Ogni mattina in Italia ha luogo un rituale che unisce il paese intero, dal Piemonte alla Sicilia. Mamme, nonni, studenti fuori-sede, single, omosessuali, tutti indistintamente compiono un unico gesto dove non c’è ombra di razzismo. Fare la spesa. Scegliere i prodotti tra i banchi di un supermercato, di un mercato rionale o di una salumeria e poi tornare a casa a preparare il pranzo oppure la cena. E, senza che se ne abbia la consapevolezza, spesso dietro a quel rituale incombe l’ombra della criminalità organizzata. Anzi, molto più che un’ombra. Dall’antipasto a base di mozzarella di bufala, agli spaghetti alle vongole; e per secondo un’ampia varietà di scelta: spigola all’acqua pazza, filetto di “Sandokan” o bistecca connection. Per chiudere con la frutta al percolato e gli immancabili gelato e caffè. Neanche un rinomato chef potrebbe elaborare un “menù della camorra” così perfetto.
È tutto vero: nessuno li vede, nessuno li ha invitati, ma spesso si cena con i boss. Sono loro a imporre marchi e prodotti, a scegliere il menù. I clan sono in grado di soddisfare anche i palati più esigenti. Forniscono di tutto. Noi paghiamo, loro incassano. Un giro d’affari di circa 70 miliardi di euro l’anno. Di fatto una tassa occulta sui prodotti, una tassa che pesa sulle tasche degli ignari consumatori e che arricchisce i trentuno clan che hanno le mani in pasta. La faccia concreta di una mafia ingorda e insaziabile che agisce in ogni comparto, dalla coltivazione alla vendita, altera la libera concorrenza, influenza i prezzi di mercato, scarica i costi sul portafoglio dei cittadini e sfrutta il mondo del lavoro. Difficile da sanare, complicato da contrastare. Le attività criminali in questo settore si intrecciano e si confondono con quelle legali attraverso un complesso sistema di relazioni che coinvolge il contesto sociale, la struttura economica e quella istituzionale.
La camorra fa la parte da leone, e a tavola è seduto il gotha: dai Fabbrocino ai Mazzarella, dai Casalesi ai Mallardo, dai Vollaro ai D’Alessandro. Le inchieste della magistratura, le relazioni della Direzione investigativa antimafia e della Direzione distrettuale antimafia hanno rintracciato la mano della camorra su tutto: carni macellate, acqua, latte e latticini, frutti di mare, caffè. Prevale chi alla torrefazione abbina finanziarie per l’avvio dei bar, condizionandoli poi per anni. Ma la camorra controlla perfino il mercato dei mangimi per gli animali.
Il meccanismo lo ha spiegato Franco Roberti, ex della DDA di Napoli, oggi procuratore capo a Salerno, in un’audizione alla Commissione parlamentare antimafia: «I commercianti sono costretti a trattare questo o quel prodotto, questo o quel marchio, ma ricevono spesso dei vantaggi. Acquistano a prezzi abbordabili perché la camorra compra in grandi quantità e sottocosto. Ricicla. I commercianti hanno poi il vantaggio dell’esclusività. Si eliminano i concorrenti. Si crea un regime di monopolio». E a pagare sono solo i consumatori: i prezzi, tra pizzo e tangente, continuano a salire senza nessuna garanzia sulla qualità dei prodotti. Non è questione di gusti. E nemmeno di prezzo. È solo uno sporco affare. L’ennesimo affare di camorra.
Le linguine ai datteri proibiti
Un bel giro in costiera amalfitana. Sole, mare e tanta bellezza. E alla fine della giornata è d’obbligo una sosta al ristorante. Come farsi scappare un bel piatto di linguine con i datteri? In Campania, ma soprattutto nella “divina costiera”, è un marchio doc, da primato nella hit parade dei buongustai. Un piccolo grande “vizio” proibito, vietato, e per questo ancora più gustoso. Basta poco, ma bisogna trovare il ristorante giusto, l’amico che ti conosce.
