La cosa giusta

Il diario di Riccardo Luna sulla conclusione newyorkese della campagna per il Nobel a Internet

di Riccardo Luna

Pensieri in corsa, per fermare i ricordi prima che scappino via. L’abbraccio con Shirin Ebadi al suo arrivo, Nicholas Negroponte in posa con la maglietta “I am a Nobel Peace Prize Candidate”, il video incredibile che ci era giunto nella notte da Pisa: la bandiera di Internet for Peace che sventola in cima alla Torre più famosa del mondo. Tanto, troppo per non commuoversi.

Dunque era martedì, poche ore fa, ma un altro giorno, un altro tempo ormai. Io sono arrivato al Paley Center for Media alle nove, ma ero sveglio dalle sei. Se dicessi che non ero emozionato direi una bugia. Ma anche se dicessi ero emozionato in fondo direi una bugia. La verità è che ero pietrificato dall’emozione. Se mi aveste visto a mezz’ora dal via, mi avreste visto mentre saltavo a piedi uniti sul palco come se dovessi partire per una maratona. E in fondo lo era. Solo che ero alla fine. Stavo per chiudere dieci mesi di campagna per il Nobel a Internet, a New York, nella giornata mondiale della Pace. Era un sogno? E soprattutto, l’evento avrebbe “funzionato”? Un conto è fare una cosa in Italia, dove più o meno sappiamo come muoverci, un altro negli Usa. Non avevamo fatto neanche una prova tecnica ed io avevo predisposto una scaletta “lunare”, piena di cambi di ritmo, video, sorprese. Per questo sono arrivato al teatro alle 9: per incontrare i ragazzi che avevamo preso per la produzione (la società di chiama eventquest, ve li raccomando): Laurence, il capo, ed una sua assistente con l’auricolare che mi ha dato subito un’idea di grande efficienza. Abbiamo messo in fila tutto, e alcune cose le ho viste lì per la prima volta.

Intanto, il teatro. Bello, davvero, con il pubblico che ti sale davanti, duecento posti, e un grande schermo alle spalle del podio. La sera prima di noi qui c’era Bill Gates che lanciava una iniziativa per la Fondazione di Mandela. Quando siamo arrivati alla fine della scaletta, ovvero al video che ha vinto il contest lanciato su YouTube – parla delle lacrime di un calciatore coreano – ho sentito un groppo in gola: altro che coreano, qui vedranno le mie di lacrime se non mi controllo.

Tranquilli. Mi sono controllato.

Alle 11 è arrivata Shirin, sorridente, semplice, tostissima. L’avevo incontrata il giorno prima nel suo hotel e mi aveva detto: “Quanto tempo ho per il mio discorso? Un’ora?”. No Shirin, un’ora è tutto il tempo che abbiamo a disposizione. La considero ormai una amica, e le sono infinitamente grato per aver guidato la campagna per il Nobel dal primo giorno, lei che ogni giorno della sua vita si batte per difendere i diritti umani dei più deboli.

L’arrivo di Nicholas Negroponte mi ha illuminato: non lo sentivo da un po’ e anche se via mail aveva confermato la presenza, vederlo lì, carismatico al massimo, è stato bello. L’ho presentato alla Ebadi: “Lui è Nicholas! Ti ricordi che volevi conoscerlo per mandare i computer di OLPC ai bambini iraniani?”. “Sì, ma la situazione politica si è molto complicata”, ha sorriso lei. “Appunto, Shirin, è il momento giusto per mettere dei laptop in mano ai bambini” è intervenuto Negroponte suadente. Poi sono rimasti a parlare fitto fitto (Shirin con la sua inteprete per l’inglese) e credo che nascerà qualcosa di buono. Alle 11.30, l’ora prevista per iniziare, la sala non era piena, peccato, e qualcuno mi ha detto: aspettiamo un quarto d’ora, in Italia si fa così. Non a New York: Laurence è comparso dalla regia e mi ha intimato: Two minutes! Ok, respiro.

