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  • Mercoledì 8 settembre 2010

Il processo per il massacro delle Filippine

Il 23 novembre 2009 furono uccise 59 persone, il più grande massacro di giornalisti della storia

Oggi nelle Filippine è cominciato il processo per il cosiddetto massacro di Maguindanao, la strage dello scorso novembre che è ricordata come il più vasto assassinio di giornalisti mai accaduto e il più grave massacro politico nella storia delle Filippine.

Il massacro avvenne il 23 novembre 2009 nella cittadina di Ampatuan, provincia di Maguindanao. Esmael Mangudadatu, candidato a governatore della provincia di Maguindanao, riceveva da tempo minacce di morte e temeva per la sua incolumità, mentre si avvicinava il termine per la consegna ufficiale dei documenti per la candidatura. Decise allora di far consegnare i documenti da una vasta carovana di persone, tra cui sua moglie, le sue sorelle e diversi giornalisti, avvocati, assistenti e suoi collaboratori. A un certo punto il convoglio venne intercettato da un commando armato composto da oltre un centinaio di persone, e le automobili – comprese due che non avevano a che fare con Mangudadato e semplicemente passavano di là – furono deviate su un’altra strada.

La moglie di Mangudadatu fece in tempo a inviare un sms a suo marito, dicendo di avere riconosciuto in alcuni componenti del commando gli uomini di Andal Ampatuan, sfidante di Mangudadatu alle elezioni. Molti testimoni oculari confermeranno la stessa partecipazione di Ampatuan all’azione, che avrebbe anche schiaffeggiato la moglie di Mangudadatu. Tutti i componenti del convoglio vennero uccisi brutalmente: le donne ricevettero diversi colpi di pistola all’altezza dei genitali. La moglie di Mangudadatu ricevette il trattamento peggiore: le infilzarono gli occhi, le spararono sul seno, le tagliarono un piede e poi le spararono in bocca. I massacratori scavarono delle buche e seppellirono tutto: i corpi delle persone uccise e le automobili. Durante le operazioni di occultamento un elicottero del governo di Maguindanao sorvolò la zone e si accorse di quello che stava accadendo, attirando l’attenzione delle autorità. Saranno ritrovati i corpi di 57 persone, tra cui 34 giornalisti.

La presenza di Ampatuan sul luogo del massacro e il suo coinvolgimento diretto fu immediatamente confermata da diversi testimoni oculari. Ampatuan si è sempre dichiarato innocente. Due giorni dopo il massacro fu espulso dal suo partito insieme ad altri due membri della sua famiglia, una settimana dopo la presidente delle Filippine, Gloria Arroyo, proclamò la legge marziale nella provincia. Le forze armate troveranno vari depositi di armi riconducibili al clan di Ampatuan, che qualche giorno dopo fu arrestato con l’accusa di omicidio. Ampatuan dice che quelle armi erano in possesso della sua guardia personale – la cosa nelle Filippine è piuttosto consueta: molti politici locali dirigono piccoli eserciti paramilitari per proteggersi dagli attacchi dei separatisti islamici – e che al momento del massacro si trovava da un’altra parte. Insieme a lui sono oggi sotto accusa altre 18 persone: 195 sono quelle coinvolte nelle indagini di cui 127 ufficialmente sospettate di aver preso parte al massacro.

Il primo testimone ascoltato dal processo, Manette Salaysay, era un membro della servitù della famiglia Ampatuan. Ha raccontato della presenza del padre e del fratello di Ampatuan durante una riunione del 17 novembre che pianificava l’attacco. Durante la riunione avrebbe sentito Andal Ampatuan dire “Uccidiamoli tutti”. Il dialogo è confermato da un altro testimone: il padre di Ampatuan avrebbe chiesto ai suoi figli come fermare Mangudadatu. Questi avrebbero risposto ridendo e dicendo: “È facile: uccidiamoli tutti”. Diverse associazioni umanitarie e a difesa della libertà di stampa assistono al processo, garantendo assistenza ai familiari delle vittime: nei giorni scorsi hanno denunciato vari tentativi di intimidire i testimoni da parte del clan di Ampatuan, nonché quelli dei loro avvocati di ritardare il più possibile il dibattimento.