Non conosco nessuno che non trovi affascinante ed emozionante la visione del cielo stellato. Anche la persona più pratica e disincantata, se messa nelle giuste condizioni (una notte limpida, in un posto lontano da luci artificiali), alzerà istintivamente lo sguardo verso la volta celeste e si sentirà attraversata da una corrente di sensazioni e pensieri: stupore, ammirazione, senso di limitatezza di fronte all’immensità dell’universo, interrogativi sull’origine di tutto. Passato il momento lirico, alcuni torneranno probabilmente ad essere le persone aride di sempre. Ma per altri, la visione del cielo stellato può essere davvero un’esperienza che cambia la vita. Fate la prova. La prossima volta che non saprete come trascorrere il tempo libero, in una notte serena, andatevene lontano dalla città e, semplicemente, guardate il cielo. (Certe volte penso che aver illuminato artificialmente la notte non sia stata per l’umanità solo una forma di protezione da ladri, assassini, animali feroci e altri pericoli concreti, ma anche un esorcismo nei confronti di quell’inesorabile promemoria della nostra finitezza.)
Quando ero bambino, guardare il cielo notturno al mare, d’estate, in un ambiente che era così diverso da quello cittadino in cui vivevo per il resto dell’anno, significava affacciarsi su un mondo di domande e di misteri, e forse questa è stata una delle molle più o meno inconsapevoli che da adulto mi hanno portato a fare l’astrofisico di professione. Probabilmente, nell’infanzia dell’umanità, l’astronomia è nata in modo molto simile, dalla semplice ammirazione per uno spettacolo che sembrava incomprensibile. L’universo degli antichi era piuttosto semplice. Essenzialmente era limitato a quello che si poteva vedere nel cielo di notte, a occhio nudo. Se si trattava di immaginare bizzarre divinità, paurosi fantasmi o miti complicati, la fantasia degli uomini del passato era inesauribile. Ma quando si passava dall’immaginazione alla realtà, e ci si fermava a quello che si poteva vedere, bisognava concludere che il cosmo fosse tutto sommato abbastanza limitato.
C’erano molti puntini luminosi, le stelle, apparentemente in posizioni fisse e immutabili tra loro, anche se si spostavano tutte insieme durante la notte e con le stagioni. Poi c’era qualche puntino a prima vista identico agli altri che, però, a guardarlo attentamente per un po’ di tempo, cambiava posizione rispetto alle stelle. Quelli erano i pianeti, ed erano soltanto cinque: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. In più c’era un astro strano, più grande e continuamente mutevole, la Luna. E di giorno c’era il Sole che la faceva da padrone. Tutto qui. Le stelle visibili a occhio nudo nel cielo sono meno di quante sembrino: il numero esatto dipende ovviamente dalle condizioni ambientali, ma anche in una situazione ottimale non se ne vedono più di tremila, circa, nel nostro emisfero (e altrettante nell’emisfero opposto). La maggior parte delle stelle appare addensarsi attorno a una striscia luminosa dai contorni irregolari, la Via Lattea. Per il resto, il cielo notturno è completamente buio: ciò che domina, in termini di spazio, è l’oscurità, non la luce. E a pensarci bene, lo spettacolo maestoso della volta stellata, lo stesso che ha dato origine all’astronomia e reso possibile lo studio dell’universo, è dovuto proprio al contrasto tra la miriade di minuscoli puntini luminosi e lo sfondo perfettamente scuro su cui si stagliano.
Ma probabilmente a nessun osservatore antico, armato solo della propria vista, sarà venuto in mente di poter penetrare il mistero della parte buia del cielo, di chiedersi se ci fosse altro rispetto a quello che si vedeva. All’inizio, l’astronomia fu semplicemente il tentativo di misurare e prevedere le variazioni stagionali nell’aspetto del cielo notturno: le regolarità nel moto dei pianeti e la posizione accurata delle stelle fisse. L’interesse era da un lato mitico-religioso, dall’altro pratico: un modo per orientarsi e per misurare il passare del tempo. Non si poteva fare molto di più con quello che si vede a occhio nudo. La cosa più frustrante per i primi astronomi dev’essere stata l’impossibilità di conoscere con certezza la distanza di quei punti luminosi, che pure certe volte sembrano così vicini da poterli toccare. Erano più alti delle montagne più alte, e al di là delle nuvole: ma di quanto? E cosa li teneva sospesi in cielo, cosa li muoveva?
Erano incastonati in sfere trasparenti, attaccati a fili invisibili mossi da ingranaggi complicati e impercettibili, oppure erano più leggeri dell’aria e volteggiavano come fuochi fatui o sbuffi di vapore; o ancora, erano portati in giro da spiriti o angeli, o erano spiriti e angeli loro stessi? Qualche pensatore più scaltro degli altri iniziò ad escogitare metodi per colmare lo spazio tra la terra e il cielo, e per misurare la distanza di oggetti che non possiamo toccare.
Il primo, secondo le cronache, fu Aristarco di Samo. Intorno al 250 a.C., osservando la grandezza dell’ombra che la Terra proietta sulla Luna durante un’eclissi, Aristarco riuscì a stimare il raggio della Luna in proporzione a quello terrestre. Il risultato era relativamente vicino a quello che oggi sappiamo essere il valore corretto, ma per conoscere la distanza della Luna dalla Terra bisognava prima stimare il raggio terrestre. Questo fu misurato da Eratostene, qualche tempo dopo, con un metodo semplice e ingegnoso: se si pianta un’asta di lunghezza fissa, a una certa ora e in un certo periodo dell’anno, in punti abbastanza distanti tra loro lungo un meridiano terrestre (cioè lungo la direzione nord-sud), si osserva sul terreno un’ombra di lunghezza diversa.
Dal confronto fra le lunghezze si può misurare l’angolo formato tra i due punti rispetto al centro della Terra (ovvero la loro differenza di latitudine) e quindi, conoscendo la distanza geografica tra i due punti, risalire al raggio terrestre. In pratica, la misura sfruttava direttamente la curvatura della superficie terrestre, cosa che testimonia il fatto che la sfericità della Terra fosse ben nota molti secoli prima che i navigatori circumnavigassero il globo. I pensatori antichi non erano affatto degli sprovveduti. Aristarco misurò anche la distanza del Sole dalla Terra, e di conseguenza il suo raggio: un compito decisamente più difficile, che richiedeva la misura dell’angolo formato da Terra, Sole e Luna quando quest’ultima appare nel cielo illuminata esattamente per metà.