, che è molto più buona di me, una santa, andava da mia mamma a dire: non sentiamo più Daniela, mamma falla uscire, Daniela poi non lo fa più. Alla fine mi aprivano, ma intanto io là dentro ero morta di paura, con il buio, le scarpe che diventavano fantasmi, e i rumori, per cui mi turavo le orecchie per non sentire nulla. E ancora adesso, per quelle cose, ho paura a restare chiusa negli ascensori»