Per non iniziare “a secco” avevo deciso di far partire subito il video-manifesto che Paolo Iabichino aveva realizzato all’inizio di questa avventura. “Abbiamo finalmente capito…”. Erano quelle parole il motore di tutto, era giusto così. Quando le luci si sono riaccese, nel silenzio più assoluto ho iniziato così: “So…”. L’inglese mi usciva meccanico, come se le frasi facessero una fatica immensa per passare attraverso i cunicoli dell’emozione prima di vedere la luce. Ma uscivano. Ed erano quelle giuste.

A New York finiva – per ora -un lungo viaggio. Esattamente dieci mesi prima, il 21 novembre, in un altro teatro, a Milano, avevamo per la prima volta detto che Internet è un’arma di costruzione di massa. Quel manifesto era diventato una candidatura al Nobel. Quella candidatura una discussione infinita. Questo celebravamo a New York: il fatto che per trecento giorni filati, ogni giorno, quasi ogni ora, qualcuno, da qualche parte del mondo avesse scritto un post, girato un video, aggiunto un commento, mandato un tweet per parlarne. C’erano i favorevoli, naturalmente, e i contrari, ma poi c’erano quelli che dicevano: “Strana idea ma mi piace, comincerò a considerare Internet anche da questo punto di vista, comincerò a usarlo per costruire un mondo migliore”. Ecco, quelli erano i più importanti.

Ho preso fiato. In scaletta avevo messo subito un video molto bello, che mi serviva a recuperare lucidità e calma, ed a scaldare l’atmosfera. Avevo fatto montare in un’unica clip tutti i messaggi giunti sul canale YouTube: tutti in un unico discorso, uomini e donne, di tutto il mondo che provavano a convincere chi li stava guardano che sì Internet merita il Nobel. Il più bello purtroppo lo avevo dovuto tagliare: veniva dal Peru, un papà e il figlio che da un paesino sulle Ande parlano di quanto per loro sia importante “essere connessi”. Le parole erano formidabili ma le immagini troppo sgranate. Il primo, lungo applauso della mattina mi ha riaccolto sul palco.

Era il momento di Shirin, del suo keynote speech. Per spiegare perché avevamo scelto lei quale first ambassador del progetto ho usato una immagine bellissima, di una ragazza iraniana con scritto sulla parte interna delle labbra “Blog On” (grazie a Gabriella Morelli e a Good Design per avermela mandata al volo). Shirin è stata momumentale: ha ricordato i fatti iraniani, il ruolo della Rete, ha citato Amadinejad senza citarlo, lo ha chiamato “il presidente”: “Dice che l’Iran è il paese più libero del mondo ma grazie alle rete sappiamo che non è vero”. L’ho trovata ancora più convinta del ruolo positivo di Internet rispetto a quanto la campagna iniziò. Si è sbilanciata: “Internet merita il Nobel, quest’anno non ci sono altri che lo meritano di più”. Poi ha raccontato che il presidente del comitato di Oslo le ha detto che nessuna candidatura nella storia del Nobel ha avuto tanti consensi come questa. Io l’ho abbracciata di nuovo mentre il pubblico applaudiva “un vero premio Nobel per la Pace”, e io promettevo solennemente di aiutarla nelle prossime campagne che sta per lanciare.

Toccava a Negroponte. Mi aveva chiesto di avere in background una foto di due ragazze che a Gaza usano i laptop verdi di OLPC. Nicholas è stato funambolico, come sempre. Domina la scena. Ci ha raccontato di quando, qualche anno fa, ad una riunione con quelli che si occupavano di Internet (“all’epoca ci conoscevamo tutti per nome”), si fece una previsione su quante persone nel mondo avrebbero usato Internet nel 2010. “Diecimila? Centomila? Io dissi un miliardo e tutti scoppiarono a ridere”. Sono tornato sul palco e ho dato a Nicholas la maglietta ufficiale “I’m a Nobel Peace Prize Candidate”, un auspicio, magari sarà lui a ritirare il premio ad Oslo. Assieme abbiamo chiamato Maria Emma Mejìa: un’altra donna da ricordare, è stata ministro in Colombia ed ora è executive president della Fondazione di Shakira “Piez Descalzos”, che porta i computer ai bambini colombiani. “Credo che così potremo costruire la pace nel mio paese”. Nicholas le ha dato un laptop, lei un quaderno con le foto dei bambini. Applausi.

