Le pubblicità ingannevoli sull’aborto

Negli Stati Uniti le cliniche abortive si confrontano con i centri per la maternità

di Arianna Cavallo

Qualche giorno fa negli Stati Uniti è andato in onda “12th and Delaware”, un documentario della Hbo ambientato a Fort Pierce, una cittadina in Florida dove sulla stessa strada si fronteggiano da una parte una clinica per aborti e dall’altra un centro per la maternità, in cui gli anti-abortisti cercano di convincere le donne a non abortire. Di norma, questo genere di cliniche dovrebbe convincere le donne a non abortire offrendo sostegno medico ed economico. Il documentario mostra però come queste cliniche tentino però di manipolare e influenzare le decisioni delle donne pubblicizzando in modo scorretto le loro attività o fornendo informazioni mediche sbagliate.

La questione è nota anche in Italia, dove da anni si discute del lavoro dei cosiddetti “centri di aiuto alla vita” all’interno dei consultori, la cui attività è regolata dalla legge 194. Negli Stati Uniti il tema è molto più sentito di quanto non sia in Italia, e l’opinione pubblica è nettamente divisa tra i cosiddetti pro-life, cioè gli anti abortisti, e i pro-choice, cioè le persone che si battono per la libertà di scelta.

Del lavoro dei centri per la maternità si è occupato anche Time, che ha raccontato come i Crisis Pregnancy Centers (CPC) compiano operazioni subdole – descrivere l’intervento chirurgico con particolari vividi e cruenti, fare apparire sullo schermo dell’ecografia la scritta “Ciao Mamma” – o apertamente mistificatorie, sostenendo che l’aborto aumenti le probabilità di avere un cancro al seno, una tesi che trova la comunità medica in forte disaccordo. Anche a causa di questo genere di episodi, quest’estate sono stati fatti diversi tentativi di regolamentare l’uso ingannevole che i CPC fanno della pubblicità. L’organizzazione Feminist Women’s Health Center, favorevole alla libertà di scelta sull’aborto, descrive così questo genere di attività:

“Questi gruppi vogliono essere il primo contatto, i primi a essere cercati quando una donna pensa di essere incinta, così da poterla persuadere a non abortire. I centri contro l’aborto si trovano nella sezione delle Pagine Gialle dedicata alle ‘alternative all’aborto’, ma in realtà non forniscono nessuna alternativa. Molti offrono test di gravidanza o consulenze sulla maternità, come mezzo per avvicinare le donne e convincerle a recarsi al centro. Su internet adottano anche dei nomi ingannevoli come prochoice.com o pregnancycenter.com”

Il risultato è che molte donne che intendono recarsi in una clinica abortiva o vogliono ricevere una consulenza finiscono invece in un CPC, dove sono costrette a guardare spot e filmati contro l’aborto, a pregare con lo staff del centro, e dove in alcuni casi vengono seguite fino a casa e tormentate da telefonate o email, sempre secondo quanto racconta l’organizzazione.

Il problema era già emerso nel 2006, quando la democratica Carolyn Moloney presentò al Congresso una proposta di legge con l’obiettivo di obbligare i CPC a realizzare pubblicità chiare e trasparenti. La deputata spiegava che i CPC “hanno il diritto di esistere ma non quello di ingannare gli altri per favorire le proprie convinzioni”. La legge non venne mai discussa e una volta terminata la legislatura venne cancellata dai registri; a giugno la deputata Moloney e il senatore democratico Bob Menendez l’hanno ripresentata.

Secondo l’organizzazione Naral, favorevole alla libertà di scelta sull’aborto, i centri che si servono di falsi annunci pubblicitari sono circa il 2,5 per cento del totale. Nonostante si tratti di una percentuale piuttosto bassa, quest’estate l’organizzazione ha lanciato una campagna per garantire che gli annunci non vengano inclusi tra i servizi che offrono aborti o tra quelli delle cliniche mediche, a meno che i centri siano forniti di impianti medici autorizzati.

Nel corso dell’ultimo anno Naral ha svolto un’indagine sui CPC dello Stato della Virginia, da cui è emerso che il 67 per cento dei centri fornisce informazioni mediche sbagliate, come per esempio che tutti i preservativi sono difettosi o che non proteggono dall’AIDS. Il rapporto è stato presentato nell’università locale e ha convinto gli studenti a proporre una direttiva che obblighi i CPC a esplicitare le loro tendenza anti-abortista negli annunci all’interno del campus. Durante l’autunno Naral presenterà il rapporto in altre tre università della Virginia.

L’organizzazione non ha però ottenuto lo stesso successo con i legislatori della Virginia, che hanno criticato i suoi metodi di indagine, si sono rifiutati di varare qualsiasi regolamentazione al modo di farsi pubblicità dei centri e hanno invece approvato una risoluzione in cui i CPC vengono lodati per la loro integrità e per la quantità di soldi, circa un milione di dollari, che hanno impiegato per sostenere le donne che si erano rivolte a loro.

Time riporta la versione di CareNet, uno dei più grandi centri americani per la maternità, che precisa di servirsi della pubblicità in modo onesto e di chiarire sin da subito che non pratica aborti. Il presidente dell’associazione ha dichiarato al settimanale che “qualsiasi decisione prenda la donna, è comunque ben accetta”. Time ha provato ad avvicinare anche i dirigenti del centro protagonista del documentario della Hbo, che però si sono rifiutati di rilasciare un commento.