Tutto è scientificamente studiato: nel menù non lo trovi, ma se sei un cliente affezionato e fidato, è probabile che il cameriere ti sussurri all’orecchio «Dotto’ abbiamo freschi freschi i datteri della penisola… una delizia». E al palato, si sa, non si comanda. Giusto il tempo necessario per la cottura e al tavolo verrà servito un piatto profumato di linguine ai datteri… fuorilegge.
Non tutti lo sanno – o, per meglio dire, i più fanno finta di non saperlo – ma la pesca, la detenzione e la commercializzazione dei datteri di mare sono vietate per legge. Off limits. E nonostante questo, ogni anno in Italia vengono raccolte tra le 80 e le 180 tonnellate di datteri, equivalenti a 6-15 milioni di individui e a 4-10 ettari di fondali desertificati. La loro pesca determina la totale distruzione delle scogliere in cui vivono: i datteri vengono raccolti spaccando e sminuzzando la roccia con picconi, scalpelli e addirittura martelli pneumatici. Uno scempio ambientale di cui siamo anche noi, inconsapevolmente – ma quanto? – responsabili. Ogni volta che ordiniamo un bel piatto di linguine ai datteri, causiamo la distruzione di 16 individui, equivalenti a un quadrato di fondale di 33 centimetri di lato. Scempio ambientale e criminale. Basta farsi un giro a ridosso delle festività natalizie nei mercati storici di Napoli per trovarli esposti sui banchi a ben 100 euro al chilogrammo. Gli stessi finiranno nel piatto di linguine che il ristoratore selvaggio ti piazza anche a 30 euro. Un giro d’affari colossale da circa un milione e mezzo di euro l’anno. Business per i soliti noti, personaggi spesso collegati alla criminalità organizzata. Agiscono nella penisola sorrentina, a Capri, a Punta Campanella. Il lavoro dei “datterai” si trasmette di generazione in generazione e non conosce periodi di crisi. Sono stabiesi, torresi, salernitani. Sono loro ad avere l’esclusiva. I datteri sono “cosa loro”. Nella sola area della penisola sorrentina e della costiera amalfitana sono circa cinquanta quelli che, ogni giorno, armati dei loro arnesi da lavoro – scalpello e martello – distruggono le meraviglie e la vita dei nostri mari.
La giornata dei datterai inizia alle prime luci dell’alba. Con piccoli scafi veloci, muniti di tutte le dotazioni di sicurezza del caso, partono da Castellammare di Stabia in provincia di Napoli, nell’area denominata “acqua della madonna” e approdano in qualsiasi punto della costa: da Sorrento a Salerno, isola di Capri compresa. Anche tra gli abitanti della costa non mancano quelli che si dedicano a questa criminosa attività: è il caso di alcune rinomate località come Seiano, Massa Lubrense e Praiano. Ogni scafista lascia uno o due subacquei sotto costa, quindi si allontana, anche per centinaia di metri e aspetta l’ora concordata per il recupero, che avviene di solito dopo 4-5 ore. Il datteraio si inabissa nei fondali marini e armato di un pesante martello bipenna, ma anche di picozze e martelli, frantuma indisturbato la parete rocciosa. Quando la tana del mollusco è sufficientemente aperta, lo cattura con una piccola pinza. I datterai sono capaci di consumare anche dieci bombole in una sola giornata. E per non essere visti in superficie, adottano un semplice stratagemma: affondano il recipiente in cui sono conservati i datteri. Anche i bambini hanno un ruolo in questa azione criminale: spesso, infatti, gli scafi “ospitano” minorenni e donne per disorientare le forze dell’ordine, inscenando una bella gita in barca.
Il giro di affari è notevole, i rischi vicini allo zero. Ciascun datteraio preleva in media 20 chilogrammi di datteri al giorno che rivende a 40 euro al chilogrammo, per un guadagno totale di 800 euro. Il periodo di attività, che un tempo era di sei mesi l’anno, ora non conosce sosta. Compiuto il saccheggio, i predoni del mare ritornano alla base e scaricano la preziosa merce praticamente indisturbati. Sul molo prestabilito in partenza, ad attenderli c’è l’intermediario di turno. Qui avviene lo scambio della merce. Il pagamento è rigorosamente in contanti. Quindi si carica il bottino, destinazione i vari luoghi di smistamento. E da lì verso i clienti privati, i ristoranti e le pescherie.