Poi un altro video, a sorpresa anche per me. Arrivava da Parigi dove venerdì c’era stato il concertone di Peace Now! Jude Law spiegava perché anche lui, anche loro, sostengono il Nobel per la Pace a Internet. Io non lo conosco Jude Law, perché lo faceva? Mi ha colpito la sua determinazione, e mi ha fatto piacere.

A quel punto in scaletta sarebbe stato il momento di Yoani Sanchez. Ma come sapete Castro le ha negato il permesso di venire. Allora ho mostrato una la lettera che aveva mandato a Wired a febbraio, e visto che alla platea avevo già inflitto il mio inglese, ho chiesto ad una amica latino americana che era fra il pubblico, di leggerla in spagnolo. E’ stato bello.
Ho quindi aperto la pagina dedicata al ruolo dell’Italia, citando i 160 parlamentari che hanno sostenuto la candidatura e ho dato la parola al professor Riccardo Viale, neo direttore dell’Istituto italiano di Cultura a New York. “Anche io sono con voi”, ha concluso e assieme abbiamo guardato il video più incredibile che possiate immaginare. La Torre di Pisa circondata da bambini con la nostra maglietta e il sindaco che fa un discorso dalla cima mentre sventola la bandiera I4P: “Questa città è la culla dell’informatica italiana e sostiene il Nobel a Internet”. Eravamo stupefatti. E io ormai tranquillo, il più era andato.

Finale con Google, il loro direttore Public Policy a Washington Alan Davidson, reduce dall’Internet Governance Forum di Vilnius. Il suo discorso, pratico e realista, mi ha consentito di aggiungere, che va bene il Nobel, va bene il dibattito, ma adesso dobbiamo impegnarci per i due obiettivi che contano davvero: la banda larga a tutti e la libertà sulla Rete. Abbiamo chiamato sul palco Sean Kim, il vincitore del contest di YouTube: è coreano, vive in North Carolina e si occupa di social network. Se vi capita, il video guardatelo: è clamorosa la produzione che ha messo su in quattro continenti. Il sapore è molto “we are the world” della Rete, ma è efficace. Impressionante. Mi spiace per i secondi classificati, italiani, con la musica dei Tre Allegri Ragazzi Morti: bello anche il loro lavoro ma i coreani non si battevano.

Saluti, ringraziamenti, dediche, ve li risparmio. Due piccole note. Nel pomeriggio New York pullulava di eventi politici per il Millennium Development Goal delle Nazioni Unite. Si parlava di cose grosse insomma. Mi ha intristito vedere un nostro ministro passare un tempo interminabile in un negozio downtown, Uniqlò, ed uscirne con una ventina di buste aiutata da due uomini dei servizi segreti a caricarle su un Suv. Non sono un moralista, credetemi, ma mi piacerebbe che un ministro che è a New York per lavoro, si occupasse delle sorti del mondo. Almeno provasse a dare un contributo. Per lo shopping c’è tempo e momenti più opportuni. Seconda nota: ho caricato su Facebook una mia foto “dopo”, sfatto ma felice. Forse più sfatto che felice. Qualcuno guardandola ha commentato preoccupato: “Sei invecchiato 10 anni”. Forse sì, ma non importa: sto bene, mi porto nel cuore la sensazione impagabile di aver avuto la fortuna di poter fare la cosa giusta.

Internet vista dal cielo (la prima puntata del diario)
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