“Il giorno della collera” in Arabia Saudita

Alberto Stabile racconta la situazione nel regno wahabita, dove domani ci sarà una grossa manifestazione contro il governo

C’è molta attesa per la manifestazione di domani a Riad, in Arabia Saudita. Alberto Stabile su Repubblica fa il punto sulla situazione politica del regno wahabita, maggiore esportatore di petrolio al mondo e alleato strategico degli Stati Uniti in Medio Oriente.

L’Arabia Saudita non ci sta a farsi contagiare, ma d’altra parte il “morbo “la minaccia da tutti i suoi confini: dalla Giordania allo Yemen, dal Bahrein all’Oman. E allora, dopo aver speso qualche parola per esaltare «il dialogo», come «il mezzo migliore per affrontare i problemi della società», il ministro degli Esteri, Saud al Feisal, non diversamente dal Colonnello Gheddafi, evocalo spettro dell'”untore”: «I cambiamenti – dice – verranno attraverso i cittadini sauditi e non attraverso dita straniere. Noi taglieremo qualsiasi dito che oserà penetrare nel regno».

Non ci vuol molto ad intuire che dietro al parallelismo delle “dita straniere” si nasconde il timore di un complotto iraniano.

Domani, venerdì undici marzo, dovrebbe essere il giorno della “collera” saudita. Dopo una serie di tentativi abortiti, i firmatari (si dice oltre 25mila) di tre petizioni coincidenti nel reclamare libertà, migliori condizioni di vita e una monarchia costituzionale, dovrebbero ritrovarsi in piazza sfidando il divieto di ogni manifestazione imposto dal ministro dell`Interno e la fatwa prontamente emanata dagli ulema, idepositari del verbo divino, secondo cui la pubblica protesta è contraria al Corano e alla legge religiosa (sharia).

Di rimando, gli attivisti che hanno aderito alla mobilitazione, una variegata schiera di militanti dei diritti umani, islamisti moderati, intellettuali, hanno voluta battezzare la giornata come “La rivoluzione di Hunayn”, dal nome della località, presso la Mecca, dove nel 633 d.c. Maometto combatté e inaspettatamente, con l’aiuto divino, vinse la battaglia contro una coalizione di tribù beduine. Il messaggio, in sostanza, è che i rapporti di forza contano fino ad un certo punto.

In realtà, le voci provenienti dal regno, rimbalzate su alcuni media occidentali, dicono che il regime ha risposto agli appelli apparsi sui social network schierando sul terreno 10mila uomini soprattutto nella regione di Qatif, quella più ricca di petrolio, dove si concentra la minoranza sciita (fra il 5 e il 10% della popolazione).

Sarebbe gli sciiti, secondo lo schema delle “dita straniere”, ad agire come cavallo di Troia della manovra iraniana.

Tuttavia, soltanto una piccola parte delle rivendicazioni avanzate dai firmatari degli appelli può essere ricondotta alla minoranza sciita. Ad esempio, la liberazione dei prigionieri politici arrestati da anni e detenuti senza processo. Ma per il resto, le richieste di libere elezioni degli organi di governo, diritto di espressione, libertà di formare partiti politici, monarchia costituzionale, lotta alla corruzione, sono rivendicazionitipichedellasocietà civile tuttae non sono dissimili da quelle lanciate al Cairo, a Tunisi, a Manama, a Sana’a, o a Bengasi.

(Continua a leggere sulla rassegna del governo)