Sulla testa di Bondi

La mozione di sfiducia contro il ministro porta con sé duelli personali, casi umani, appelli emotivi, questioni istituzionali, ruderi di Pompei e rese dei conti

La mozione di sfiducia nei confronti del ministro Bondi è una specie di bomba a orologeria: è già stata presentata, era stata calendarizzata, è stata rinviata, col nuovo anno sarà nuovamente calendarizzata e poi discussa e votata. Il suo potenziale politico è indiscutibile, considerata la posta in gioco: da una parte l’opposizione non può permettersi di perdere un’altra volta una simile battaglia d’aula, dall’altro lato il governo rischia di dimostrare immediatamente l’estrema fragilità della sua maggioranza parlamentare e perdere un pezzo politicamente molto rilevante.

La data del voto deve ancora essere fissata: la mozione di sfiducia su Bondi fa parte del lotto delle cose in sospeso che la Camera affronterà la prossima settimana, ma è l’ultima nell’ordine stabilito dalla conferenza dei capigruppo. Questo vuol dire che con ogni probabilità sarà rinviata e votata alla ripresa dei lavori dopo le feste, a gennaio. Nel frattempo ci si organizza, ci si prepara, si cerca di arrivare a quel giorno in una posizione di forza.

Ottenuta la fiducia da parte del Parlamento insieme al resto del governo, il ministro Bondi è stato tra i primi a chiedere le dimissioni di Gianfranco Fini da presidente della Camera. Il giorno dopo, poi, letti sui giornali alcuni retroscena che parlavano di “riunioni segrete” durante le quali Fini avrebbe discusso la mozione di sfiducia al ministro della cultura, Bondi prende e scrive nientemeno che al presidente della Repubblica, denunciando “un’abnorme commistione tra l’imparzialità del presidente della Camera e la leadership di un gruppo parlamentare” mettendo in dubbio il ruolo di “garanzia istituzionale” di Gianfranco Fini, che risponde smentendo le ricostruzioni dei giornali e garantendo equilibrio e imparzialità. A Bondi arriva poco dopo anche la risposta ufficiale del Quirinale. Lo racconta il Corriere della Sera.

Il Quirinale telefona, nella persona del segretario generale. Spiegando al ministro, sostanzialmente, che la mozione di sfiducia individuale ha un proprio corso in Parlamento, e quindi di aver sbagliato destinatario della missiva. […] Il Quirinale è il destinatario sbagliato della protesta. L’indirizzo giusto è la conferenza dei capigruppo della Camera, dove la mozione di sfiducia individuale contro il ministro è stata già valutata, discussa e calendarizzata. Tradotto: i numeri hanno dato disco verde al voto in aula sulle sue dimissioni, Bondi eviti di gettare la croce addosso a Fini.

La reazione di Bondi è scomposta, per quanto il tema della compatibilità di Gianfranco Fini col doppio ruolo di presidente della Camera e combattivo leader d’opposizione esiste di certo: negli ultimi tempi l’hanno posto esplicitamente, tra gli altri, il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, e il direttore scientifico della fondazione FareFuturo, Alessandro Campi. Non proprio due berlusconiani, ecco. L’irruenza di Bondi però non aiuta a inquadrarla, e anzi permette a Fini di smarcarsi con gran facilità da accuse e sospetti.

Poi stamattina il Foglio pubblica una lettera del ministro della Cultura indirizzata al PD che chiede le sue dimissioni. Bondi la prende larghissima, parla del suo passato nel PCI e della sua adesione “con entusiasmo, passione e totale condivisione” alla politica di Enrico Berlinguer. Parla del suo abbandono della sinistra dovuto all’avanzare “dell’estremismo più demagogico, al giustizialismo più becero e al laicismo più sfrenato” e poi arriva, finalmente, al tema che lo riguarda direttamente.

Qualsiasi discorso sui contenuti, sia pure da prospettive diverse, risulta impossibile e passa sempre in second’ordine. Così è stato sulla questione della cultura. Mi è stato impossibile, in parte forse anche per miei errori personali, ma soprattutto credo per un clima di ostilità preconcetta che ha subito circondato il mio lavoro. Le difficoltà economiche, all’origine dei tagli che hanno colpito anche la cultura, hanno fatto il resto. Tutto questo però giustifica una mozione di sfiducia individuale nei miei confronti? Qual è la ragione per cui la presentate? I crolli avvenuti a Pompei? Non posso crederci. Sapete bene che altri crolli sono avvenuti nel passato, e probabilmente avverranno anche nel futuro, senza che a nessuno passi per la testa di chiedere le dimissioni del ministro pro tempore alla Cultura. Mi imputate forse la colpa di non aver chiesto con la necessaria forza e determinazione maggiori fondi alla cultura? Anche questo non corrisponde alla realtà. L’ho fatto e nei prossimi giorni sarò probabilmente in grado di annunciare alcuni risultati ottenuti per quanto riguarda il rifinanziamento degli incentivi fiscali a favore del cinema e del fondo unico per lo spettacolo. Tuttavia, desidero rivendicare anche un mio diverso approccio alle questioni culturali, che non ritengo si esauriscano nella richiesta di maggiori fondi, ma soprattutto nella realizzazione di profonde e necessarie riforme del settore, come ad esempio quella riguardante la riforma degli enti lirici. Non posso credere che per la sinistra questo sia un motivo sufficiente per chiedere le mie dimissioni, attraverso una mozione di sfiducia individuale.

La lettera si conclude con una preghiera ai “principali leader della sinistra”, “Bersani, Veltroni e Fassino” di ritirare la mozione, “un atto parlamentare così spropositato, pretestuoso e dirompente sul piano umano”. Riecheggia qui la discussione dello scorso novembre sul fatto che la mozione di sfiducia nei confronti di Bondi si avvicini a “un caso umano” più che politico: ma se i “leader della sinistra” sono in prima fila nell’opposizione parlamentare che lo vuole sfiduciare, la stessa cosa si può dire di Alleanza per l’Italia, del Movimento per l’Autonomia, dell’UdC e di Futuro e Libertà. Forze politiche di orientamento più o meno conservatore, piene zeppe di ex alleati di Bondi e Berlusconi, alle quali l’accusa di “giustizialismo becero” e “laicismo sfrenato” non si addice affatto.

Le due faccende che pone Sandro Bondi sono serie, concrete e interessanti: il ruolo istituzionale di Gianfranco Fini e le proprie responsabilità da ministro della cultura. Se continuerà ad affrontarle in modo così sgangherato e sentimentale, però, difficilmente ne caverà qualcosa da qui al giorno in cui la Camera sarà a chiamata a esprimersi sul suo caso.