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I social media servono a cambiare il mondo?

Malcolm Gladwell sul New Yorker si chiede se l'attivismo online serva davvero a cambiare le cose

"Con i social media è più facile esprimersi, ma è più difficile avere un impatto concreto"

Qualche settimana fa, sopraffatti dal proliferare di appelli e petizioni digitali, ci eravamo chiesti quale fosse il valore reale dell’attivismo online e se, in ultima analisi, l’impegno da clic compulsivo potesse davvero servire a cambiare il mondo. Sull’ultimo numero del New Yorker, Malcolm Gladwell – esperto di cose di internet e autore tra gli altri di The Tipping Point (pubblicato in Italia da Rizzoli con il titolo “Il punto critico”) – torna sull’argomento con un lungo articolo in cui approfondisce ulteriormente la questione, concludendo che i social media, per la loro stessa natura, non sono in grado di fornire quello di cui il cambiamento sociale ha da sempre bisogno.

La sua analisi parte da un lontano pomeriggio del 1960, quando quattro ragazzi neri al primo anno di università al Nord Carolina A. & T. chiesero un caffè al bancone di un piccolo supermercato di Greensboro. «Non serviamo negri qui», rispose la cassiera. La risposta non aveva nulla di strano all’epoca, e sicuramente non era il primo episodio di razzismo che i quattro ragazzi subivano: la segregazione razziale era ancora molto forte negli Stati Uniti e i neri erano rigidamente separati dai bianchi in ogni attività quotidiana. Ma quel giorno per la prima volta, quei quattro ragazzi non fecero finta di niente. E decisero di non spostarsi più da quel bancone finché non fossero stati serviti. Nei giorni successivi centinaia di altri ragazzi neri si unirono a loro in quello che oggi viene considerato l’inizio del movimento studentesco afroamericano, e in poche settimane decine di altri sit-in di protesta si diffusero in tutto il sud del paese.

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«Quali erano gli elementi che resero quella protesta così forte?», si chiede Gladwell. Quei ragazzi non avevano Facebook, non avevano Twitter, e nemmeno le email, nemmeno gli sms. Eppure la protesta si diffuse come una febbre, coinvolgendo in tutto oltre settantamila studenti e imprimendo una svolta decisiva alla lotta per i diritti dei neri negli Stati Uniti (il Civil Rights Act sarà introdotto quattro anni dopo). Quello che fece davvero la differenza non fu il fervore ideologico – come si potrebbe pensare – ma il fatto che ognuno dei volontari che partecipavano alle manifestazioni dovesse fornire una lista di contatti personali, persone che avrebbero voluto informare del proprio impegno. Le forme di attivismo che funzionano – «ad alto rischio», scrive Gladwell – hanno bisogno di legami interpersonali forti.

Uno studio sulle Brigate Rosse in Italia ha dimostrato che il settanta per cento delle nuove reclute aveva almeno un amico all’interno dell’organizzazione. Lo stesso è vero degli uomini che si uniscono ai mujahideen in Afghanistan. Quindi un fattore cruciale nel caso di Greensboro fu che tutti e quattro quei ragazzi – David Richmond, Franklin McCain, Ezell Blair, and Joseph McNeil – si conoscevano bene. McNeil era compagno di stanza di Blair, McCain era compagno di stanza di Richmond. E Blair, Richmond e McCain erano tutti andati alla stessa scuola superiore. Sapevano bene che cos’era successo a Emmett Till nel 1955 (un ragazzo nero brutalmente assassinato per motivi razziali, ndr) e che cosa era successo su quell’autobus a Montgomery nello stesso anno (Rosa Parks si rifiutò di cedere il posto a un bianco, dando inizio al famoso boicottaggio degli autobus di Montgomery, ndr). Fu McNeil a lanciare l’idea del sit-in a Woolworth. Ne avevano discusso insieme per quasi un mese. Poi una sera chiese agli altri se fossero pronti. Ci fu una pausa, poi McCain disse: «Non sarete mica dei polli?». Se il giorno dopo Ezell Blair trovò il coraggio di chiedere un caffè a quel bancone, fu perché si sentiva spalleggiato dal suo compagno di stanza e dai suoi due amici di scuola.

Il tipo di attivismo prodotto dai social media non funziona in questo modo, spiega Gladwell. I social network sono piattaforme costruite intorno a legami deboli. Twitter è un modo di seguire – ed essere seguiti – anche persone che non si sono mai viste prima. Facebook è un ottimo strumento per gestire in modo efficiente le tue conoscenze, non i tuoi amici, per restare in contatto con quelle persone che altrimenti perderesti di vista. Su Facebook puoi avere anche mille amici, cosa che non potrebbe mai succedere nella vita reale.

È tutto meraviglioso: c’è una grande forza nei legami deboli, come ha osservato il sociologo Mark Granovetter. I nostri conoscenti – non i nostri amici – sono spesso la più grande fonte di nuove idee e informazioni. Internet ci ha aiutato a sfruttare il potere di queste connessioni a distanza in modo meraviglioso. Ma i legami deboli raramente portano a forme di attivismo ad alto rischio. È questo che gli evangelisti dei social media non riescono a capire. Sembrano credere che un amico su Facebook sia la stessa cosa di un amico reale e che firmare una petizione online equivalga a sedersi al bancone di un locale a Greensboro negli anni sessanta. I social network sono particolarmente efficaci nell’aumentare la motivazione delle persone, dicono. Ma questo non è vero. I social network servono ad aumentare la partecipazione diminuendo il livello di motivazione che quella stessa partecipazione richiede.

La pagina Facebook di Save Darfur Coalition ha 1.282.339 membri, che in media hanno donato nove centesimi di dollaro a testa. La seconda grande organizzazione pro Darfur su Facebook ha 22.073 membri, che hanno donato in media 35 centesimi di dollaro a testa. Help Save Darfur ne ha 2.797, che hanno donato in media 15 centesimi a testa. Un portavoce di Save Darfur Coalition ha detto a Newsweek, «non possiamo misurare il valore delle persone sulla base di quello che hanno donato, sono persone che informano le loro comunità, partecipano agli eventi, fanno volontariato: non è qualcosa che si può misurare con una scala». In altre parole, l’attivismo su Facebook non funziona motivando le persone a fare un vero sacrificio, ma motivandole a fare quelle cose che le persone fanno quando non sono abbastanza motivate per fare un vero sacrificio.

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