Le elezioni a Chicago

Mattia Ferraresi sul Foglio racconta gli scontri e i colpi bassi fra i candidati a sindaco della città

Nella città del vento, “quella tetra città” come diceva Saul Bellow nelle “Avventure di Augie March”, c’è una riproduzione in scala della Casa Bianca. Il bianco delle pareti non è altrettanto candido e ormai tende al grigio topo per quelle consuetudini di confine nell’amministrazione del potere che negli Stati Uniti sono l’eccezione, a Chicago la regola. Dentro la riproduzione della Casa Bianca ci sono Rahm Emanuel, l’ex chief of staff di Barack Obama e ora candidato sindaco; Richard Daley, il sindaco figlio di sindaco che ha regnato per venticinque anni sull’impero dell’Illinois e suo fratello William, ex banchiere ora chief of staff di Obama. Fra circa un mese arriveranno il superconsigliere di Obama, David Axelrod, l’uomo di Rahm, Jim Messina, l’ex portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs e molti altri fuoriusciti da West Wing, pronti per salire negli uffici di Michigan Avenue e organizzare la campagna per la rielezione di Obama. E’ la macchina di Chicago che torna per ricordare a tutti chi è che comanda. A Chicago è nata una generazione politica di successo: i suoi membri si sono fatti le ossa nei meccanismi perversi della città di Al Capone, sono passati al non meno sordido ambiente dello stato dell’Illinois e sono arrivati a Washington con l’intenzione di plasmarla a immagine della loro città. Obama è il prodotto di una macchina che ora torna indietro per consolidare il feudo originario.

In città però c’è un’altra macchina politica, un’altra tribù uguale e opposta a quella che sostiene la corsa di Rahm Emanuel, un coacervo di potere altrettanto democratico ma molto meno glamour che ha approfittato degli avversari distratti per affondare le radici nelle falde più succose della città. Sono magistrati, poliziotti, palazzinari, giornalisti, politici di professione, agitatori culturali, portaborse, broker del mercato agricolo e insieme formano una coltre compatta che ricopre lo skyline della città. In questa macchina c’è Gery Chico, il capo di gabinetto dell’attuale sindaco, e principale antagonista di Emanuel nella corsa per il sindaco; si dice che sia stato proprio Chico a ispirare l’azione legale di un oscuro avvocato di nome Burt Odelson, il primo che ha presentato le carte per dimostrare che Rahm non aveva mantenuto la residenza a Chicago nell’ultimo anno, e quindi non poteva essere candidato. Giovedì sera questa macchina ha subito il suo colpo più duro: la Corte suprema dell’Illinois ha stabilito che la candidatura di Rahm è legittima, lasciando metà della città nello sconforto più nero, l’altrà meta a organizzare baccanali.
Quando la colomba ha portato il ramoscello d’ulivo, Rahm Emanuel era nel quartier generale con i suoi uomini più stretti a riguardare gli ultimi appunti prima del dibattito elettorale. Un coro di suonerie telefoniche ha accompagnato la notizia che si aspettava a ore, tutt’al più nel giro di qualche giorno. Cade il cavillo della residenza, cade la precedente sentenza della Corte d’appello, cadono le polemiche trasversali e simultaneamente cadono anche le possibilità di vittoria per gli altri candidati, tutti democratici. Non c’erano certezze di ferro, ma qualcosa era nell’aria.

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